Pensare di ricostruire in un contesto rivoluzionato i funzionamenti di quello vecchio a forza di leggi non solo è perdente, ma crea guai peggiori
Chi ripone grandi speranze nella rete non ha più voglia di spiegare ciò che ormai è dato leggere anche nelle premesse delle peggiori leggi internetticide. «La rete è l’ambito delle nuove libertà e dei nuovi diritti»: il Presidente di AGCom esordisce decantando le meraviglie del medium, poi passa al sodo, e spiega sul Corriere delle Comunicazioni come proteggerà la rete: da se stessa.
L’Italia è agli ultimi posti in Europa quanto a sviluppo, diffusione e utilizzo della rete internet. Nel mare in tempesta della crisi economica, ci si aspetterebbe una particolare attenzione per il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che, a buon diritto e in tutto il mondo, è considerato strategico per portar la nave fuori dai marosi. L’Europa ha adottato una complessa agenda digitale nell’ambito dell’ambizioso piano 2020. Il nostro governo se ne era dimenticato. La rete ha emendato proponendo una (sua) agenda digitale italiana.
Eppure nelle istituzioni una certa attenzione nei confronti della rete e del web c’è, ma si ha netta l’impressione che il nostro paese stia remando orgogliosamente nella direzione sbagliata. Basta analizzare le ultime proposte di legge (destinate grazie a Dio al nulla parlamentare) e le pseudo leggi in arrivo dalle Autorità Indipendenti (che fanno ciò che in parlamento non si riesce a fare, essendo sì “indipendenti”, ma anche dai processi democratici e dalla Costituzione) per capire come il web sia visto dai nostri policy maker: un problema da risolvere e regolamentare piuttosto che una risorsa da sviluppare favorendo in primis coloro che la abitano e la fanno fruttare, non solo economicamente.
Diamo un’occhiata alla recente proposta di legge C. 4549 a firma dell’On. Centemero – «Modifica degli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, in materia di responsabilità e di obblighi dei prestatori di servizi della società dell’informazione e per il contrasto delle violazioni dei diritti di proprietà industriale operate mediante la rete» – assegnata alla X Commissione Attività Produttive il 12 settembre, oppure il prossimo “regolamento” AGCom a tutela del diritto d’autore e capiamo che non basta decantare le meraviglie della rete per favorirne lo sviluppo.
Entrambe le proposte, come altre giacenti, si fanno carico delle preoccupazioni dei titolari dei diritti d’autore e connessi e vogliono arginare la pirateria. Missione encomiabile se non fosse per alcuni difetti strutturali e alcuni sgradevoli effetti collaterali che rendono le proposte una pesante zavorra per lo sviluppo di internet e soprattutto dei servizi della società dell’informazione. Per quanto ci si possa ingegnare, non si può pensare infatti di tutelare sul web i diritti come conferiti dall’attuale legge sul diritto d’autore: è una legge vecchia, che con il web non ha nulla a che fare e che ormai non tutelerebbe più gli autori e l’atto creativo, ma una filiera produttiva nata in era pre-digitale: una normativa stravolta all’unico fine di permettere ai detentori della cultura di monetizzare e controllare i loro prodotti commerciali per un tempo tendente all’infinito. Senza nuove norme sul copyright di respiro internazionale, ogni iniziativa locale di lotta alla pirateria non solo sarà vana, ma sarà foriera di danni per il paese che vi si avventura con faciloneria.
Controllare internet, ammesso che si possa farlo, è un’ambizione di molti, primi fra tutti i politici ed i governi. Anche per questo, la lobby dei titolari dei diritti (che solo raramente sono gli autori) trova complicità nei nostri impreparati regolatori, che vedono nella rete un terreno infido e, appunto incontrollato. Quando poi l’industria dell’entertainment coincide soggettivamente con il potere politico, non può neppur parlarsi di lobbying o di pressioni.
Tutti dunque a difendere il diritto d’autore, ignari delle implicazioni e dei contesti. All’inizio del secolo (questo) si è tentato di criminalizzare gli utenti, ovvero i nuovi fruitori delle opere: se spacci un film scaricato o lo detieni per uso non personale (espressione identica è contenuta nella legge sugli stupefacenti) ti becchi la galera. La sanzione è minore rispetto allo spaccio di droga, “solo” fino a 4 anni di reclusione: forse perché la circolazione della cultura – per quanto si provi a equipararla a un furto – manca dell’effetto desocializzante proprio dell’eroina: viceversa, fa bene alla collettività e all’economia di sistema. Ma qui il discorso diverrebbe una lotta di cifre tra i danni da pirateria ed i benefici di una maggior flessibilità nelle libere utilizzazioni e del pubblico dominio. Per fortuna, (ed inevitabilmente), il tentativo di criminalizzare un’intera generazione di nativi digitali è già fallito e così con le ultime proposte, legislatori e para-legislatori si avventurano su un altro terreno. Se non si possono colpire i fruitori, si blocchino e si controllino i flussi della rete nei colli di bottiglia costituiti dagli internet service provider. Gli intermediari della comunicazione siano responsabili dei contenuti che veicolano. Se non controllano, o controllano male, sanzioniamo direttamente loro, per i reati, le viltà e le indecenze degli utenti.
Questo è l’approccio che sorregge le due normative da ultimo proposte.
Ma se la società autostrade dovesse controllare la legittimità di ogni cosa che gli utenti trasportano sulla sua rete (autostradale), ai caselli le code sarebbero infinite. Si creerebbero corsie preferenziali per gli utenti certificati, o per i privilegiati, e i costi e i tempi di percorrenza varierebbero a seconda del maggiore o minor controllo in entrata o in uscita. È intuitivo, e non è necessario tirar in ballo la neutralità della rete o i fondamenti di internet.
Ma se la società autostrade dovesse controllare la legittimità di ogni cosa che gli utenti trasportano sulla sua rete (autostradale), ai caselli le code sarebbero infinite. Si creerebbero corsie preferenziali per gli utenti certificati, o per i privilegiati, e i costi e i tempi di percorrenza varierebbero a seconda del maggiore o minor controllo in entrata o in uscita. È intuitivo, e non è necessario tirar in ballo la neutralità della rete o i fondamenti di internet.
Il regime di irresponsabilità e l’assenza di un dovere di controllo per alcuni prestatori di servizi (i fornitori di accesso come gli operatori di telefonia, i siti di memorizazione temporanea o gli aggregatori di contenuti come i social network o le piattaforme di condivisione) ha invece fondamento in una direttiva comunitaria e risponde ad esigenze primarie di funzionamento della rete, o almeno della rete come l’abbiamo sino ad ora conosciuta. Nella risoluzione del Parlamento europeo sulla governance di internet pubblicata il 12 agosto scorso sulla gazzetta ufficiale dell’Unione Europea si legge al punto tredici che il Parlamento
«Invita i governi ad evitare di imporre restrizioni all’accesso internet mediante censura, blocchi, filtri o con altri mezzi e ad astenersi dal chiedere ad enti privati di farlo; insiste sulla necessità di salvaguardare un internet aperto, in cui gli utenti abbiano la facoltà di accedere all’informazione e diffonderla o di eseguire le applicazioni e i servizi di loro scelta, come stabilito nel quadro regolamentare riformato delle comunicazioni elettroniche».
A Strasburgo non sanno che di proposte come quella dell’onorevole Centemero sono pieni i cassetti della XVI legislatura, da quella sul Comitato per la tutela della legalità nella rete internet, che secondo la proposta C 2195 (Carlucci) «adotta, con proprie deliberazioni, le disposizioni e le regole tecniche necessarie, in relazione alle caratteristiche della rete internet, per l’applicazione delle norme…» sino alla «vigilanza…sulla moralità (sic) del contenuto dei siti della rete internet» previsto dalla proposta S.664 (Butti). Tutti testi che non vedranno mai le rotative della Gazzetta Ufficiale ma che hanno comunque un effetto immediato: nessun prestatore di servizi internet dotato di buon senso stabilirà mai la sua impresa in un paese che ha una visione della rete come quella che trapela da queste inutili invenzioni legislative.
La proposta Centemero di modifica della normativa sul commercio elettronico presentata in duplice copia – prima da un esponente della Lega e poi dalla deputata del PdL – non merita commento tecnico per l’assoluta inconsistenza giuridica che reca seco, ma deve esser stigmatizzata per l’inevitabile effetto che può determinare anche solo quale proposta, in un settore che sarà economicamente decisivo, ma che l’Italia si ostina a deprimere.
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