Oltre i populisti tv, la mappa
politico-culturale (non banale) degli euroscettici in doppiopetto.
«La
disoccupazione giovanile? Si risolve agendo contro l’euro. Se si svaluta del
20-30 per cento, il lavoro ritorna perché l’Europa diventa competitiva. Ci sono
due strade: o si agisce sulla moneta o si tagliano ancora di più i salari.
Vogliamo portarli a duecento euro al mese? C’è qualcuno che pensa di farcela?».
«Essendo
politicamente improponibile fare sopravvivere le economie più deboli con
trasferimenti dal nord, bisognerà fare quello che la teoria economica dice che
si deve fare quando delle economie non hanno i requisiti per stare insieme:
semplicemente separarle».
Sono
due affermazioni simmetriche, ma provengono da persone che più diverse non si
può, quanto a profili professionali e posizioni politiche. La prima sembra
l’analisi di un keynesiano di sinistra, la seconda di un ortodosso della scuola
germanica. Entrambe cantano il de profundis alla grande scommessa: creare
una moneta senza sovrano e approfondire l’unione tra Paesi e popoli cominciando
in qualche modo dalla fine. Ebbene, una frase è di Alberto Bagnai, professore
associato all’università di Pescara diventato un araldo, brusco e ciarliero,
degli anti-euro italiani. L’altra è di Marine Le Pen che macina successi in
Francia chiedendo libertà di manovra per gli stati nazionali e tutto il potere
ai francesi (ma per il momento non diciamo per il momento chi ha detto che cosa).
Sinistra
e destra unite nella lotta di qua e di là dalle Alpi? Colpa della crisi
economica che non finisce mai di finire. Colpa di una moneta che anziché unire
divide. Colpa di una fase storica nella quale, uscito di scena il Grande Nemico
(comunista) si è persa la necessità e l’urgenza di formare una identità, un
popolo, uno stato europeo. Certo è che in vista delle elezioni del maggio
prossimo, in tutti i Paesi una pluralità di forze politiche e culturali sta
maturando una sorta di piattaforma trasversale che ha per comune denominatore
il ritorno alla moneta e alla sovranità nazionale.
È una
novità. Ed è una novità nella novità che l’Italia, già considerata un po’ per
ignoranza un po’ per pigrizia mentale il più europeista dei Paesi, entra di
gran carriera nella pattuglia degli anti-euro.
Le
ragioni di questo cambiamento sono molte, alcune del tutto evidenti. Più tempo
passa più si capisce che il Paese non ce la fa a tenere il passo: la moneta è
troppo forte, il debito troppo alto e la classe dirigente troppo debole. La
politica neo-mercantilista della Germania, i giudizi intrisi di luoghi comuni
della sua stampa, le apparizioni televisive di corrispondenti tedeschi con il
ditino alzato e l’aria da maestrini saputelli, autentici sgarbi e sgambetti
(come quelli dei quali è stata vittima Unicredit che ha la colpa di aver osato
comperare la
Hypovereinsbank che prima nessuno voleva e adesso in molti
ambiscono di riavere), e via via continuando; tutto ciò ha favorito questo
rovesciamento del mood nazionale in chiave non solo germanofobica, ma
decisamente eurofobica.
Paolo
Savona ha sviluppato una serie di critiche puntuali alla Banca centrale
europea, al fiscal compact, al rifiuto di mettere in comune i debiti, insomma
alle più gravi debolezze della euro-costruzione e ha presentato anche un vero e
proprio manifesto per riformare le istituzioni e le politiche dell’Unione.
Savona è in sintonia con diversi economisti che provengono dalla Banca d’Italia
e non hanno condiviso la linea Ciampi-Paoda Schioppa prevalsa in Italia gli
anni ’90.
È
vero, fu Guido Carli (del quale Savona è stato a lungo il braccio destro)
a firmare il Trattato di Maastricht, ma è toccato a Carlo Azeglio Ciampi
negoziare l’ingresso nella moneta unica, il tasso di conversione della lira, i
tempi e i modi. Proprio allora si è aperta una ferita mai ricomposta. Di
recente, commemorando Paolo Baffi, molti portavano ad esempio il modo in cui
l’allora governatore negoziò l’adesione della lira al sistema monetario europeo
nel 1978, ottenendo il massimo di flessibilità per la valuta italiana. Anche se
non fa parte dello stesso circolo intellettuale, su un fronte simile si ritrova
Antonio Fazio che da governatore gestì con abilità e lealtà la politica
monetaria abbattendo l’inflazione e creando le condizioni per l’adesione, ma
non cessava di mettere in guardia dalla troppa fretta: l’Italia a suo avviso
non era pronta. Una posizione condivisa, tra gli altri, da Cesare Romiti e da
Giuseppe De Rita.
Nella
schiera degli anti-euro in doppiopetto vanno inseriti a pieno titolo i
monetaristi di scuola americana come Antonio Martino il quale ricorda sempre
quando Martin Feldstein scriveva che la moneta unica non avrebbe retto alla
prima seria crisi, in sintonia con un keynesiano duro e puro come Paul Krugman.
Sembra un paradosso, ma negli Sati Uniti è difficile concepire una moneta senza
la piena disponibilità di usarla per tamponare la congiuntura sfavorevole,
contenere l’inflazione, aumentare l’occupazione, finanziare le imprese e le
famiglie. O far fronte alle obbligazioni dei governi. È vero, a differenza
di una certa vulgata, anche negli Usa, dalla metà dell’Ottocento, in seguito a
una catena impressionante di default, i singoli stati sono obbligati al
pareggio annuo del bilancio. Dunque, non è la banca centrale a farsi carico
della loro incapacità di finanziare le spese con le entrate. Tuttavia esiste un
governo federale che eroga i trasferimenti ai cittadini. I contadini del
Midwest non possono sopravvivere senza i sussidi della politica agricola decisa
a Washington. Ciò vale anche per i disoccupati o chi tira avanti con il
welfare.
Gli
europei, invece, sono lacerati dal dilemma della sovranità: se non esiste un
principe sovranazionale allora è meglio tornare ai principi nazionali, se non
si può fare una federazione allora meglio una confederazione di stati
dall’Atlantico agli Urali, come diceva il generale de Gaulle e come rilancia
oggi Marine Le Pen. Un’alternativa paralizzante, perché nessuno è in grado di
compiere il passo decisivo in una direzione o nell’altra, tanto meno Angela
Merkel.
La
politica tedesca è accusata di egoismo un giorno sì un giorno no dalle colonne
diLibero, delGiornale, delFatto quotidiano, dell’Unità. Molte critiche
nascondono un mascheramento dell’amara verità: la maggioranza degli italiani
non solo non è in grado, ma non vuole ridurre l’assistenzialismo, aumentare gli
orari di lavoro e l’efficienza, contenere i privilegi, tagliare le rendite.
L’Italia è davvero più ricca della Germania, come dice la Bce , se mettiamo insieme anche
il patrimonio immobiliare, ed è altrettanto vecchia; ma è più immobile, perché
i tedeschi hanno difeso il loro modello rinnovandolo. Un tasso di
disoccupazione tra il 5 e il 6% appena non è frutto solo della modesta
crescita, ma anche di un mercato del lavoro più flessibile ed efficiente.
La
crisi dell’euro non sta solo negli errori della sua costruzione, ma è anch’essa
conseguenza della globalizzazione - hanno sottolineato alcuni
interlocutori nel dibattito della Fulm. L’economia sociale di mercato è fondata
su un patto per dividere il valore aggiunto tra salari e profitti in modo
consensuale e dentro i confini nazionali, con l’intervento protettivo dello
stato. È questa la base sulla quale poggia una banca centrale eccentrica
rispetto a tutte le altre, a cominciare dalla Federal Reserve e dalla Bank of
England, il cui scopo è garantire la stabilità monetaria e sociale, invece
dell’instabile sviluppo. Dietro il totem del rigore, insomma, non c’è solo
l’ossessione per l’iperinflazione di Weimar, ma la difesa del neocorporativismo
nato negli anni ’60-’70. Ebbene, proprio tutto questo sistema viene spiazzato
dalla concorrenza dei Paesi in via di sviluppo, dalla mobilità del capitale su
scala mondiale e dalla tecnologia. Non sfugge neppure il Modell Deutschland.
Ma
dall’euro si può uscire? Alla domanda non ci sono risposte facili. Molti, a
cominciare da Bagnai, sostengono che non è poi un gran problema: la nuova lira
verrebbe svalutata del 30% e ciò aiuta l’export. Altri stimano che
l’aggiustamento sarebbe molto più drastico, almeno il 40 o il 50% secondo i
calcoli dell’Ubs. Quanto all’export, rappresenta solo un quinto del prodotto
lordo. Il resto verrebbe schiacciato dalla conseguente inflazione e dalla
distruzione della ricchezza. Non si può trascurare, infatti, l’effetto sui
risparmi denominati in euro; Argentina docet, un’Argentina la cui inflazione
ancor oggi resta incalcolabile tanto che sia la Banca Mondiale sia
il Fondo Monetario ritengono inaccurata qualsiasi cifra. In più, occorre
chiudere le frontiere, istituire un controllo sui movimenti dei capitali e sui
cambi, insomma abbandonare anche il mercato unico europeo.
Giorgio
La Malfa
ammette che il protezionismo diventa un corollario quasi inevitabile. Del
resto, le politiche keynesiane sono entrate in crisi quando gli stati nazionali
non hanno più potuto manovrare in autonomia il fisco e la moneta. Savona
ritiene che bisogna darsi in ogni caso una exit strategy, se non altro per
aumentare la propria capacità contrattuale a Bruxelles e a Francoforte. E si
chiede: «Ma veramente la Banca
d’Italia e il Tesoro non l’hanno preparata sia pure come ipotesi di scuola?».
È una domanda cruciale. Perché quel che poi interessa alla gente, al di là
delle dispute dottrinarie, è se la fine dell’euro sarà la luce fuori dal tunnel
o la porta verso il baratro finale.
I
fenomeni monetari, ricordava lo storico Marc Bloch, «a un tempo barometri di
movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse, si
collocano tra i più degni di attenzione, i più rivelatori, i più carichi di
vita». Per questo il dibattito sull’euro è cruciale. Gli anti lo hanno capito
meglio dei pro i quali, un po’ per timore di toccare nervi scoperti un po’ per
supponenza, hanno evitato di scendere in campo con la stessa passione e la
stessa efficacia.
PS.
Ogni indovinello che si rispetti deve avere la sua soluzione: la prima frase è
di Marine Le Pen, la seconda di Alberto Bagnai.
(Fonte)
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