Il debutto della "macchina del fango" ma il processo non svela i mandanti
Questo è il racconto di come una matassa fatta di faccendieri
prezzolati, di agenti segreti deviati, di uomini della politica e
dell'informazione compiacenti abbia messo in piedi la trappola che
doveva decapitare l'opposizione di centro-sinistra in Italia. Di come
un'inchiesta giornalistica abbia smontato la trappola e di come quella
verità giornalistica si sia trasformata, otto anni dopo, in verità
processuale. E del perché quella verità sia ancora incompleta.
ROMA - Cosa è stata "l’operazione Telekom Serbia"? Perché, a otto anni di distanza dall’inchiesta con cui Repubblica
svelò la macchinazione che doveva decapitare, screditandola, l’intera
leadership del centro-sinistra e intimidire l’allora capo dello Stato
(Carlo Azeglio Ciampi), è utile tornare a illuminare questa vicenda?
Giuseppe D’Avanzo, che a quell’inchiesta lavorò, ancora nell’autunno
dello scorso anno, scriveva: "Quella che si mosse nel 2003 fu la madre
delle operazioni lavorate dalla macchina del fango". Un giudizio che
aveva solide fondamenta in una "verità giornalistica" a tal punto
insormontabile che, il 10 novembre scorso, è diventata anche una verità processuale.
La quinta sezione del Tribunale di Roma ha infatti condannato quel
giorno a dieci anni di reclusione per "associazione a delinquere
finalizzata alla calunnia" l’uomo che dell’operazione Telekom è stato
maschera e ventriloquo: Igor Marini, sedicente conte, già facchino al
mercato ortofrutticolo di Brescia, improbabile brasseur d’affaires e
altrettanto improbabile testimone di accusa di una Commissione
parlamentare d’inchiesta utilizzata come strumento di intimidazione
politica.
Il processo di Roma ha reso dunque giustizia ai fatti.
Che vale la pena riassumere nella loro sostanza. L’8 gennaio del 2003
(Silvio Berlusconi è da poco più di un anno tornato alla Presidenza del
Consiglio dopo cinque anni all’opposizione), un anonimo segnala alla
Commissione parlamentare di inchiesta sulla vicenda Telekom Serbia che
uno sconosciuto avvocato romano, Fabrizio Paoletti, e un altrettanto
sconosciuto mediatore d’affari, Igor Marini, custodiscono il segreto
delle tangenti che, nel 1997, avrebbero facilitato la disastrosa
acquisizione da parte della Stet del 29 per cento di Telekom Serbia,
azienda telefonica del regime di Slobodan Milosevic.
Passano
quattro mesi, e il 7 maggio di quell’anno sul proscenio di Palazzo San
Macuto si affaccia Marini. L’uomo si auto accusa di aver riciclato 55
milioni di dollari in tangenti, distribuendole agli allora leader del
centro-sinistra: Francesco Rutelli, Lamberto Dini, Walter Veltroni,
Piero Fassino, Clemente Mastella, Romano Prodi. Trascina in una
grottesca spedizione in Svizzera una delegazione della Commissione (che
verrà arrestata dalle autorità elvetiche). Indica quali prove
documentali a sostegno dell’operazione garanzie bancarie, evidenze
fondi, pay order di congregazioni apostoliche americane. E’ carta
straccia. Falsi grossolani in qualche caso costruiti al personal
computer. Che anche un bambino riconoscerebbe come tali, ma che la
maggioranza di centro-destra della Commissione parlamentare non solo non
svela, ma contribuisce a legittimare. Accompagnata da un’assordante campagna stampa del quotidiano di famiglia Il Giornale, che alle rivelazioni del sedicente conte dedica trentadue titoli di apertura.
La Grande Calunnia di cui Marini si fa ventriloquo diventa una giostra
su cui salgono avventurieri di ogni tipo. Una corte dei miracoli dove
fanno capolino sacerdoti, notai, avventurieri serbi, e in cui cerca
fortuna anche un figuro come Antonio Volpe, un salernitano del ’56 che
va dicendo in giro di essere stato collaboratore dei Servizi, già
coinvolto in inchieste per traffico di titoli falsi e riciclaggio, in
odore di massoneria, presidente di una sedicente organizzazione
umanitaria “White Elmets”. Volpe, nelle intenzioni degli architetti
della Grande Calunnia, dovrebbe essere l’uomo che “riscontra” le accuse
di Marini, arricchendole dei grotteschi “nomi in codice” che
accompagnano i farlocchi documenti bancari e indicano i destinatari
delle tangenti: “Mortadella” (Prodi), “Ranocchio” (Dini), “Cicogna”
(Fassino). In realtà, l’apparizione di Volpe è la faglia che fa franare
definitivamente l’improbabile castello di menzogne costruito sin lì e
che convince la Procura di Torino a trasformare Igor Marini da testimone
d’accusa in indagato per calunnia (il processo verrà quindi trasferito
a Roma per competenza).
Otto anni dopo, tuttavia, non tutte le domande poste all’epoca da Repubblica
hanno trovato una risposta. A cominciare dalle più importanti. Quelle
sui mandanti. L’istruttoria che ha portato alla condanna di Igor Marini
e della sua compagnia di giro non ha infatti saputo o potuto risalire
agli architetti di quell’operazione. Ne ha ricostruito il “format”, che
avremmo visto nuovamente dispiegato negli anni successivi, ma non ha
saputo indicarne con certezza l’artefice o gli artefici.
Nell’”Operazione Telekom”, i pubblici ministeri Giuseppe De Falco e
Francesca Loy individuano le impronte digitali di una Politica che si fa
ricatto, violenza privata e pubblica, abuso. Ma tutto questo non
diventa materia da codice penale, perché quella Politica non accetta né
di farsi processare, né di testimoniare.
Nella loro
requisitoria, De Falco e la Loy, non usano perifrasi: "Purtroppo -
dicono - le indagini non hanno potuto dar conto di cosa ci sia sotto la
calunnia e il sottobosco in cui germoglia. Né del perché personaggi
come Marini abbiano formato oggetto di così attenta valutazione
parlamentare. E questo non è stato possibile anche perché il presidente
della Commissione parlamentare d’inchiesta, onorevole Enzo Trantino
(An), ha ritenuto di doversi avvalere in questo processo di un
improbabile segreto d’ufficio che a suo giudizio vincolerebbe gli atti
della Commissione parlamentare". "Le calunnie mosse nel caso Telekom
Serbia - aggiungono - configurerebbero, di per sé il reato impossibile,
tanta la loro inverosimiglianza e palese falsità. E tuttavia, proprio
l’uso politico che ne è stato fatto le ha trasformate in arma di grande
impatto sulla vita politica del nostro Paese. Per queste ragioni sono
calunnie della cui gravità assoluta deve tenere conto la pena che verrà
inflitta".
Il Tribunale di Roma, lo abbiamo visto, la massima
pena l’ha inflitta. Conviene tuttavia annotare il silenzio assordante su
quest’esito processuale di chi era allora maggioranza di governo e
sedeva in maggioranza in quella Commissione, la quale, per altro, chiuse
i suoi lavori senza avere neppure la forza di rassegnare uno straccio
di conclusione al Parlamento. Conviene ricordare i nomi di chi, a San
Macuto, legittimò nei fatti quella calunnia, facendosene cassa di
risonanza, ovvero preferì tacere per disciplina di partito. Parliamo di
deputati e senatori della quattordicesima legislatura che, in più di un
caso, sarebbero diventati di lì a qualche anno chi ministro della
giustizia (Alfano e Nitto Palma), chi ministro per la Semplificazione
normativa (Roberto Calderoli), chi sottosegretario alla Difesa (Guido
Crosetto).
Eccoli: Enzo Trantino (An); Enrico Nan (Forza Italia);
Luigi Bobbio (An), Giuseppe Bongiorno (An); Roberto Calderoli (Lega);
Giampiero Cantoni (Forza Italia); Francesco Chirilli (Forza Italia);
Giuseppe Consolo (An); Antonio Pasinato (Forza Italia); Aldo Scarabosio
(Forza Italia); Guido Ziccone (Forza Italia); Angelino Alfano (Forza
Italia); Italo Bocchino (An); Guido Crosetto (Forza Italia); Francesco
Nitto Palma (Forza Italia); Gustavo Selva (An); Carlo Taormina (An);
Alfredo Vito (Forza Italia).
Quando Berlusconi disse: ''I miei giornali? Solo moderazione''
È il 23 maggio 2003 e Berlusconi si 'difende' a Porta a Porta sul
caso Sme. Mentre annuncia che rimarrà al suo posto, rilancia il caso
Telekom Serbia. Chiede chiarezza e, pur dichiarandosi un garantista,
dice: "Bisogna fare piena luce su un affare che fu tutta una tangente".
Nel salotto di Vespa difende anche l'operato dei propri giornali e la
"moderazione" con cui hanno trattato il caso. In realtà il "Giornale"
sbatte il mostro in prima pagina per 32 volte consecutive.
(da inchieste.repubblica.it di CARLO BONINI 29 novembre 2011)
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