mercoledì 19 ottobre 2011

Stato sociale sovrano, o vinceranno violenti e finanza


Rilevo nei “demolitori” di piazza san Giovanni una qualità superficiale e un limite di fondo. La qualità sta nella rapidità. L’onda di una rivolta distruttiva cresce in Europa ogni giorno, con accelerazioni improvvise. E’ interessante notare che, sul piano strettamente visivo, questi “riots”, queste azioni rivoltose, sembrano le uniche in grado di colpire alla stessa velocità dei famigerati mercati finanziari. In termini puramente simbolici, le fulminee azioni della guerriglia urbana danno cioè l’illusione di essere le uniche capaci di tener testa al ritmo forsennato della speculazione finanziaria, che
abbatte i prezzi dei titoli, aumenta i tassi d’interesse e offre un alibi ai governi che colpiscono il welfare e il lavoro. Potremmo dire, insomma, che a un primo sguardo i “demolitori” sembrano i soli in grado di “colpire veloci” come gli speculatori.
La qualità cui ho fatto cenno è apparente, del tutto illusoria, puramente coreografica. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che essa risalta di fronte all’affanno dei tradizionali movimenti di massa e ancor più delle istituzioni politiche. Quando i “demolitori” dichiarano: «volevano farsi il solito, inutile comizio e invece hanno avuto una bella sorpresa», è chiaro che intendono sfidare una politica tradizionale che arranca paurosamente, che giunge sempre in ritardo sui luoghi in cui si consumano i delitti politici del nostro tempo. E’ questo spaventoso ritardo che spiega le simpatie, più o meno nascoste, che un numero non trascurabile di persone, e di lavoratori, esprime oggi nei confronti dei “demolitori” di piazza San Giovanni.
Il limite dei “demolitori”? Un limite gigantesco. Essi sono palesemente incapaci di cogliere il senso profondo delle dinamiche in corso, e sono per questo totalmente privi di una piattaforma politica. Nella migliore delle ipotesi, senza esserne nemmeno consapevoli, i “demolitori” attingono da un miscuglio di vecchie parole d’ordine del più ingenuo proudhonismo e da un’apologia dell’azione in sé che ha molti padri spirituali, ad esempio nel dadaismo ma anche nel primissimo fascismo. Definirli anarchici è già alquanto lusinghiero.
Il problema è che i verdetti della Storia su questo tipo di movimenti sono inequivocabili. Le forme ingenue di ribellione possono condurre alla distruzione di macchine e di simboli, religiosi e non, possono mandare all’ospedale qualche malcapitato agente di polizia, e possono anche arrivare a lasciare dei morti ammazzati per strada. In questo modo riescono facilmente a conquistare le scene di un mondo mediatizzato. Ma, restando confinate nell’ambito effimero della coreografia, sia pure magari insanguinata, esse risultano politicamente insulse. La mera rivolta, il cosiddetto “riot”, se rimangono tali sono classificabili come eventi di fatto innocui, che si verificano molto più spesso di quanto si immagini e che non scalfiscono mai il potere. Anzi, in genere creano le tipiche condizioni per la più agevole delle reazioni da parte degli apparati repressivi dello Stato e offrono l’occasione per una svolta di tipo più o meno surrettiziamente autoritario.
Occorre ammettere che, sul piano dell’analisi e della proposta politica, anche la parte cosiddetta “pacifica” del movimento appare in enorme difficoltà. Consideriamo ad esempio la declamata categoria dei “beni comuni”, che dovrebbero caratterizzarsi per il fatto di poter esser gestiti collettivamente senza la mediazione del mercato né dello Stato. Nel senso in cui viene adoperata all’interno dei movimenti, l’espressione “beni comuni” costituisce una espressione equivoca, che in quanto tale significa tutto e niente. La sua ambiguità, si badi, non è casuale. Essa deriva dal fatto che alcune teste pensanti del movimento si illudono, attraverso di essa, di promuovere la nascita di un modo generale di produzione sociale che sia immediatamente “altro” rispetto allo Stato e al mercato.
Letti in quest’ottica i “beni comuni” rischiano dunque di assumere i tratti di una chimera inutile e fuorviante. Non è un caso che i marxisti e i veri protagonisti del movimento operaio novecentesco non si sono mai lasciati sedurre da simili illusioni: per loro, il primo problema è sempre consistito nella presa – graduale o rivoluzionaria – del potere statale, nell’uso delle leve dello stato per la socializzazione della produzione e nella progressiva democratizzazione delle decisioni economiche. Ed anche oggi, quello della presa delle “casematte” dello stato resta la questione chiave. Il resto è solo fuffa.
Ripudio del debito? Non si tratta di una proposta utopica: la stessa storia del capitalismo è costellata di fallimenti di stati sovrani. Il problema è che bisognerebbe poi avere ben presenti le conseguenze di un simile atto. Rifiutarsi unilateralmente di pagare il debito implica poi la capacità, da parte di un paese o di un aggregato di paesi, di fare a meno dei prestiti esteri per un lungo periodo. E’ chiaro infatti che se si cancella il debito con una mano e poi si chiede un nuovo prestito con l’altra, si subirà la logica rappresaglia di un feroce aumento dei tassi d’interesse e di un fatale razionamento dei finanziamenti da parte dei creditori esteri.
Per fare a meno dei prestiti, allora, bisognerebbe pianificare una strategia di politica economica che consenta di diminuire le importazioni e, più in generale, che persegua l’obiettivo di ridurre la dipendenza del paese dai movimenti internazionali di capitali e di merci. Si tratta chiaramente di una linea che affiderebbe di nuovo un ruolo forte allo Stato nazionale, o a una comunità di Stati che puntino a una politica economica più autonoma rispetto alle leggi impersonali della cosiddetta globalizzazione capitalistica. In questo scenario anche l’instabilità finanziaria che consegue a un default potrebbe essere gestita, sottoponendo la politica monetaria della banca centrale al potere degli organi elettivi, e magari nazionalizzando parte del sistema bancario. Sono queste del resto le soluzioni che in genere hanno tipicamente fatto seguito a un default sovrano.
Alcuni promotori del “ripudio del debito” sono in imbarazzo di fronte a queste logiche conseguenze del loro slogan. Il motivo è che essi hanno per anni proclamato la morte degli Stati nazionali, lo hanno fatto persino con più veemenza dei cosiddetti liberisti. Per questo tali esponenti del movimento oggi non appaiono in grado di trarre dalla parola d’ordine del ripudio unilaterale del debito una precisa conseguenza sul piano politico: quella del ripristino di una idea di sovranità dello Stato, o di un gruppo coeso di Stati, rispetto ai meccanismi del mercato globale. Il popolo annusa l’aria, e comprende subito se una proposta abbia un senso logico e conduca a qualcosa, oppure sia intrinsecamente contraddittoria e porti in un vicolo cieco. Anche per queste incertezze, per queste fragilità insite negli slogan della parte cosiddetta “pacifica” del movimento, i “demolitori” prendono agevolmente il sopravvento.
Se in Europa insisteremo con le cosiddette politiche di “austerità”, la domanda di merci, la produzione, l’occupazione, i redditi e quindi anche le entrate fiscali si ridurranno ulteriormente, per cui diventerà sempre più difficile rimborsare i debiti. In questo modo, anziché contrastare la speculazione finanziaria, si finirà per alimentarla. Teniamo presente che a proprio causa di tali politiche la Grecia è già tecnicamente fallita. Proseguendo lungo questa via anche l’Italia, il Portogallo e la Spagna finiranno per incamminarsi verso un inesorabile default. Non solo: il ripudio del debito, in quanto tale, potrebbe rivelarsi persino insufficiente. I paesi in default potrebbero infatti vedersi costretti anche a uscire dalla zona euro e svalutare, per tentare di accrescere la competitività verso l’estero e interrompere il declino della domanda e della produzione. Insomma, gli eventi potrebbero a un certo punto correre più veloci sia dell’agenda politica istituzionale che degli stessi slogan di movimento. Non sarebbe la prima volta.
La visione dominante contrappone il salvataggio della zona euro agli interessi dei lavoratori: il messaggio è che se vogliamo la prima occorre sacrificare i secondi. Ma questa è una lettura ideologica dei fatti. E’ necessario quindi mettere preliminarmente in chiaro che la salvezza della unità europea e la salvaguardia degli interessi del lavoro sono obiettivi coincidenti. Il regime di accumulazione del capitale fondato sulla finanza privata è infatti entrato in crisi. Siamo di fronte a una occasione storica per la costruzione di un nuovo e diverso regime di sviluppo. Per edificarlo, occorre in primo luogo che l’autorità pubblica abbandoni il ruolo ancillare di prestatore di ultima istanza del capitale privato, e si faccia invece creatrice di prima istanza di nuova occupazione.
Questa sorta di versione moderna della pianificazione pubblica rappresenta, allo stato dei fatti, il solo modo razionale che abbiamo per attivare un nuovo motore “interno” dello sviluppo economico europeo, senza il quale l’Unione stessa rischia di implodere. In secondo luogo, bisogna introdurre nuovi strumenti di gestione dei rapporti conflittuali tra gli Stati membri dell’Unione e tra le classi sociali. Un esempio tra i tanti è lo “standard retributivo europeo”, che consentirebbe di interrompere la competizione salariale in atto tra i paesi dell’Unione. Sia pure in forma blanda e in estremo ritardo, di questi strumenti si inizia a discutere anche in seno ai partiti socialisti europei. Limitarsi però a invocare queste ricette è del tutto inutile se la Germania si mette di traverso.
Se si vuole evitare di cadere nella classica spirale perversa del “riots” e della reazione, occorre che da domani le piattaforme politiche siano più chiare, che la tattica e la strategia siano definite, che i programmi politici siano privi di ambiguità: a partire dalla proposta di restare o meno nella attuale zona euro, sotto quali condizioni, con quali proposte di sviluppo economico e di riequilibrio tra gli stati e tra le classi sociali, e soprattutto a fronte di quali possibili alternative. In secondo luogo, occorre prendere coscienza che la politica non può continuare ad arrancare dietro i mercati finanziari ma deve finalmente anticiparli, prevenirli. La politica, a cominciare dalla politica monetaria della banca centrale, può battere la speculazione. Se non si affrontano a viso aperto questi problemi, di merito e di rapidità dell’azione, ci attenderà una vana sequenza di spettacolari ma inutili azioni di “guerriglia demolitrice” e di immancabili azioni repressive da parte dello stato. E intanto continueremo ad assistere alla scena, un po’ surreale, di banchieri centrali che spediscono lettere di “commissariamento” ai governi e poi maldestramente ammiccano alla protesta giovanile.

(Emiliano Brancaccio, estratti dall’intervista “I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento”, ).
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