Ottobre 2002, discorso di Oriana Fallaci a Washington
Grazie d’essere venuti. Grazie a tutti. Bè, a tutti purché in questa sala non vi sia il tipo (un fondamentalista islamico, suppongo) che si inserisce nelle mie telefonate e in francese (un francese-libanese, direi) mi minaccia con queste parole: «Vous restez toujours cachée chez vous. Mais nous allons vous trouver tout le même». (Lei sta sempre nascosta in casa. Ma noi la troveremo lo stesso). Eh, no: monsieur Nous-Allons-Vous-Trouver-Tout-le-Même. Io non mi nascondo affatto. Non mi sono mai nascosta, non mi nasconderò mai. In casa ci sto molto perché lavoro sempre e il mio lavoro si fa in casa. Comunque ora sono qui. Maintenant je suis ici. Je suis ici et c’est moi, sono qui e sono io, che prima o poi ti beccherò: scemo.
Grazie anche a Lei, Michael Ledeen, per avermi invitato a parlare in questo prestigioso deposito di cervelli che chiamano American Enterprise Institute. Grazie d’aver detto quelle belle cose su di me, (alcuni non gliene saranno grati), e soprattutto d’aver sottolineato quanto mi dia disagio e quindi mi sia difficile mostrarmi in pubblico. Da molti anni non mi mostro in pubblico. Molti. Cioè da quando venni a Washington per leggere alcune pagine del mio romanzo Inshallah. Neanche dopo la pubblicazione de La Rabbia e l’Orgoglio in Italia, in Francia, in Spagna, in Germania eccetera, ho aperto bocca o mi son fatta vedere in pubblico. Niente interviste, niente televisioni, niente pubblicità. Lo stesso accadrà quando il libro uscirà in Olanda, in Ungheria, in Polonia, in Romania, in Scandinavia, in Grecia, in Israele, in Argentina, in Australia, in Corea, in Giappone, in Cina. E il motivo non è quello malignamente fornito da chi non mi vuol bene: la malattia che chiamo l’Alieno, le mie rughe, l’età. L’Alieno lo tengo a bada. Gli ho fatto capire che se mi uccide muore con me, che quindi è meglio vivere con me. E per quanto vivere con me sia arduo, per ora ci sta. Le rughe sono le mie medaglie. Onorificenze che mi son guadagnata. E invecchiare è bellissimo. Perché, come uso dire, a invecchiare si conquista una libertà che da giovani non avevamo. Una libertà assoluta. Data l’alternativa, inoltre, aver quest’età è la cosa migliore che potesse capitarmi. Che possa capitare a tutti.
No: il motivo per cui mi tengo in disparte e anche dopo l’uscita de La Rabbia e l’Orgoglio non ho dato interviste, non sono apparsa in televisione, non sono andata a stringer mani come un candidato che chiede voti, è ben diverso. Sta nel fatto che mostrarmi in pubblico è per me un’auto-violenza, un disturbo. Sono una persona ossessionata dalla privacy. Conduco una vita molto severa, mi piace star sola. Star sola mi consente di fare ciò che voglio: scrivere, studiare. E poi il tempo passa così velocemente. Me ne rimane poco e in quel poco non c’è posto per esibizionismi che servono solo ad esaudire le altrui curiosità.
Perché sono qui, all’American Enterprise, dunque? Perché qui faccio ciò che non ho fatto e non faccio in Europa? Semplice. Perché dall’11 settembre siamo in guerra. Perché la prima linea di questa guerra è in America. Non in Europa. Oggi come oggi l’Europa è in retrovia. Anche quand’ero corrispondente di guerra preferivo stare in prima linea, non in retrovia, e qui non mi sento nemmeno un corrispondente di guerra: mi sento un soldato. Il dovere d’un soldato è combattere. Sono qui per combattere e per combattere questa guerra ho un’arma speciale. Un’arma che non serve a sparare: serve a pensare, far pensare, svegliare chi dorme. Cioè un libro. Un piccolo libro (187 pagine) che si chiama The Rage and the Pride.
Questo The Rage and the Pride che in Europa ha fatto e fa tanto fracasso, ha provocato e provoca reazioni tanto opposte. Da una parte quelli che lo amano, lo riveriscono, gli cantano osanna. Dall’altra quelli che lo odiano, che lo condannano, che lo insultano, e che vorrebbero bruciarlo insieme a me come negli Anni Trenta i nazisti di Berlino bruciavano le librerie. «Brucia la strega, bruciala. Ammazza l’eretica, ammazzala». Questo The Rage and the Pride che scoppiò all’improvviso, rubandomi al romanzo che stavo scrivendo, e che da allora mi imprigiona con le sue traduzioni, mi ossessiona col suo successo, mi schiavizza al punto di mettermi addosso una sorta di risentimento. A volte, di nausea. Questo The Rage and the Pride che partorii in poche settimane, col raziocinio che viene dalla saggezza e tuttavia col candore d’un bambino. Il bambino che nella fiaba di Grimm strilla: «Il re è nudo!». (Sì: il re non porta neppure le mutande, nella fiaba di Grimm, ma i cortigiani non fanno che lodare i suoi abiti: «Che bel mantello indossa oggi, Maestà, che bei pantaloni». E il bambino strilla con candore: «Il re è nudo!»).
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Il re è nudo e la mia arma di soldato è l’arma della verità. Una verità che prende l’avvio dalla verità di cui ora vi leggo il seguente brano. «Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenia, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici all’infinito. Chi non se n’è accorto, guardi le immagini che ogni giorno ci vengono dalla televisione. Le moltitudini che inzuppano le strade di Islamabad, le piazze di Nairobi, le moschee di Teheran. I volti inferociti, i pugni minacciosi, i cartelli col ritratto di Bin Laden, i falò che bruciano la bandiera americana e il fantoccio coi lineamenti di Bush. Chi non ci crede ascolti i loro osanna al Dio-Misericordioso-e-Iracondo, i loro berci Allah-Akbar, Allah-Akbar, Jihad-Jihad. Altro che frange di estremisti! Altro che minoranze di fanatici! Sono milioni e milioni gli estremisti, sono milioni e milioni i fanatici. I milioni e milioni per cui, vivo o morto, Ousama Bin Laden è una leggenda uguale alla leggenda di Khomeini. I milioni e milioni che, morto Khomeini, hanno ravvisato in lui il nuovo leader, il nuovo eroe. Sere fa vidi quelli di Nairobi, luogo di cui non si parla mai. Gremivano la piazza più che a Gaza o Islamabad, e a un certo punto il telecronista chiese a un vecchio: «Chi è per te Ousama Bin Laden?». «Un eroe, il nostro eroe!» rispose il vecchio, felice. «E se muore?». «Ne troviamo un altro» rispose il vecchio, sempre felice. In altre parole l’uomo che di volta in volta li guida non è che la punta dell’iceberg: la parte della montagna che emerge dagli abissi, e il vero protagonista di questa guerra non è lui. È la Montagna. Quella Montagna che da millequattrocento anni non si muove, non esce dagli abissi della sua cecità. Non apre le porte alle conquiste della civiltà, non vuol saperne di libertà e giustizia e democrazia e progresso. Quella Montagna che nonostante le scandalose ricchezze dei suoi padroni, dei suoi re, dei suoi principi, dei suoi sceicchi, dei suoi banchieri, (pensa all’Arabia Saudita), vive ancora in una miseria da Medioevo. Vegeta ancora nell’oscurantismo e nel puritanesimo d’una religione che sa produrre solo religione. Quella Montagna che affoga nell’analfabetismo. Quella Montagna che essendo segretamente gelosa di noi, segretamente attratta dal nostro sistema di vita, attribuisce a noi la colpa delle sue povertà materiali e intellettuali...».
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Una verità che molti, troppi, non vogliono udire. Non vogliono vedere, non vogliono ammettere. Oh, quasi tutti riconoscono che Bin Laden non è uno stinco di santo. Che non merita il Nobel per la Pace, neanche quello che dettero all’ex terrorista Arafat. Ma nessuno ammette che egli sia solo la punta dell’iceberg, la parte visibile della Montagna. E quelli che lo ammettono lo fanno bisbigliando. Bisbigliano perché hanno paura. L’altra sera Bush ha detto: «Ci rifiutiamo di vivere nella paura». Sante parole, bella frase, signor presidente. Ma inesatta. Perché l’Occidente vive nella paura. Gli occidentali hanno paura. E non soltanto paura di saltare in aria, d’essere decimati da una bomba nucleare o biologica. Paura di parlare, di accusare ad alta voce la Montagna. Il mondo islamico, la religione islamica, la Montagna. Paura d’essere definiti razzisti se lo fanno. Reazionari quindi razzisti. L’epiteto con cui le cicale del Politically Correct ricattano chi non conosce il significato della parola razzismo. Perbacco: si può fare di tutto, si può dire tutto di tutti, oggigiorno. Si può denigrare i cristiani, i buddisti, gli ebrei, gli indù. Si può mettere alla gogna i preti cattolici imputati o non imputati di pedofilia, insinuare che ciascuno di loro è uno stupratore di infanti. Si può irridere il crocifisso come il cosiddetto presidente del cosiddetto partito islamico italiano ha fatto alla televisione in Italia, chiamandolo «un cadaverino ignudo che spaventa i bambini mussulmani». E, sempre in Italia, una mussulmana può chiedere che quel cadaverino-ignudo sia tolto dalla sala chirurgica nella quale partorisce. Un sindaco può pagare un mediatore, un go-between, per lo scolaro mussulmano che rifiuta di parlare con la maestra perché è una femmina. Ma guai al cittadino che se ne lamenta o peggio ancora protesta. Guai alla Fallaci che scrive il suo discorso-della-montagna. «Razzista, razzista!». Sono diventati i nuovi padroni della Terra, questi figli di Allah. L’Islam-non-si-tocca.
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Visto quel che mi succede coi vari Monsieur Nous-Allons-Vous-Trouver-Tout-le-Même, (sbaglio o anche l’arabo processato in Virginia quale membro di Al Qaida e presunto complice dei kamikaze morti l’11 settembre parlava anzi parla francese?) mi chiedo come i mussulmani e le cicale d’America reagiranno al mio The Rage and the Pride, qui in prima linea. Me lo chiedo perché in retrovia, in Europa, per questo libro ho pagato e pago un prezzo davvero pesante. Chi si congratula del milione e passa di copie vendute in Italia in meno d’un anno o del mezzo milione di copie vendute in Francia e in Spagna e in Germania in meno di quattro mesi non si rende conto che per ogni copia ho pagato quel prezzo... In un disgustoso e sgrammaticato libello dal titolo L’Islam castiga Oriana Fallaci, la vecchia mai cresciuta, ad esempio, l’individuo secondo il quale il crocifisso è un cadaverino ignudo che spaventa i bambini mussulmani ha oltraggiosamente diffamato il mio defunto padre e invitato i suoi correligionari a punirmi (leggi giustiziarmi) in nome di Allah. Per spronarli meglio ha addirittura citato tre versi del Corano. Versi da cui risulta che il crimine d’aver scritto «La Rabbia e l’Orgoglio» dev’esser proprio lavato col sangue. E per evitare equivoci ha addirittura riassunto tale necessità con un lapidario «Andate a morire con la Fallaci». Da allora le minacce alla mia vita non si contano, le mie case sono considerate dalla polizia italiana «case a rischio», e quel buon giovanottone che vestito da poliziotto vi scruta senza sosta è qui per controllare che tra voi non ci sia un inviato della Montagna. [...]
(Fonte)
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