Sono
un imprenditore facente parte della “galassia” delle
piccole-medie imprese, chiamate P.M.I., l’ossatura industriale del
nostro Paese, che nessuno ascolta e che sono totalmente trascurate
dal governo. Il sistema di comunicazione vigente in Italia dà spazio
solo ai soliti noti: i media ci propinano sempre gli stessi volti, le
solite voci.
Come
P.M.I. non mi sento neppure rappresentato da Confindustria, che,
purtroppo, ha acquisito ormai gli stessi vizi della politica
italiana: sprechi, troppe poltrone, quasi zero investimenti, quasi
totale consumo delle risorse nell’improduttivo sostegno
dell’immenso baraccone.
La situazione non è di certo cambiata con l’arrivo del nuovo
presidente Giorgio Squinzi, che è un bravissimo imprenditore, ma
certamente non sarà l’uomo che riuscirà, con forza e coraggio, a
ristrutturare il grande carrozzone che ha il compito di dar voce al
mondo delle imprese industriali italiane. Per non smentire l'andazzo
sopra descritto e per non scontentare nessuno, Squinzi si è subito
premurato di nominare 11 vice-presidenti. Il sistema-Confindustria,
inoltre, è composto da 267 organizzazioni, che vuol dire altri 267
presidenti con autista e segretaria e 267 direttori.
Non
ho mai capito perché chi assume un incarico di servizio alla
comunità o agli associati perda di colpo la capacità di guidare
l’auto e abbia bisogno di un autista. Personalmente, mentre guido,
elaboro pensieri e progetti e posso garantirvi che non perdo tempo.
La vettura di
rappresentanza è diventata solo un simbolo di potere e per questo è
così ambita dai politici.
L’unico
elemento positivo che ci potrebbe essere è che l’auto blu dovrebbe
rappresentare alla vista del mondo lo stile, l’eleganza, la
raffinatezza del design del prodotto italiano. Purtroppo, però, i
nostri politici, e non solo loro, scorazzano quasi tutti con
automobili tedesche, facendo una grande pubblicità gratuita ai
nostri “cugini” nordeuropei. Per contro devo ammettere che oggi
il produttore italiano di auto non dà molte alternative a questa
scelta: l’unica ammiraglia italiana in circolazione è figlia di un
prodotto americano ed è progettata, secondo il mio modo di vedere,
con stile goffo e pesante, che di certo non rappresenta il design
italiano famoso nel mondo.
A
questo proposito vorrei dare un consiglio a Sergio Marchionne: perché
non allestisce una Maserati quattro porte come veicolo di
rappresentanza, puntando al comfort anziché alla sportività, al
silenzio assoluto anziché al rombo sportivo, al basso consumo
anziché allo spreco di carburante, con un motore più piccolo e
possibilmente ibrido?
Potrebbe
chiamarla Maserati Rappresentanza e, probabilmente, potremmo avere la
soddisfazione di vedere qualche politico tedesco viaggiare con una
vettura italiana, ma soprattutto non daremo più l'alibi ai nostri
politici di utilizzare macchine straniere.
Ho
definito la nostra Associazione “grande carrozzone”, riferendomi
al titolo di un’indagine uscita su L’Espresso n.21 del 24 maggio
2012 e che invito i miei colleghi a rintracciare e leggere. Da questo
articolo ho ricavato i dati che ripropongo in questo testo.
Nel
2010 il totale dei contributi pagati dalle aziende italiane è stato
di 494 milioni di euro (in Inghilterra 23 milioni, in Francia 23,3).
Noi paghiamo 20 volte di più! Ma dove vanno tutti questi soldi?
Solo
la sede centrale di Confindustria è costata 39,3 milioni di euro.
Grande sede significa anche grande spazio per le poltrone, significa
poter accontentare tutti.
Penso
che i miei colleghi imprenditori, specialmente i piccoli e i medi,
non abbiamo mai preso coscienza di che fine facessero i loro soldi,
impegnati come sono a sviluppare le loro aziende. A
questo punto avanzo una proposta: diamo una disdetta in massa
all’Associazione. La nostra azienda l'ha già fatto. Noi italiani
siamo bravi a criticare, ma a cambiare qualcosa mai: ora possiamo
fare qualcosa di concreto.
Possiamo
riorganizzarci con una struttura molto snella che preveda per statuto
che il 70% dei contributi vada in ricerca, il 20% per la salvaguardia
della bellezza italiana e solo il 10% per i costi della struttura.
Tale struttura dovrebbe prevedere: una sede amministrativa unica,
consulenze nei vari campi, a cui gli associati possano accedere via
internet, con esperti di qualità e non con pseudo-esperti della sede
locale che, per fare solo un esempio, non hanno alcuna preparazione
in diritto internazionale. Oltre a una tale riorganizzazione che
semplifichi il tutto, dovremmo
pretendere dallo Stato la convalida dell’interpretazione di una
legge, in modo che l’industriale, adeguandosi alla risposta
dell’esperto, possa non avere alcun dubbio di fare la cosa giusta.
Questo lavoro dobbiamo pretendere dal governo che venga fatto prima
che la legge entri in vigore in modo che non restino dubbi sulla
giusta interpretazione. È uno dei nodi della burocrazia, che fa
impazzire noi piccoli e medi industriali, che ci obbliga a costose
spese per consulenze e commercialisti, con risposte spesso
contraddittorie che ci creano uno stato d’ansia. In questo settore
Confindustria non è mai riuscita a dare un servizio adeguato e a
pretendere chiarezza dallo Stato.
Risparmiando
così una montagna di soldi, potremmo incaricare scienziati del
calibro di Carlo Rubbia, di allestire per esempio un centro di
ricerca per la fusione nucleare, uno sullo studio delle energie
pulite, uno sullo smaltimento dei rifiuti a zero rilascio di sostanze
tossiche, uno sulla stabilizzazione antisismica degli edifici
storici, magari ideando delle micro travi strutturali in fibra di
vetro o di carbonio da applicare all’interno degli edifici senza
compromettere minimamente l’estetica esterna. In questi settori
potremmo diventare i più esperti al mondo. I centri, costantemente
finanziati dai nostri contributi, potrebbero concentrarsi nella
ricerca, anziché essere impegnati in una costante elemosina di fondi
presso i politici, con mille compromessi e svalutazione del merito.
Si impegnerebbero a sviluppare brevetti che, venduti alle sole
aziende associate, andrebbero a rimpinguare il fondo per poter
sviluppare ulteriori ricerche e aumentare i posti di lavoro in
Italia. Non si tratta di un’utopia: è una cosa possibile! Proviamo
a contarci: quanti siamo a credere in questo progetto? Aderite
e commentate, Se saremo in tanti ci riorganizzeremo.
E
le relazioni sindacali?
Penso
che l’attuale sistema, nato quando il “padrone” pensava solo ai
propri interessi e l’operaio era indifeso, sia del tutto obsoleto.
Anche i sindacati sono diventati dei carrozzoni, che andrebbero
ristrutturati. Oggi le
aziende rappresentano un valore assoluto, da difendere in
collaborazione. E noi
industriali non dobbiamo rimanere ancorati ai vecchi sistemi, ma
sperimentare con creatività nuove possibilità. Ritengo, ad esempio,
che estenuanti discussioni con i sindacati potrebbero sparire se
ammettessimo un rappresentante di fabbrica nel consiglio di
amministrazione e dividessimo una piccola parte degli utili,
possibilmente detassati, con le maestranze, con l’impegno da parte
loro di dividere anche eventuali sacrifici qualora l’azienda
andasse in difficoltà. In tal modo sparirebbe il menefreghismo, oggi
sempre più diffuso nelle aziende, perché tutti si sentirebbero
impegnati a creare utili. Non solo, sparirebbe anche il celeberrimo
“nero”, perché i sindacati non userebbero più, come fanno oggi,
una forma di “strabismo”, dico strabismo perché le
organizzazioni sindacali spesso sanno tutto ma chiudono gli occhi,
perché anche i loro associati sulle ore straordinarie retribuite in
nero non pagano le tasse e portano a casa più soldi. Con il sistema
della responsabilità condivisa i sindacati diventerebbero potenti
“guardiani” contro il nero, che non genera utili da condividere.
Ciò è molto importante anche per eliminare la concorrenza sleale
che si genera tra le aziende che fanno nero e quelle che sono
allineate con le leggi dello Stato.
Con
questo non voglio criminalizzare gli imprenditori che ormai al 90%
non fanno il nero per interesse proprio, ma perché costretti dal
vortice in cui sono inclusi. Penso a quelle imprese che producono
prodotti standardizzati senza alcuna particolarità, dove gli unici
elementi competitivi sono il prezzo e quanto nero siano disposte a
fare.
In
questo sistema l’imprenditore che decidesse per la trasparenza
sarebbe destinato a chiudere, perché ci sono altre dieci imprese
disposte a fornire un prodotto similare. Per
risolvere questo problema bisognerebbe che lo Stato partisse da un
punto zero, in cui tutte le imprese contemporaneamente diventassero
virtuose. Infierire su
una singola azienda a caso, come si fa oggi, e costringerla a
chiudere crea solo danni. Questo punto zero con un colpo di spugna
del passato può essere messo in piedi con la collaborazione dei
sindacati che, essendo presenti in quasi tutte le aziende, possono
veramente fare i guardiani della legalità.
Lo
Stato, in cambio, dovrebbe concedere che tutto il recupero di imposte
non entri nell’idrovora mangiasoldi della macchina centrale, ma sia
equamente diviso tra una diminuzione delle tasse alle imprese e la
diminuzione del cuneo fiscale ai lavoratori, in modo che restino loro
più soldi in busta paga. Andrebbero ridotte anche le tasse sulle ore
straordinarie, tutto a favore del lavoratore, che con buona volontà
si impegna e lavora di più. Si toglierebbe così anche un’arma di
ricatto che il lavoratore qualche volta usa nei confronti
dell’azienda: faccio
gli straordinari solo se me li paghi in nero,
obbligando così l’imprenditore a vendere in nero per poter pagare
il suo dipendente in nero. Questo succede molto spesso nelle piccole
aziende. È una spirale che va annullata: solo così la lotta
all’evasione potrebbe diventare realtà.
C’è
un altro argomento che mi sta particolarmente a cuore e che è stato
il motivo principale che ha spinto la nostra azienda ad acquistare
questo spazio. L’Italia,
per salvarsi, ha bisogno di una visione, di un sogno che unisca tutti
gli italiani per un unico obiettivo. Ma quale può essere questo
sogno? Il nostro Paese
è come una barca in mezzo al mare, piena di falle e in procinto di
affondare.
Quando l’acqua ha
cominciato a entrare con forza ci siamo spaventati e abbiamo chiamato
i tecnici per tappare le falle e salvare la nave dal naufragio. Tutti
oggi parlano di questo problema come dell’unico problema da
risolvere. Capisco che è drammatico, Monti cerca di tappare le falle
mentre se ne formano altre.
Nonostante i nostri
sacrifici: la nostra azienda, nel 2010 e 2011, ha pagato imposte
sugli utili, rispettivamente pari al 70% e al 71%. Non parliamo poi
dei pensionati, dei dipendenti e dei vari produttori di reddito, per
i quali il prelievo ha raggiunto limiti insostenibili. E ciò
nonostante il debito pubblico italiano sta ulteriormente aumentando:
significa che le falle della nave si stanno allargando.
Ma non è questa la
mia preoccupazione più grande, perché
sono certo che con le nuove elezioni se non ci sarà lo sviluppo di
una visione creativa che riesca ad aggregare una maggioranza solida e
che diventi un obiettivo comune eliminando ogni particolarismo, lo
spread ricomincerà a risalire all’impazzata
e lo spavento che deriverà dalla paura di affondare obbligherà il
grande carrozzone italiano a fare quei tagli di spesa che sarebbero
indispensabili oggi, ovvero del 15-20% anziché del ridicolo 2-3%. I
politici saranno obbligati dal popolo, che non accetterà ulteriori
sacrifici.
Vedremo così
veramente sparire le auto blu e i tanti privilegi della politica
anche se questo, dicono loro, è una goccia nel mare. Vorrei
ricordare che il mare è fatto di gocce. Inoltre, per creare un nuovo
modo di pensare basato sulla parsimonia serve anche l’esempio
simbolico. Sono certo, dunque, che pur con grandi sconquassi,
drammatici sacrifici con perdita di migliaia di posti di lavoro, in
ogni caso la nave Italia si salverà dal naufragio.
Ma c’è un altro elemento che mi preoccupa ancora di più: sulla nave della nostra metafora non c’è nessuno al timone. Monti e i tecnici sono troppo impegnati a tappare le falle e per questo sono loro grato. Inoltre, l’equipaggio non è composto da bravi marinai, ma da politici che costituiscono una ciurma litigiosa, sempre pronta a ordire trame sottocoperta, sempre pronta all’ammutinamento. Tra l'equipaggio, poi, ognuno ha un’idea diversa sulla direzione da intraprendere o, peggio ancora, nessuna idea.
Ma c’è un altro elemento che mi preoccupa ancora di più: sulla nave della nostra metafora non c’è nessuno al timone. Monti e i tecnici sono troppo impegnati a tappare le falle e per questo sono loro grato. Inoltre, l’equipaggio non è composto da bravi marinai, ma da politici che costituiscono una ciurma litigiosa, sempre pronta a ordire trame sottocoperta, sempre pronta all’ammutinamento. Tra l'equipaggio, poi, ognuno ha un’idea diversa sulla direzione da intraprendere o, peggio ancora, nessuna idea.
Ciò
succede in particolare tra i partiti politici che da anni affermano:
«Stiamo elaborando una visione» e poi si presentano con programmi
elettorali fatti di generalizzazioni o di scelte populiste. E così
capita che gli stessi programmi sembrino intercambiabili; spesso,
infatti, i partiti si sono accusati di aver copiato gli uni dagli
altri. Le formazioni
politiche attuali stanno morendo per mancanza di creatività, che era
la prima virtù degli italiani.
Voglio
raccontarvi un episodio. Alle elezioni comunali sono stato contattato
per un appuntamento sia dalla destra che dalla sinistra. Non avevo
mai parlato con quei politici prima di quell’appuntamento. Volevano
che mi candidassi dalla loro parte. Non mi hanno chiesto quale fosse
il mio pensiero, la mia visione, per verificare se fosse coerente con
la loro. Hanno solo insistito, promettendomi incarichi, perché
partecipassi alla farsa delle elezioni. L'aneddoto personale è una
semplice dimostrazione che oggi destra e sinistra non hanno alcuna
visione, non sanno indicare dove deve approdare la nave. Ho deluso
entrambe le parti, sia perché sono dell’opinione che è difficile
fare bene due cose (sono impegnato al 100% nello sviluppo della
nostra azienda), sia perché penso sia giunto il momento di dare
spazio ai giovani. La mia generazione, ho 63 anni, è quella che ha
disintegrato l’ambiente, considerandolo un capitale inesauribile da
cui prelevare a piene mani, senza rendersi conto che, al contrario, è
una risorsa da lasciare alle generazioni future. In pochi decenni,
inoltre, abbiamo portato il debito italiano vicino ai 2.000 miliardi
di euro, abbiamo messo in piedi un’economia basata sull’aumento
infinito dei consumi, in un mondo che ha dei limiti oggettivi, e ci
siamo ridotti a “schiavi della finanza”.
Come
diceva Albert Einstein, «Non si può risolvere un problema
utilizzando lo stesso pensiero che
l'ha generato»,
cioè non può essere chi ha generato il problema a proporre la
soluzione. Dunque:
spazio alle nuove generazioni, che, con la loro creatività, devono
reinventarsi il futuro.
Un consiglio ai giovani: attenzione a non farvi ingabbiare in
“scatole” ideologiche o populiste, inventate dalla mia
generazione e ormai del tutto obsolete. È un modo per disperdere in
mille rivoli la vostra forza travolgente e poter così continuare a
comandare.
Tornando
alla metafora della nave: il rischio di affondare costituisce il
presente, scegliere la rotta è il futuro. Ma quale rotta scegliere?
Propongo
una soluzione, pur cadendo in contraddizione per la mia età, perché
ho dedicato la vita a dare una rotta alla nostra azienda e ho capito
che le mie intuizioni potrebbero costituire una buona soluzione anche
per l’azienda Italia.
In
lontananza scorgiamo alcune isole e dobbiamo scegliere dove
approdare, per poter offrire possibilità economiche alle generazioni
future.
C'è
l'isola delle materie prime: per noi non è una buona meta, perché
l'Italia ne è praticamente priva.
C'è
l'isola della produzione di grandi numeri a basso prezzo, ma non
possiamo di certo competere con Paesi nei quali la manodopera costa
un decimo e i vincoli ambientali sono quasi nulli.
C'è
l'isola della ricerca di base, ma qui di certo non riempiremmo le
stive della nostra nave, perché per anni abbiamo investito
pochissimo in questo settore. Eravamo tra i primi al mondo nella
chimica con il premio nobel Giulio Natta, inventore di alcune materie
plastiche, ma i poli della chimica italiana sono ormai veri e propri
cimiteri arrugginiti. C’è un tentativo di alcuni imprenditori
illuminati di eccellere nella biochimica, con le bioplastiche, ma se
da parte del governo non ci sarà una presa di coscienza su questa
opportunità, se non verrà incentivata la ricerca, i tedeschi ci
sorpasseranno anche in questo campo.
Eravamo
leader dell’elettronica con Olivetti, che ha realizzato il primo
computer al mondo, e per miopia politica abbiamo lasciato morire
un’azienda modello a livello mondiale. Eravamo tra i primi nella
fisica, ma quasi tutti gli scienziati sono emigrati in altri Paesi.
C’è
poi l’isola del divertimento ma lì non si produce reddito per le
generazioni future.
Verso
quale isola, dunque, deve essere diretta la nave-Italia con una rotta
ben definita da un grande leader carismatico, che sappia coinvolgere
tutta la ciurma politica verso un'unica direzione?
Rimane
l'isola della creatività e della bellezza.
Per
creatività, non intendo quella che scaturisce da progetti
pianificati e di lungo periodo come la ricerca di base, nella quale
non abbiamo investito. Credo che il nostro Paese possa primeggiare in
una forma di creatività spontanea e ingegnosa, fondata sull’intuito
del piccolo imprenditore in grado di realizzare brevetti sulla base
della capacità di elaborazione del pensiero, dell’intelligenza
individuale e dell’esperienza.
Da
qui l’importanza delle P.M.I., che caratterizzano il tessuto
produttivo italiano e che dobbiamo difendere come elementi di unicità
e non combattere come fossero errori imprenditoriali. Questa forma di
creatività naturale, però, si perde se non viene opportunamente
stimolata. Per nutrirla è necessario rifondare il nostro modello di
istruzione. La creatività si sviluppa all’incrocio tra la strada
tecnica e quella umanistica. È solo lì che si può condensare una
visione creativa. Gli indirizzi scolastici vanno cambiati. Le scuole
non dovranno più essere solo umanistiche o solo tecniche ma
tecnico-umanistiche, perché l’innovazione nasce dall’intreccio
di saperi, dalla contaminazione delle pratiche. Il grande pittore
dispone di pensiero, filosofia, cultura, unita a un’ottima tecnica
del disegno e del colore.
La
scuola ha anche un altro compito importante che va sviluppato con
progetti ad hoc: quello di dare al futuro cittadino i mezzi per
continuare a imparare per tutta la vita. E allora deve appassionarlo
alla lettura, deve stimolare la sua curiosità, deve sviluppare in
lui la capacità di osservazione. Si tratta di risorse potenti per
continuare a imparare anche dopo la scuola, così il nostro cervello
si riempirà di conoscenza e potrà sviluppare creatività, che non è
altro che elaborazione delle conoscenze. Un cervello vuoto non può
essere creativo, ma non basta “riempirlo”. Per essere creativi
bisogna anche saper elaborare le proprie conoscenze.
Su
questo punto la nostra scuola va completamente riformata. A
noi industriali non servono ragazzi imbottiti di nozioni e incapaci
di elaborare un pensiero. Bisogna intervenire subito inserendo sin
dalla scuola primaria nuove materie, che stimolino la capacità di
elaborazione creativa.
Il nostro cervello è come un ingranaggio che, se non viene
utilizzato, si arrugginisce: possono essere inserite informazioni su
informazioni, ma se non vengono elaborate non si ottiene vera
conoscenza. Il problema di molti giovani è proprio questa mancanza
di elaborazione del pensiero: arrivano miliardi di stimoli, ma non
vengono elaborati e strutturati in un percorso di esperienza
conoscitiva e creativa.
Scrive
l’insegnante-poeta Marco Lodoli: «La cosa è questa: a me sembra
che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto.
A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene
più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il
futuro».
Faccio
appello al Ministro della Pubblica istruzione affinché si intervenga
subito sui programmi scolastici, affinché tutti gli italiani possano
partecipare alla costruzione del grande pilastro della creatività.
L'altro
capitale che troviamo nell'isola verso la quale abbiamo fatto rotta è
la bellezza.
Anche qui è fondamentale incidere nei programmi scolastici, inserendo fin dalla prima elementare la storia dell'arte, lo studio degli stili e utilizzare metodi efficaci per stimolare i sensori della bellezza, in modo che non si atrofizzino fino ad annullare la capacità di indignarsi di fronte al suo sfregio.
Anche qui è fondamentale incidere nei programmi scolastici, inserendo fin dalla prima elementare la storia dell'arte, lo studio degli stili e utilizzare metodi efficaci per stimolare i sensori della bellezza, in modo che non si atrofizzino fino ad annullare la capacità di indignarsi di fronte al suo sfregio.
L'insegnamento
della storia dell’arte non va inteso in forma nozionistica, come
purtroppo capita spesso nella scuola, ma come base per la formazione
di una coscienza della bellezza, dell’essenza dell’opera d’arte,
del rispetto dei valori ambientali che sono tra l’altro elementi
formativi del carattere e della vita stessa dell’uomo. Chi avrà
ricevuto quest'educazione si troverà a disagio negli ambienti
degradati e farà di tutto per contornarsi di bellezza.
Ora
mi piacerebbe tracciare un esempio concreto di come potrebbero essere
strutturati i nuovi programmi scolastici. Prendiamo una classe di
terza media. Tema: l'insegnamento di un programma di disegno con il
computer. Uno dei “libri di testo” è una macchina fotografica
digitale con obiettivo zoom (oggi si possono acquistare a bassissimo
prezzo). Il professore chiede ai ragazzi di fotografare quanti più
cancelli e portoni trovino nel loro paese o città e di catturare con
lo zoom anche i particolari che ritengono più significativi: si
tratta di un grande esercizio di osservazione. Rientrati a scuola, si
lavora con i ragazzi per scaricare tutte le foto nei loro computer. A
questo punto, ogni ragazzo dividerà le foto raggruppandole in gruppi
similari: è un lavoro di elaborazione del pensiero.
I
ragazzi si meraviglieranno di tanta diversità. Non l’avevano mai
notata e saranno bravissimi in questa suddivisione. Il professore,
quindi, terrà una lezione sugli stili e, utilizzando le foto dei
ragazzi, farà comprendere loro gli elementi particolari che
rappresentano uno stile, facendo partecipare tutti alla discussione.
Dopo
aver assorbito in maniera non nozionistica la conoscenza della storia
estetica di questi elementi, ogni ragazzo sceglierà i particolari
caratterizzanti e in perfetta armonia con il suo paese o città,
raggruppandoli in una scheda. Il professore darà poi il compito ai
ragazzi di eseguire, con un programma grafico, il disegno di un
portone o cancello, utilizzando la scheda degli elementi armonici da
loro scelti.
I
ragazzi impareranno così a usare il computer in maniera creativa, a
osservare e a essere curiosi, a stimolare i sensori della bellezza,
impareranno la storia degli stili, diventeranno critici verso le
brutture della loro città, impareranno a elaborare il pensiero,
faranno esercizio di creatività e, infine, assorbiranno il concetto
di armonia che costituisce, secondo me, la base fondante della
bellezza.
Ho
dedicato la mia vita a cercare di capire cos’è la bellezza; ho
sempre discusso animatamente con chi dichiara che la bellezza
estetica sia un fatto relativo, soggetto alle mode, alla cultura del
luogo, etc. Sì, tutto questo è vero, ma è solo lo strato
superficiale della bellezza. Esiste
una bellezza profonda che è ancestralmente impressa dentro di noi e
che ogni uomo possiede, anche l’uomo della strada. Uno degli
elementi di questa bellezza profonda è l’armonia della diversità.
Armonia
e diversità sono valori assoluti. Pensiamo solo ai disastri
dell’architettura delle case-caserma, tutte uguali, dell’Unione
Sovietica o a una certa architettura di edilizia popolare italiana.
Quando pensiamo alla salvaguardia del paesaggio italiano non dobbiamo
porci vincoli tali che, se dobbiamo realizzare un cancello, questo
potrà essere costruito in un unico modo, ma dobbiamo solo indicare i
limiti entro i quali l’oggetto può vivere in armonia con il
paesaggio e l’architettura del luogo. Se vogliamo creare bellezza,
non possiamo dissociare diversità e armonia.
È anche una lezione della natura: guardate un bosco in autunno, ci
sono milioni di foglie, non ne troverete due identiche, ma l’insieme
è in perfetta armonia. Proviamo a inserire in un bosco un albero con
le foglie blu. Anche l’uomo della strada dirà che stona.
Ma
quante architetture sono state disseminate come alberi blu nel
paesaggio italiano? E non solo dai geometri facilmente criticabili,
ma spesso anche da “archistar” che con la loro opera
rappresentano il proprio ego e non studiano la storia e gli elementi
di armonia del luogo. Gli architetti stranieri spopolano e portano
una cultura internazionale standardizzata, che va in un’altra
direzione rispetto all’identità e al gusto della bellezza
italiana. C’è poi una mania esterofila e un metodo di divinazione
mediatica di certi nomi, tanto che ogni loro opera, anche se
disastrosa, diventa grande.
Ciò
influenza anche i giovani architetti italiani, che si costruiscono il
mito del loro archi-divo e poi tentano di imitarlo con risultati
disastrosi. Se con la
scuola di base riusciremo a trasmettere nella mente di ogni italiano
il concetto di armonia, avremo milioni di persone che si indigneranno
contro la marea montante del cattivo gusto. Si tratta di difendere
l’educazione e il senso di bellezza di tutto un popolo.
Perché
è così importante salvare la bellezza in Italia?
Molte
delle nostre aziende lavorano su commessa conto terzi, oppure
realizzano prodotti senza alcun elemento di personalizzazione, dove
l’unico elemento competitivo è il prezzo: sono tutte destinate a
chiudere con perdita di migliaia di posti di lavoro. Dobbiamo
assolutamente recuperare terreno nel terziario, turismo in testa.
Come
possiamo attirare turisti se non con la bellezza italiana? Nel nostro
Paese viviamo circondati da paesaggi, tesori artistici e
architettonici di inestimabile valore, ma non esiste una coscienza
tale da considerare tutto questo come il principale capitale da
lasciare alle generazioni future. Chi lo difende? In ogni paese ci
dovrebbe essere un sindaco che sente come compito fondamentale la
difesa dell’armonia, ma sicuramente pochi dei nostri sindaci hanno
sentito parlare di armonia, di bellezza, di difesa del paesaggio.
Fare
politica è l’unico mestiere per il quale non viene richiesta
alcuna competenza. È come se un muratore potesse mettersi a fare il
chirurgo: purtroppo è così.
Un
mese fa sono andato per orti a Castelnovo del Friuli, con
un’associazione, Le
Rivindicules, che cerca di
recuperare i semi delle specie autoctone e li distribuisce tra gli
associati (celebre è la cipolla rossa di Castelnovo). Ogni anno
quest'associazione organizza una passeggiata alla ricerca dell’orto
più bello. Tra noi c’era anche il sindaco del piccolo comune
friulano, costituito da 44 micro-borgate. Camminando tra i borghi, ci
siamo imbattuti in un’osteria appena ristrutturata in un vecchio
edificio, appena tinta di un rosso violaceo violento, completamente
avulso e in totale disarmonia con il contesto circostante. L’Italia
è stata massacrata dall’uso di colori accesi, in sintonia con il
pensiero dell’apparire più che dell’essere, in totale disarmonia
con il paesaggio.
Alla
mia domanda rivolta al sindaco: «Com'è possibile che si permetta
questo scempio?», mi è stato risposto che non era lei a seguire
queste cose, ma il suo vice. Ma come, il sindaco di un paesino di 900
anime non sente come suo problema la difesa della bellezza del
paesaggio del comune che governa?
Con
questa mentalità il paese, immerso in una natura mozzafiato, è
stato ristrutturato in maniera disastrosa dopo il terremoto del 1976,
perdendo tutta la sua identità e armonia. Purtroppo il brutto attira
il brutto, così Castelnovo sta diventando sempre più brutto. Ma con
questi sindaci impreparati, tutta l’Italia è a rischio.
Se
dovessimo elencare quanto di male sul piano della bellezza è stato
fatto in Italia per avidità di lucro, per incuria, per leggerezza o
per stupidità, non basterebbe l’enciclopedia Treccani.
A
questo punto, in ginocchio, se serve, e con il cuore in mano, faccio
un appello accorato al Presidente della Repubblica, affinché
intervenga a porre fine a questo scempio. È un suo dovere, come
garante della Costituzione, che all’Art. 9 recita: “La Repubblica
protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione”!
Abbiamo
la più bella e lungimirante Costituzione al mondo, i nostri padri
avevano previsto che l’Italia sarebbe stata abitata da un popolo di
barbari incoscienti del capitale di bellezza.
E
allora cosa fare?
Chiedo
al Presidente di farsi promotore di una legge, che obblighi i
candidati al ruolo di sindaco a seguire un corso, con obbligo di
frequenza, presso la Facoltà di architettura più vicina al loro
paese; può essere un corso intensivo, anche di un solo mese,
predisposto appositamente per gli aspiranti amministratori, che così
imparerebbero un po’ di storia del loro paese, ma soprattutto
verrebbero istruiti su quelli che sono gli elementi caratterizzanti
l’armonia architettonica e paesaggistica del luogo che vogliono
governare.
Chiedo,
inoltre, a tutte le Università di architettura italiane di
partecipare a un grande progetto per aiutare tutto un popolo, carente
in gusto e sensibilità, a ritrovare la strada della bellezza.
A tal scopo chiedo a queste Università di assegnare a tutti i futuri
architetti, per i prossimi due-tre anni, la seguente tesi: “Ricerca
degli elementi di armonia architettonica e paesaggistica del tuo
paese o città”.
Avremo
così migliaia di lavori che, con la collaborazione dei Comuni,
dovranno poi condensarsi in un libro per ogni paese. Non solo
otterremo un testo che i sindaci dovranno imparare a memoria, ma
anche un libro da divulgare a tutti gli attori che vorranno costruire
o intervenire nella modifica del paesaggio.
Questo
programma otterrebbe anche un altro, importante risultato: i futuri
architetti non seguirebbero più pedissequamente le “archistar”
straniere, ma diventerebbero i primi responsabili della difesa della
bellezza italiana. Chiedo al Ministro della Pubblica istruzione di
intervenire subito in questo senso, perché è un'idea che si può
realizzare a costo zero.
«Tutta
l’Italia meritava e merita maggior rispetto. Occorre considerare la
bellezza come il bene maggiore comune a tutti, come un capitale che è
di tutti, ma soprattutto delle generazioni future e che rende anche
sul piano economico oltre che su quello morale e culturale. Bisogna
non distruggere l’armonia del rapporto uomo-natura. Bisogna
riconsiderare l’uomo non solo come creatore di lavoro e di
ricchezza, ma anche creatore e fruitore di opere d’arte, di
pensiero, di cultura e di bellezza», scriveva con lungimiranza
Giuseppe Mazzotti, il salvatore delle ville venete, nel lontano 1968.
Per
onestà devo ammettere che quando gli italiani vogliono fare bene
sono dei maestri imbattibili.
Andate a visitare alcuni dei paesi ricostruiti dopo il terremoto del
Friuli con la volontà di mantenere e recuperare l’armonia, come
Venzone, o lo stesso paese dove sono in ferie e da dove sto scrivendo
questo testo, Poffabro: è a trenta chilometri da Pordenone ed è
entrato nel “club” dei borghi più belli d’Italia.
Per
dire la verità c’è qualche disarmonia e sono sicuro che ognuno di
voi, anche se non architetto, visitandolo la noterà, perché
l’armonia è un fatto ancestrale, che è dentro di noi. Se non la
noterete preoccupatevi, perché ciò vorrebbe dire che avete
completamente fossilizzato i vostri sensori della bellezza.
Poffabro,
arroccato ai piedi del monte Raut, immerso in una natura
incontaminata, è poco conosciuto anche dai cittadini di Pordenone
che abitano a soli 30 chilometri e che forse, in compenso, sono
andati a visitare le rovine Maya a migliaia di chilometri di
distanza.
Questo
è un altro problema italiano: non conoscere le proprie bellezze.
Un
mio amico, l’entomologo Giovanni Onore, che in Ecuador sta portando
avanti un progetto di salvaguardia di una foresta primaria sostenuto
anche dalla nostra azienda, mi dice sempre: «Si può salvare solo
ciò che si conosce».
Per questo divide i finanziamenti che ottiene in due parti: una parte
la usa per acquisire tratti di foresta da preservare con la
Fondazione Otonga e una parte la investe in borse di studio,
destinate ai ragazzi del luogo per lauree in materie inerenti la
salvaguardia della natura.
Dovremmo
trovare anche noi dei metodi per far appassionare gli italiani a
visitare musei e siti di inestimabile bellezza. Il governo dovrebbe
collaborare con le agenzie turistiche per trovare dei sistemi per
sviluppare un nuovo turismo interno, magari trasformando il turismo
balneare in “balneoculturale”. Molte nazioni hanno il mare ma
solo noi abbiamo il mare e il più grande patrimonio architettonico e
artistico al mondo; tutto ciò potrebbe dar lavoro anche a migliaia
di giovani disoccupati, laureati in conservazione e gestione dei beni
e delle attività culturali, in conservazione e restauro, in
architettura, che possano accompagnare le persone in un percorso,
oltre che piacevole, anche culturale, in modo che gli italiani,
conoscendo il loro patrimonio di bellezza, diventino i più accaniti
difensori della stessa.
Tutto
questo mio parlare di salvaguardia, non deve far pensare che ciò
possa bloccare l’economia. Anzi. Farei
ripartire subito l’edilizia mettendo in moto, con appositi
incentivi, la messa in sicurezza degli edifici rispetto alla
possibilità di scosse sismiche. C’è un lavoro immenso da fare,
ma noi aspettiamo sempre l’evento e poi il governo spende mille
volte di più.
L'operazione,
più che con incentivi consistenti, che dal nostro povero governo non
possiamo aspettarci, dovrebbe partire con un'opportuna campagna
d'informazione, per rendere coscienti i cittadini del pericolo che
corrono, se non mettono in opera i lavori indicati. Conosco delle
persone molto facoltose, che abitano in case non antisismiche in zone
ad alto rischio. Economicamente avrebbero i mezzi per intervenire, ma
non hanno minimamente coscienza del pericolo. Ogni italiano ha un
rapporto particolare con la propria casa: pensa sempre che sia la più
forte del mondo e ammettere che sia insicura lo obbliga a un processo
mentale contro natura.
Una
comunicazione forte, che possa vincere queste resistenze, farebbe
partire subito un lavoro immenso in edilizia. Lo dico per esperienza
diretta: a qualche amico ho fatto notare che la sua casa non era
sicura, ma sono sempre stato guardato con gli occhi sgranati, perché
questo argomento non era mai stato motivo di riflessione.
Esiste
poi una buona parte di architettura industriale da sistemare. Un
intervento strutturale, in particolare, è urgente: unire con staffe
metalliche o fibra di carbonio le travi, che in moltissimi capannoni
sono semplicemente appoggiate, sui pilastri. È un lavoro poco
costoso che elimina il problema accaduto in Emilia. Anche qui serve
una forte sensibilizzazione, perché gran parte degli imprenditori
non sono coscienti della fragilità dei loro capannoni.
Facendo
ripartire l’edilizia, ripartirebbe l’intera economia. Lo Stato
incasserebbe molto di più degli incentivi spesi e potrebbe
concentrare gli aiuti economici sui più poveri e sulle aziende.
A
questo punto vorrei condensare tutto il programma finora esposto in
una linea guida per il nostro Paese che, al di là dei partiti e
delle ideologie, possa diventare una possibile rotta per la
nave-Italia.
Ecco qui
rappresentato in questa metafora il mio pensiero.
Le
due colonne, CREATIVITÀ e BELLEZZA, che con passione ho cercato di
descrivere e in favore delle quali ho tentato di tracciare qualche
linea di sviluppo, appoggiano su una base: l’etica. Bisogna
ripartire da qui, bisogna ricostruire le fondamenta per il rilancio
di questo Paese, perché sappiamo quanto oggi siano fragili.
Ma
che cosa è l’etica? Quando ero giovane ho posto questa domanda a
mia nonna, lei mi ha risposto così: «Se vuoi essere etico devi
imparare a mettere in questa successione quattro verbi. Il primo,
essere:
perché ogni individuo è unico e deve elaborare il suo pensiero, che
lo porterà allo sviluppo di una personalità autonoma e a pensare
con la propria testa. – Altro che il nichilismo imperante! – Il
secondo, fare:
il lavoro nobilita l’uomo, “dire” non conta nulla. Il terzo,
avere:
come giusta ricompensa del fare». Mi viene spontaneo pensare a tutti
quei politici che considerano l’avere non come giusta ricompensa
del fare, ma del furto... «Il quarto devi scoprirlo da solo – mi
ha detto – perché solo allora sarai etico». Il quarto verbo ve lo
svelerò alla fine di questo testo.
Oggi
mia nonna si rivolta nella tomba, perché abbiamo invertito i verbi:
primo, avere per essere
e, con la finanza creativa e con il furto, senza fare.
Dopo
aver rinforzato le fondamenta dobbiamo
impegnarci a costruire le due colonne portanti della creatività e
della bellezza che ci daranno possibilità di lavoro
nell’innovazione, nell’arte, nel design, nella personalizzazione
con l’artigianalità.
A questo proposito vedo ogni giorno chiudere botteghe artigiane. La
globalizzazione che obbliga a un mercato mondiale chi vuol continuare
a vivere, chiude le porte all’artigiano che non ha la forza di
internazionalizzarsi. Senza l’artigianato si va verso
l’omologazione, verso l’uguale che, come ho spiegato, è il
contrario del bello.
In
Italia abbiamo una capacità artigianale enorme, non possiamo
permetterci di perderla. Bisogna che il governo intervenga per
favorire una collaborazione tra artigiano e industria. La nostra
azienda sta realizzando, a questo proposito, un progetto specifico:
il lavoro di piccole botteghe artigiane permetterà di personalizzare
in maniera unica un nostro prodotto che, tramite la nostra forza
commerciale, entrerà in case sparse in tutto il mondo.
Così
il lavoro di un piccolo artigiano diventerà un'opera globale. Noi
italiani, che non possiamo competere sul piano del prezzo, dobbiamo
assolutamente recuperare la forza personalizzante dell’artigianalità.
A questo proposito cito due libri: Futuro
Artigiano di Stefano
Miceli e L’Uomo Artigiano
di Richard Sennett.
Servono,
però, due azioni del governo. Primo: una riduzione delle tasse a
tutti quegli artigiani che lavorano per l’industria allo scopo di
favorire questo matrimonio; secondo: una semplificazione burocratica
profonda e reale per tutte le botteghe artigianali con meno di 10-15
operai. Ho sentito con le mie orecchie dichiarare da parte di molti
artigiani la loro decisione di chiudere, perché non ne possono più
delle pratiche burocratiche. Sono interventi semplici, che si possono
fare subito, ma è necessario che chi ha il potere decisionale si
sporchi le mani, vada ad ascoltare gli artigiani che lavorano, per
capire le loro reali necessità. In Italia, di solito, si decide
nelle stanze asettiche dei palazzi romani e si promulgano
provvedimenti cervellotici che, invece di semplificare, complicano
ulteriormente le cose.
Tornando
alla metafora delle colonne, ho messo come possibilità di sviluppo
del lavoro la genuinità. Penso che l’Italia, spesso schiava delle
leggi standardizzanti europee, debba avere, almeno sul cibo, il
coraggio di emanare leggi molto più severe, per bandire, ad esempio,
tutti i coloranti, i conservanti, gli insaporitori chimici e tutte
quelle diavolerie che vengono usate nei ristoranti.
Ritorniamo
al cibo genuino, indipendentemente dalle leggi europee! Com'è
ridotto il settore del gelato? Intrugli di polveri e concentrati
fanno rabbrividire l'insegna che ormai troneggia quasi in ogni
gelateria italiana: “Gelato artigianale”. Eppure, in anni non
molto lontani, i gelatieri italiani conquistavano il mondo con la
loro qualità.
Sempre
in tema di enogastronomia constato, per fortuna, quanto successo
stanno avendo Slow Food e Eataly, che recuperano la vera
artigianalità e le varietà genuine della storia dei cibi e dei vini
italiani.
Il
governo deve avere il coraggio di emanare leggi che rendano il cibo
italiano il più genuino al mondo. Sono certo che provvedimenti del
genere, che non costerebbero nulla allo Stato, genererebbero un
potente volano per il turismo, che potrebbe dar lavoro a migliaia di
giovani. Attraverso la
ricerca della genuinità si potrebbe ridar vita anche alla nostra
agricoltura agonizzante, sviluppando con intelligenza e creatività
il biologico, per
diventare i primi al mondo in questo settore.
Non
mi dilungo a scrivere tutte le opportunità che si possono sviluppare
sopra le colonne della creatività e della bellezza, perché voglio
riservare uno spazio alle richieste che mi sento di fare come P.M.I.,
ossatura dell’industria italiana, purtroppo inascoltata.
Non
avanzo istanze generiche. Chiedo provvedimenti da attuare subito.
Primo:
sviluppare l’internazionalizzazione delle P.M.I.
In Italia esistono aziende con prodotti d'eccellenza che, però, non
hanno la capacità di internazionalizzarsi. Cosa fare? Creare
all’Università la specializzazione di “Export management”. Non
un corso teorico, ma una Facoltà che selezioni ragazzi laureati,
anche stranieri, con un bagaglio di almeno tre lingue.
Il
percorso di studio, un triennio, potrebbe prevedere un anno per la
teoria e, per gli stranieri, di perfezionamento della lingua
italiana.
Il
secondo anno dovrebbe impegnare lo studente nell’azienda che avrà
espresso l’intenzione di assumerlo a fine corso. L’azienda
indicherà per quali Paesi ha bisogno dell’export manager, in modo
tale che il percorso di studi segua in maniera specifica l’esigenza
commerciale. In questo anno imparerebbe tutti i plus di prodotto che
l’azienda intende esportare e si integrerebbe con la struttura
della stessa.
L’ultimo
anno potrebbe essere vissuto in ambasciate e/o consolati italiani. I
rappresentanti diplomatici si impegnerebbero a mettere in contatto i
ragazzi ivi ospitati con gli attori del commercio e dell'industria
locali. Che bello sarebbe far collaborare le ambasciate!
I
ragazzi, alla fine degli studi, sarebbero in possesso di una rete di
conoscenze tali da renderli subito operativi nelle P.M.I. e
potrebbero contribuire fattivamente a sviluppare
l’internazionalizzazione delle stesse.
Un
esempio concreto: la mia azienda intende allargare il mercato ed
esportare in India. Fa richiesta di un export manager per questo
Paese. L’Università si fa carico di trovare un neolaureato indiano
disponibile a fare questo percorso con borsa di studio. Partendo già
dalla conoscenza della lingua indiana e delle abitudini di questo
Paese, sarebbe semplicissimo ottenere un ottimo export manager,
formato alla perfezione per l’azienda che ne ha fatto richiesta.
Interessante anche il fatto che tutti questi ragazzi alla fine del
percorso scolastico avrebbero garantito un posto di lavoro. È chiaro
che se fossimo partiti 10 anni fa con questa operazione, saremmo già
operativi da anni, comunque meglio tardi che mai.
Secondo:
lo Stato deve organizzare un’agenzia per la difesa dei brevetti,
del design, della tipicità del cibo italiano.
Sarebbe un provvedimento particolarmente importante per le P.M.I.,
che non hanno la forza per difendere il proprio prodotto in tutto il
mondo.
Tale
sistema deve prevedere la possibilità di depositare presso l’agenzia
gli elementi da difendere, con un minimo versamento in percentuale
sul fatturato del prodotto realizzato nei Paesi nei quali l’agenzia
stessa garantisce la difesa dalle contraffazioni (ad esempio, lo
0,05%).
In
questo modo lo Stato, con una spesa minima, potrebbe organizzare un
apparato, a livello mondiale, che costituisca un incubo per i
copiatori, che, a questo punto, coscienti che il prodotto italiano
viene difeso con grande forza, sposterebbero la loro mira verso altri
Paesi.
Quello
appena descritto è una reale necessità per le P.M.I. Alla nostra
azienda i cinesi hanno copiato dei prodotti e hanno rilevato a
scanner le fotografie dei nostri cataloghi per realizzare, con le
nostre foto, i loro depliant. È una sfacciataggine insopportabile.
Il governo su questo deve intervenire. Se ci fosse la volontà
politica, collaboreremmo subito a mettere in piedi quest'agenzia.
Terzo:
nella metafora della nave ho tracciato un ponte tra l’isola della
creatività e della bellezza con l’isola della ricerca. Ciò
significa che nel nostro Paese dobbiamo far ripartire la ricerca.
Senza ricerca non possiamo sviluppare per esempio l’ecosostenibilità,
ma saremmo in grado di operare solamente attraverso giochi di
marketing o di pennello verde. Cosa fare concretamente?
Il
governo deve finalmente avere il coraggio di liberarsi dei baroni che
hanno ingessato le Università, baroni che per fare punteggio
utilizzano le tesi dei ragazzi per pubblicare articoli e libri, senza
capo né coda, che firmano e che nessuno leggerà.
Deve
avere spazio il merito e, nella ricerca, va premiato con
finanziamenti solo chi sviluppa brevetti. Non brevetti qualunque, ma
quelli nati dall’ascolto delle necessità delle P.M.I., che
acquisteranno tali innovazioni, aiutando a finanziare i centri
ricerca delle Università.
Si
può fare, si deve fare subito, è a costo zero.
Spero
che con queste nostre proposte nasca un dibattito e si realizzino
cambiamenti concreti.
(Di
Gabriele Centazzo - www.rinascimento-italiano.it)
P.S.
Avevo
promesso che alla fine avrei svelato l’ultimo verbo da mettere in
successione per essere etici. È condividere. La giusta successione è
questa: essere, fare, avere e condividere. Il termine condividere non
comprende solo gli elementi materiali, ma anche quelli culturali.
Dunque non è etica
quella parte colta e raffinata del nostro Paese, per fortuna
numerosa, che, schifata dalla volgarità dominante, dal brutto
imperante, si è messa in disparte per non sporcarsi le mani. Così
facendo, ci ha lasciato nelle mani della volgarità, del cattivo
gusto, dei furbi, di politici che hanno perso il senso della dignità,
della giustizia e della bellezza e che, promuovendo il degrado senza
essere intimiditi dal sentimento del pudore e della vergogna, hanno
rovinato l’Italia.
È
tempo che la parte sana di questo Paese si rimbocchi le maniche e,
recuperando l’eticità, lavori per un nuovo Rinascimento italiano.
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