sabato 15 settembre 2012

Creatività, bellezza, ricerca e internazionalizzazione possono risollevare le sorti dell'economia e della cultura


Sono un imprenditore facente parte della “galassia” delle piccole-medie imprese, chiamate P.M.I., l’ossatura industriale del nostro Paese, che nessuno ascolta e che sono totalmente trascurate dal governo. Il sistema di comunicazione vigente in Italia dà spazio solo ai soliti noti: i media ci propinano sempre gli stessi volti, le solite voci.
Come P.M.I. non mi sento neppure rappresentato da Confindustria, che, purtroppo, ha acquisito ormai gli stessi vizi della politica italiana: sprechi, troppe poltrone, quasi zero investimenti, quasi totale consumo delle risorse nell’improduttivo sostegno dell’immenso baraccone. La situazione non è di certo cambiata con l’arrivo del nuovo presidente Giorgio Squinzi, che è un bravissimo imprenditore, ma certamente non sarà l’uomo che riuscirà, con forza e coraggio, a ristrutturare il grande carrozzone che ha il compito di dar voce al mondo delle imprese industriali italiane. Per non smentire l'andazzo sopra descritto e per non scontentare nessuno, Squinzi si è subito premurato di nominare 11 vice-presidenti. Il sistema-Confindustria, inoltre, è composto da 267 organizzazioni, che vuol dire altri 267 presidenti con autista e segretaria e 267 direttori.

Non ho mai capito perché chi assume un incarico di servizio alla comunità o agli associati perda di colpo la capacità di guidare l’auto e abbia bisogno di un autista. Personalmente, mentre guido, elaboro pensieri e progetti e posso garantirvi che non perdo tempo. La vettura di rappresentanza è diventata solo un simbolo di potere e per questo è così ambita dai politici.
L’unico elemento positivo che ci potrebbe essere è che l’auto blu dovrebbe rappresentare alla vista del mondo lo stile, l’eleganza, la raffinatezza del design del prodotto italiano. Purtroppo, però, i nostri politici, e non solo loro, scorazzano quasi tutti con automobili tedesche, facendo una grande pubblicità gratuita ai nostri “cugini” nordeuropei. Per contro devo ammettere che oggi il produttore italiano di auto non dà molte alternative a questa scelta: l’unica ammiraglia italiana in circolazione è figlia di un prodotto americano ed è progettata, secondo il mio modo di vedere, con stile goffo e pesante, che di certo non rappresenta il design italiano famoso nel mondo.
A questo proposito vorrei dare un consiglio a Sergio Marchionne: perché non allestisce una Maserati quattro porte come veicolo di rappresentanza, puntando al comfort anziché alla sportività, al silenzio assoluto anziché al rombo sportivo, al basso consumo anziché allo spreco di carburante, con un motore più piccolo e possibilmente ibrido?
Potrebbe chiamarla Maserati Rappresentanza e, probabilmente, potremmo avere la soddisfazione di vedere qualche politico tedesco viaggiare con una vettura italiana, ma soprattutto non daremo più l'alibi ai nostri politici di utilizzare macchine straniere.
Ho definito la nostra Associazione “grande carrozzone”, riferendomi al titolo di un’indagine uscita su L’Espresso n.21 del 24 maggio 2012 e che invito i miei colleghi a rintracciare e leggere. Da questo articolo ho ricavato i dati che ripropongo in questo testo.
Nel 2010 il totale dei contributi pagati dalle aziende italiane è stato di 494 milioni di euro (in Inghilterra 23 milioni, in Francia 23,3). Noi paghiamo 20 volte di più! Ma dove vanno tutti questi soldi?
Solo la sede centrale di Confindustria è costata 39,3 milioni di euro. Grande sede significa anche grande spazio per le poltrone, significa poter accontentare tutti.
Penso che i miei colleghi imprenditori, specialmente i piccoli e i medi, non abbiamo mai preso coscienza di che fine facessero i loro soldi, impegnati come sono a sviluppare le loro aziende. A questo punto avanzo una proposta: diamo una disdetta in massa all’Associazione. La nostra azienda l'ha già fatto. Noi italiani siamo bravi a criticare, ma a cambiare qualcosa mai: ora possiamo fare qualcosa di concreto.
Possiamo riorganizzarci con una struttura molto snella che preveda per statuto che il 70% dei contributi vada in ricerca, il 20% per la salvaguardia della bellezza italiana e solo il 10% per i costi della struttura. Tale struttura dovrebbe prevedere: una sede amministrativa unica, consulenze nei vari campi, a cui gli associati possano accedere via internet, con esperti di qualità e non con pseudo-esperti della sede locale che, per fare solo un esempio, non hanno alcuna preparazione in diritto internazionale. Oltre a una tale riorganizzazione che semplifichi il tutto, dovremmo pretendere dallo Stato la convalida dell’interpretazione di una legge, in modo che l’industriale, adeguandosi alla risposta dell’esperto, possa non avere alcun dubbio di fare la cosa giusta. Questo lavoro dobbiamo pretendere dal governo che venga fatto prima che la legge entri in vigore in modo che non restino dubbi sulla giusta interpretazione. È uno dei nodi della burocrazia, che fa impazzire noi piccoli e medi industriali, che ci obbliga a costose spese per consulenze e commercialisti, con risposte spesso contraddittorie che ci creano uno stato d’ansia. In questo settore Confindustria non è mai riuscita a dare un servizio adeguato e a pretendere chiarezza dallo Stato.

Risparmiando così una montagna di soldi, potremmo incaricare scienziati del calibro di Carlo Rubbia, di allestire per esempio un centro di ricerca per la fusione nucleare, uno sullo studio delle energie pulite, uno sullo smaltimento dei rifiuti a zero rilascio di sostanze tossiche, uno sulla stabilizzazione antisismica degli edifici storici, magari ideando delle micro travi strutturali in fibra di vetro o di carbonio da applicare all’interno degli edifici senza compromettere minimamente l’estetica esterna. In questi settori potremmo diventare i più esperti al mondo. I centri, costantemente finanziati dai nostri contributi, potrebbero concentrarsi nella ricerca, anziché essere impegnati in una costante elemosina di fondi presso i politici, con mille compromessi e svalutazione del merito. Si impegnerebbero a sviluppare brevetti che, venduti alle sole aziende associate, andrebbero a rimpinguare il fondo per poter sviluppare ulteriori ricerche e aumentare i posti di lavoro in Italia. Non si tratta di un’utopia: è una cosa possibile! Proviamo a contarci: quanti siamo a credere in questo progetto? Aderite e commentate, Se saremo in tanti ci riorganizzeremo.

E le relazioni sindacali?
Penso che l’attuale sistema, nato quando il “padrone” pensava solo ai propri interessi e l’operaio era indifeso, sia del tutto obsoleto. Anche i sindacati sono diventati dei carrozzoni, che andrebbero ristrutturati. Oggi le aziende rappresentano un valore assoluto, da difendere in collaborazione. E noi industriali non dobbiamo rimanere ancorati ai vecchi sistemi, ma sperimentare con creatività nuove possibilità. Ritengo, ad esempio, che estenuanti discussioni con i sindacati potrebbero sparire se ammettessimo un rappresentante di fabbrica nel consiglio di amministrazione e dividessimo una piccola parte degli utili, possibilmente detassati, con le maestranze, con l’impegno da parte loro di dividere anche eventuali sacrifici qualora l’azienda andasse in difficoltà. In tal modo sparirebbe il menefreghismo, oggi sempre più diffuso nelle aziende, perché tutti si sentirebbero impegnati a creare utili. Non solo, sparirebbe anche il celeberrimo “nero”, perché i sindacati non userebbero più, come fanno oggi, una forma di “strabismo”, dico strabismo perché le organizzazioni sindacali spesso sanno tutto ma chiudono gli occhi, perché anche i loro associati sulle ore straordinarie retribuite in nero non pagano le tasse e portano a casa più soldi. Con il sistema della responsabilità condivisa i sindacati diventerebbero potenti “guardiani” contro il nero, che non genera utili da condividere. Ciò è molto importante anche per eliminare la concorrenza sleale che si genera tra le aziende che fanno nero e quelle che sono allineate con le leggi dello Stato.
Con questo non voglio criminalizzare gli imprenditori che ormai al 90% non fanno il nero per interesse proprio, ma perché costretti dal vortice in cui sono inclusi. Penso a quelle imprese che producono prodotti standardizzati senza alcuna particolarità, dove gli unici elementi competitivi sono il prezzo e quanto nero siano disposte a fare.
In questo sistema l’imprenditore che decidesse per la trasparenza sarebbe destinato a chiudere, perché ci sono altre dieci imprese disposte a fornire un prodotto similare. Per risolvere questo problema bisognerebbe che lo Stato partisse da un punto zero, in cui tutte le imprese contemporaneamente diventassero virtuose. Infierire su una singola azienda a caso, come si fa oggi, e costringerla a chiudere crea solo danni. Questo punto zero con un colpo di spugna del passato può essere messo in piedi con la collaborazione dei sindacati che, essendo presenti in quasi tutte le aziende, possono veramente fare i guardiani della legalità.
Lo Stato, in cambio, dovrebbe concedere che tutto il recupero di imposte non entri nell’idrovora mangiasoldi della macchina centrale, ma sia equamente diviso tra una diminuzione delle tasse alle imprese e la diminuzione del cuneo fiscale ai lavoratori, in modo che restino loro più soldi in busta paga. Andrebbero ridotte anche le tasse sulle ore straordinarie, tutto a favore del lavoratore, che con buona volontà si impegna e lavora di più. Si toglierebbe così anche un’arma di ricatto che il lavoratore qualche volta usa nei confronti dell’azienda: faccio gli straordinari solo se me li paghi in nero, obbligando così l’imprenditore a vendere in nero per poter pagare il suo dipendente in nero. Questo succede molto spesso nelle piccole aziende. È una spirale che va annullata: solo così la lotta all’evasione potrebbe diventare realtà.

C’è un altro argomento che mi sta particolarmente a cuore e che è stato il motivo principale che ha spinto la nostra azienda ad acquistare questo spazio. L’Italia, per salvarsi, ha bisogno di una visione, di un sogno che unisca tutti gli italiani per un unico obiettivo. Ma quale può essere questo sogno? Il nostro Paese è come una barca in mezzo al mare, piena di falle e in procinto di affondare.




Quando l’acqua ha cominciato a entrare con forza ci siamo spaventati e abbiamo chiamato i tecnici per tappare le falle e salvare la nave dal naufragio. Tutti oggi parlano di questo problema come dell’unico problema da risolvere. Capisco che è drammatico, Monti cerca di tappare le falle mentre se ne formano altre.
Nonostante i nostri sacrifici: la nostra azienda, nel 2010 e 2011, ha pagato imposte sugli utili, rispettivamente pari al 70% e al 71%. Non parliamo poi dei pensionati, dei dipendenti e dei vari produttori di reddito, per i quali il prelievo ha raggiunto limiti insostenibili. E ciò nonostante il debito pubblico italiano sta ulteriormente aumentando: significa che le falle della nave si stanno allargando.
Ma non è questa la mia preoccupazione più grande, perché sono certo che con le nuove elezioni se non ci sarà lo sviluppo di una visione creativa che riesca ad aggregare una maggioranza solida e che diventi un obiettivo comune eliminando ogni particolarismo, lo spread ricomincerà a risalire all’impazzata e lo spavento che deriverà dalla paura di affondare obbligherà il grande carrozzone italiano a fare quei tagli di spesa che sarebbero indispensabili oggi, ovvero del 15-20% anziché del ridicolo 2-3%. I politici saranno obbligati dal popolo, che non accetterà ulteriori sacrifici.
Vedremo così veramente sparire le auto blu e i tanti privilegi della politica anche se questo, dicono loro, è una goccia nel mare. Vorrei ricordare che il mare è fatto di gocce. Inoltre, per creare un nuovo modo di pensare basato sulla parsimonia serve anche l’esempio simbolico. Sono certo, dunque, che pur con grandi sconquassi, drammatici sacrifici con perdita di migliaia di posti di lavoro, in ogni caso la nave Italia si salverà dal naufragio.
Ma c’è un altro elemento che mi preoccupa ancora di più:
sulla nave della nostra metafora non c’è nessuno al timone. Monti e i tecnici sono troppo impegnati a tappare le falle e per questo sono loro grato. Inoltre, l’equipaggio non è composto da bravi marinai, ma da politici che costituiscono una ciurma litigiosa, sempre pronta a ordire trame sottocoperta, sempre pronta all’ammutinamento. Tra l'equipaggio, poi, ognuno ha un’idea diversa sulla direzione da intraprendere o, peggio ancora, nessuna idea.
Ciò succede in particolare tra i partiti politici che da anni affermano: «Stiamo elaborando una visione» e poi si presentano con programmi elettorali fatti di generalizzazioni o di scelte populiste. E così capita che gli stessi programmi sembrino intercambiabili; spesso, infatti, i partiti si sono accusati di aver copiato gli uni dagli altri. Le formazioni politiche attuali stanno morendo per mancanza di creatività, che era la prima virtù degli italiani.
Voglio raccontarvi un episodio. Alle elezioni comunali sono stato contattato per un appuntamento sia dalla destra che dalla sinistra. Non avevo mai parlato con quei politici prima di quell’appuntamento. Volevano che mi candidassi dalla loro parte. Non mi hanno chiesto quale fosse il mio pensiero, la mia visione, per verificare se fosse coerente con la loro. Hanno solo insistito, promettendomi incarichi, perché partecipassi alla farsa delle elezioni. L'aneddoto personale è una semplice dimostrazione che oggi destra e sinistra non hanno alcuna visione, non sanno indicare dove deve approdare la nave. Ho deluso entrambe le parti, sia perché sono dell’opinione che è difficile fare bene due cose (sono impegnato al 100% nello sviluppo della nostra azienda), sia perché penso sia giunto il momento di dare spazio ai giovani. La mia generazione, ho 63 anni, è quella che ha disintegrato l’ambiente, considerandolo un capitale inesauribile da cui prelevare a piene mani, senza rendersi conto che, al contrario, è una risorsa da lasciare alle generazioni future. In pochi decenni, inoltre, abbiamo portato il debito italiano vicino ai 2.000 miliardi di euro, abbiamo messo in piedi un’economia basata sull’aumento infinito dei consumi, in un mondo che ha dei limiti oggettivi, e ci siamo ridotti a “schiavi della finanza”.
Come diceva Albert Einstein, «Non si può risolvere un problema utilizzando lo stesso pensiero che l'ha generato», cioè non può essere chi ha generato il problema a proporre la soluzione. Dunque: spazio alle nuove generazioni, che, con la loro creatività, devono reinventarsi il futuro. Un consiglio ai giovani: attenzione a non farvi ingabbiare in “scatole” ideologiche o populiste, inventate dalla mia generazione e ormai del tutto obsolete. È un modo per disperdere in mille rivoli la vostra forza travolgente e poter così continuare a comandare.
Tornando alla metafora della nave: il rischio di affondare costituisce il presente, scegliere la rotta è il futuro. Ma quale rotta scegliere?
Propongo una soluzione, pur cadendo in contraddizione per la mia età, perché ho dedicato la vita a dare una rotta alla nostra azienda e ho capito che le mie intuizioni potrebbero costituire una buona soluzione anche per l’azienda Italia.

In lontananza scorgiamo alcune isole e dobbiamo scegliere dove approdare, per poter offrire possibilità economiche alle generazioni future.
C'è l'isola delle materie prime: per noi non è una buona meta, perché l'Italia ne è praticamente priva.
C'è l'isola della produzione di grandi numeri a basso prezzo, ma non possiamo di certo competere con Paesi nei quali la manodopera costa un decimo e i vincoli ambientali sono quasi nulli.
C'è l'isola della ricerca di base, ma qui di certo non riempiremmo le stive della nostra nave, perché per anni abbiamo investito pochissimo in questo settore. Eravamo tra i primi al mondo nella chimica con il premio nobel Giulio Natta, inventore di alcune materie plastiche, ma i poli della chimica italiana sono ormai veri e propri cimiteri arrugginiti. C’è un tentativo di alcuni imprenditori illuminati di eccellere nella biochimica, con le bioplastiche, ma se da parte del governo non ci sarà una presa di coscienza su questa opportunità, se non verrà incentivata la ricerca, i tedeschi ci sorpasseranno anche in questo campo.
Eravamo leader dell’elettronica con Olivetti, che ha realizzato il primo computer al mondo, e per miopia politica abbiamo lasciato morire un’azienda modello a livello mondiale. Eravamo tra i primi nella fisica, ma quasi tutti gli scienziati sono emigrati in altri Paesi.
C’è poi l’isola del divertimento ma lì non si produce reddito per le generazioni future.
Verso quale isola, dunque, deve essere diretta la nave-Italia con una rotta ben definita da un grande leader carismatico, che sappia coinvolgere tutta la ciurma politica verso un'unica direzione?
Rimane l'isola della creatività e della bellezza.

Per creatività, non intendo quella che scaturisce da progetti pianificati e di lungo periodo come la ricerca di base, nella quale non abbiamo investito. Credo che il nostro Paese possa primeggiare in una forma di creatività spontanea e ingegnosa, fondata sull’intuito del piccolo imprenditore in grado di realizzare brevetti sulla base della capacità di elaborazione del pensiero, dell’intelligenza individuale e dell’esperienza.
Da qui l’importanza delle P.M.I., che caratterizzano il tessuto produttivo italiano e che dobbiamo difendere come elementi di unicità e non combattere come fossero errori imprenditoriali. Questa forma di creatività naturale, però, si perde se non viene opportunamente stimolata. Per nutrirla è necessario rifondare il nostro modello di istruzione. La creatività si sviluppa all’incrocio tra la strada tecnica e quella umanistica. È solo lì che si può condensare una visione creativa. Gli indirizzi scolastici vanno cambiati. Le scuole non dovranno più essere solo umanistiche o solo tecniche ma tecnico-umanistiche, perché l’innovazione nasce dall’intreccio di saperi, dalla contaminazione delle pratiche. Il grande pittore dispone di pensiero, filosofia, cultura, unita a un’ottima tecnica del disegno e del colore.
La scuola ha anche un altro compito importante che va sviluppato con progetti ad hoc: quello di dare al futuro cittadino i mezzi per continuare a imparare per tutta la vita. E allora deve appassionarlo alla lettura, deve stimolare la sua curiosità, deve sviluppare in lui la capacità di osservazione. Si tratta di risorse potenti per continuare a imparare anche dopo la scuola, così il nostro cervello si riempirà di conoscenza e potrà sviluppare creatività, che non è altro che elaborazione delle conoscenze. Un cervello vuoto non può essere creativo, ma non basta “riempirlo”. Per essere creativi bisogna anche saper elaborare le proprie conoscenze.

Su questo punto la nostra scuola va completamente riformata. A noi industriali non servono ragazzi imbottiti di nozioni e incapaci di elaborare un pensiero. Bisogna intervenire subito inserendo sin dalla scuola primaria nuove materie, che stimolino la capacità di elaborazione creativa. Il nostro cervello è come un ingranaggio che, se non viene utilizzato, si arrugginisce: possono essere inserite informazioni su informazioni, ma se non vengono elaborate non si ottiene vera conoscenza. Il problema di molti giovani è proprio questa mancanza di elaborazione del pensiero: arrivano miliardi di stimoli, ma non vengono elaborati e strutturati in un percorso di esperienza conoscitiva e creativa.
Scrive l’insegnante-poeta Marco Lodoli: «La cosa è questa: a me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro».
Faccio appello al Ministro della Pubblica istruzione affinché si intervenga subito sui programmi scolastici, affinché tutti gli italiani possano partecipare alla costruzione del grande pilastro della creatività.

L'altro capitale che troviamo nell'isola verso la quale abbiamo fatto rotta è la bellezza.
Anche qui è fondamentale incidere nei programmi scolastici, inserendo fin dalla prima elementare la storia dell'arte, lo studio degli stili e utilizzare metodi efficaci per stimolare i sensori della bellezza, in modo che non si atrofizzino fino ad annullare la capacità di indignarsi di fronte al suo sfregio.
L'insegnamento della storia dell’arte non va inteso in forma nozionistica, come purtroppo capita spesso nella scuola, ma come base per la formazione di una coscienza della bellezza, dell’essenza dell’opera d’arte, del rispetto dei valori ambientali che sono tra l’altro elementi formativi del carattere e della vita stessa dell’uomo. Chi avrà ricevuto quest'educazione si troverà a disagio negli ambienti degradati e farà di tutto per contornarsi di bellezza.

Ora mi piacerebbe tracciare un esempio concreto di come potrebbero essere strutturati i nuovi programmi scolastici. Prendiamo una classe di terza media. Tema: l'insegnamento di un programma di disegno con il computer. Uno dei “libri di testo” è una macchina fotografica digitale con obiettivo zoom (oggi si possono acquistare a bassissimo prezzo). Il professore chiede ai ragazzi di fotografare quanti più cancelli e portoni trovino nel loro paese o città e di catturare con lo zoom anche i particolari che ritengono più significativi: si tratta di un grande esercizio di osservazione. Rientrati a scuola, si lavora con i ragazzi per scaricare tutte le foto nei loro computer. A questo punto, ogni ragazzo dividerà le foto raggruppandole in gruppi similari: è un lavoro di elaborazione del pensiero.
I ragazzi si meraviglieranno di tanta diversità. Non l’avevano mai notata e saranno bravissimi in questa suddivisione. Il professore, quindi, terrà una lezione sugli stili e, utilizzando le foto dei ragazzi, farà comprendere loro gli elementi particolari che rappresentano uno stile, facendo partecipare tutti alla discussione.
Dopo aver assorbito in maniera non nozionistica la conoscenza della storia estetica di questi elementi, ogni ragazzo sceglierà i particolari caratterizzanti e in perfetta armonia con il suo paese o città, raggruppandoli in una scheda. Il professore darà poi il compito ai ragazzi di eseguire, con un programma grafico, il disegno di un portone o cancello, utilizzando la scheda degli elementi armonici da loro scelti.
I ragazzi impareranno così a usare il computer in maniera creativa, a osservare e a essere curiosi, a stimolare i sensori della bellezza, impareranno la storia degli stili, diventeranno critici verso le brutture della loro città, impareranno a elaborare il pensiero, faranno esercizio di creatività e, infine, assorbiranno il concetto di armonia che costituisce, secondo me, la base fondante della bellezza.

Ho dedicato la mia vita a cercare di capire cos’è la bellezza; ho sempre discusso animatamente con chi dichiara che la bellezza estetica sia un fatto relativo, soggetto alle mode, alla cultura del luogo, etc. Sì, tutto questo è vero, ma è solo lo strato superficiale della bellezza. Esiste una bellezza profonda che è ancestralmente impressa dentro di noi e che ogni uomo possiede, anche l’uomo della strada. Uno degli elementi di questa bellezza profonda è l’armonia della diversità.
Armonia e diversità sono valori assoluti. Pensiamo solo ai disastri dell’architettura delle case-caserma, tutte uguali, dell’Unione Sovietica o a una certa architettura di edilizia popolare italiana. Quando pensiamo alla salvaguardia del paesaggio italiano non dobbiamo porci vincoli tali che, se dobbiamo realizzare un cancello, questo potrà essere costruito in un unico modo, ma dobbiamo solo indicare i limiti entro i quali l’oggetto può vivere in armonia con il paesaggio e l’architettura del luogo. Se vogliamo creare bellezza, non possiamo dissociare diversità e armonia. È anche una lezione della natura: guardate un bosco in autunno, ci sono milioni di foglie, non ne troverete due identiche, ma l’insieme è in perfetta armonia. Proviamo a inserire in un bosco un albero con le foglie blu. Anche l’uomo della strada dirà che stona.

Ma quante architetture sono state disseminate come alberi blu nel paesaggio italiano? E non solo dai geometri facilmente criticabili, ma spesso anche da “archistar” che con la loro opera rappresentano il proprio ego e non studiano la storia e gli elementi di armonia del luogo. Gli architetti stranieri spopolano e portano una cultura internazionale standardizzata, che va in un’altra direzione rispetto all’identità e al gusto della bellezza italiana. C’è poi una mania esterofila e un metodo di divinazione mediatica di certi nomi, tanto che ogni loro opera, anche se disastrosa, diventa grande.
Ciò influenza anche i giovani architetti italiani, che si costruiscono il mito del loro archi-divo e poi tentano di imitarlo con risultati disastrosi. Se con la scuola di base riusciremo a trasmettere nella mente di ogni italiano il concetto di armonia, avremo milioni di persone che si indigneranno contro la marea montante del cattivo gusto. Si tratta di difendere l’educazione e il senso di bellezza di tutto un popolo.

Perché è così importante salvare la bellezza in Italia?
Molte delle nostre aziende lavorano su commessa conto terzi, oppure realizzano prodotti senza alcun elemento di personalizzazione, dove l’unico elemento competitivo è il prezzo: sono tutte destinate a chiudere con perdita di migliaia di posti di lavoro. Dobbiamo assolutamente recuperare terreno nel terziario, turismo in testa.
Come possiamo attirare turisti se non con la bellezza italiana? Nel nostro Paese viviamo circondati da paesaggi, tesori artistici e architettonici di inestimabile valore, ma non esiste una coscienza tale da considerare tutto questo come il principale capitale da lasciare alle generazioni future. Chi lo difende? In ogni paese ci dovrebbe essere un sindaco che sente come compito fondamentale la difesa dell’armonia, ma sicuramente pochi dei nostri sindaci hanno sentito parlare di armonia, di bellezza, di difesa del paesaggio.
Fare politica è l’unico mestiere per il quale non viene richiesta alcuna competenza. È come se un muratore potesse mettersi a fare il chirurgo: purtroppo è così.

Un mese fa sono andato per orti a Castelnovo del Friuli, con un’associazione, Le Rivindicules, che cerca di recuperare i semi delle specie autoctone e li distribuisce tra gli associati (celebre è la cipolla rossa di Castelnovo). Ogni anno quest'associazione organizza una passeggiata alla ricerca dell’orto più bello. Tra noi c’era anche il sindaco del piccolo comune friulano, costituito da 44 micro-borgate. Camminando tra i borghi, ci siamo imbattuti in un’osteria appena ristrutturata in un vecchio edificio, appena tinta di un rosso violaceo violento, completamente avulso e in totale disarmonia con il contesto circostante. L’Italia è stata massacrata dall’uso di colori accesi, in sintonia con il pensiero dell’apparire più che dell’essere, in totale disarmonia con il paesaggio.
Alla mia domanda rivolta al sindaco: «Com'è possibile che si permetta questo scempio?», mi è stato risposto che non era lei a seguire queste cose, ma il suo vice. Ma come, il sindaco di un paesino di 900 anime non sente come suo problema la difesa della bellezza del paesaggio del comune che governa?
Con questa mentalità il paese, immerso in una natura mozzafiato, è stato ristrutturato in maniera disastrosa dopo il terremoto del 1976, perdendo tutta la sua identità e armonia. Purtroppo il brutto attira il brutto, così Castelnovo sta diventando sempre più brutto. Ma con questi sindaci impreparati, tutta l’Italia è a rischio.
Se dovessimo elencare quanto di male sul piano della bellezza è stato fatto in Italia per avidità di lucro, per incuria, per leggerezza o per stupidità, non basterebbe l’enciclopedia Treccani.

A questo punto, in ginocchio, se serve, e con il cuore in mano, faccio un appello accorato al Presidente della Repubblica, affinché intervenga a porre fine a questo scempio. È un suo dovere, come garante della Costituzione, che all’Art. 9 recita: “La Repubblica protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”!
Abbiamo la più bella e lungimirante Costituzione al mondo, i nostri padri avevano previsto che l’Italia sarebbe stata abitata da un popolo di barbari incoscienti del capitale di bellezza.
E allora cosa fare?
Chiedo al Presidente di farsi promotore di una legge, che obblighi i candidati al ruolo di sindaco a seguire un corso, con obbligo di frequenza, presso la Facoltà di architettura più vicina al loro paese; può essere un corso intensivo, anche di un solo mese, predisposto appositamente per gli aspiranti amministratori, che così imparerebbero un po’ di storia del loro paese, ma soprattutto verrebbero istruiti su quelli che sono gli elementi caratterizzanti l’armonia architettonica e paesaggistica del luogo che vogliono governare.

Chiedo, inoltre, a tutte le Università di architettura italiane di partecipare a un grande progetto per aiutare tutto un popolo, carente in gusto e sensibilità, a ritrovare la strada della bellezza. A tal scopo chiedo a queste Università di assegnare a tutti i futuri architetti, per i prossimi due-tre anni, la seguente tesi: “Ricerca degli elementi di armonia architettonica e paesaggistica del tuo paese o città”.
Avremo così migliaia di lavori che, con la collaborazione dei Comuni, dovranno poi condensarsi in un libro per ogni paese. Non solo otterremo un testo che i sindaci dovranno imparare a memoria, ma anche un libro da divulgare a tutti gli attori che vorranno costruire o intervenire nella modifica del paesaggio.
Questo programma otterrebbe anche un altro, importante risultato: i futuri architetti non seguirebbero più pedissequamente le “archistar” straniere, ma diventerebbero i primi responsabili della difesa della bellezza italiana. Chiedo al Ministro della Pubblica istruzione di intervenire subito in questo senso, perché è un'idea che si può realizzare a costo zero.

«Tutta l’Italia meritava e merita maggior rispetto. Occorre considerare la bellezza come il bene maggiore comune a tutti, come un capitale che è di tutti, ma soprattutto delle generazioni future e che rende anche sul piano economico oltre che su quello morale e culturale. Bisogna non distruggere l’armonia del rapporto uomo-natura. Bisogna riconsiderare l’uomo non solo come creatore di lavoro e di ricchezza, ma anche creatore e fruitore di opere d’arte, di pensiero, di cultura e di bellezza», scriveva con lungimiranza Giuseppe Mazzotti, il salvatore delle ville venete, nel lontano 1968.

Per onestà devo ammettere che quando gli italiani vogliono fare bene sono dei maestri imbattibili. Andate a visitare alcuni dei paesi ricostruiti dopo il terremoto del Friuli con la volontà di mantenere e recuperare l’armonia, come Venzone, o lo stesso paese dove sono in ferie e da dove sto scrivendo questo testo, Poffabro: è a trenta chilometri da Pordenone ed è entrato nel “club” dei borghi più belli d’Italia.
Per dire la verità c’è qualche disarmonia e sono sicuro che ognuno di voi, anche se non architetto, visitandolo la noterà, perché l’armonia è un fatto ancestrale, che è dentro di noi. Se non la noterete preoccupatevi, perché ciò vorrebbe dire che avete completamente fossilizzato i vostri sensori della bellezza.
Poffabro, arroccato ai piedi del monte Raut, immerso in una natura incontaminata, è poco conosciuto anche dai cittadini di Pordenone che abitano a soli 30 chilometri e che forse, in compenso, sono andati a visitare le rovine Maya a migliaia di chilometri di distanza.
Questo è un altro problema italiano: non conoscere le proprie bellezze.

Un mio amico, l’entomologo Giovanni Onore, che in Ecuador sta portando avanti un progetto di salvaguardia di una foresta primaria sostenuto anche dalla nostra azienda, mi dice sempre: «Si può salvare solo ciò che si conosce». Per questo divide i finanziamenti che ottiene in due parti: una parte la usa per acquisire tratti di foresta da preservare con la Fondazione Otonga e una parte la investe in borse di studio, destinate ai ragazzi del luogo per lauree in materie inerenti la salvaguardia della natura.
Dovremmo trovare anche noi dei metodi per far appassionare gli italiani a visitare musei e siti di inestimabile bellezza. Il governo dovrebbe collaborare con le agenzie turistiche per trovare dei sistemi per sviluppare un nuovo turismo interno, magari trasformando il turismo balneare in “balneoculturale”. Molte nazioni hanno il mare ma solo noi abbiamo il mare e il più grande patrimonio architettonico e artistico al mondo; tutto ciò potrebbe dar lavoro anche a migliaia di giovani disoccupati, laureati in conservazione e gestione dei beni e delle attività culturali, in conservazione e restauro, in architettura, che possano accompagnare le persone in un percorso, oltre che piacevole, anche culturale, in modo che gli italiani, conoscendo il loro patrimonio di bellezza, diventino i più accaniti difensori della stessa.

Tutto questo mio parlare di salvaguardia, non deve far pensare che ciò possa bloccare l’economia. Anzi. Farei ripartire subito l’edilizia mettendo in moto, con appositi incentivi, la messa in sicurezza degli edifici rispetto alla possibilità di scosse sismiche. C’è un lavoro immenso da fare, ma noi aspettiamo sempre l’evento e poi il governo spende mille volte di più.
L'operazione, più che con incentivi consistenti, che dal nostro povero governo non possiamo aspettarci, dovrebbe partire con un'opportuna campagna d'informazione, per rendere coscienti i cittadini del pericolo che corrono, se non mettono in opera i lavori indicati. Conosco delle persone molto facoltose, che abitano in case non antisismiche in zone ad alto rischio. Economicamente avrebbero i mezzi per intervenire, ma non hanno minimamente coscienza del pericolo. Ogni italiano ha un rapporto particolare con la propria casa: pensa sempre che sia la più forte del mondo e ammettere che sia insicura lo obbliga a un processo mentale contro natura.
Una comunicazione forte, che possa vincere queste resistenze, farebbe partire subito un lavoro immenso in edilizia. Lo dico per esperienza diretta: a qualche amico ho fatto notare che la sua casa non era sicura, ma sono sempre stato guardato con gli occhi sgranati, perché questo argomento non era mai stato motivo di riflessione.
Esiste poi una buona parte di architettura industriale da sistemare. Un intervento strutturale, in particolare, è urgente: unire con staffe metalliche o fibra di carbonio le travi, che in moltissimi capannoni sono semplicemente appoggiate, sui pilastri. È un lavoro poco costoso che elimina il problema accaduto in Emilia. Anche qui serve una forte sensibilizzazione, perché gran parte degli imprenditori non sono coscienti della fragilità dei loro capannoni.
Facendo ripartire l’edilizia, ripartirebbe l’intera economia. Lo Stato incasserebbe molto di più degli incentivi spesi e potrebbe concentrare gli aiuti economici sui più poveri e sulle aziende.
A questo punto vorrei condensare tutto il programma finora esposto in una linea guida per il nostro Paese che, al di là dei partiti e delle ideologie, possa diventare una possibile rotta per la nave-Italia.
Ecco qui rappresentato in questa metafora il mio pensiero.



Le due colonne, CREATIVITÀ e BELLEZZA, che con passione ho cercato di descrivere e in favore delle quali ho tentato di tracciare qualche linea di sviluppo, appoggiano su una base: l’etica. Bisogna ripartire da qui, bisogna ricostruire le fondamenta per il rilancio di questo Paese, perché sappiamo quanto oggi siano fragili.
Ma che cosa è l’etica? Quando ero giovane ho posto questa domanda a mia nonna, lei mi ha risposto così: «Se vuoi essere etico devi imparare a mettere in questa successione quattro verbi. Il primo, essere: perché ogni individuo è unico e deve elaborare il suo pensiero, che lo porterà allo sviluppo di una personalità autonoma e a pensare con la propria testa. – Altro che il nichilismo imperante! – Il secondo, fare: il lavoro nobilita l’uomo, “dire” non conta nulla. Il terzo, avere: come giusta ricompensa del fare». Mi viene spontaneo pensare a tutti quei politici che considerano l’avere non come giusta ricompensa del fare, ma del furto... «Il quarto devi scoprirlo da solo – mi ha detto – perché solo allora sarai etico». Il quarto verbo ve lo svelerò alla fine di questo testo.
Oggi mia nonna si rivolta nella tomba, perché abbiamo invertito i verbi: primo, avere per essere e, con la finanza creativa e con il furto, senza fare.

Dopo aver rinforzato le fondamenta dobbiamo impegnarci a costruire le due colonne portanti della creatività e della bellezza che ci daranno possibilità di lavoro nell’innovazione, nell’arte, nel design, nella personalizzazione con l’artigianalità. A questo proposito vedo ogni giorno chiudere botteghe artigiane. La globalizzazione che obbliga a un mercato mondiale chi vuol continuare a vivere, chiude le porte all’artigiano che non ha la forza di internazionalizzarsi. Senza l’artigianato si va verso l’omologazione, verso l’uguale che, come ho spiegato, è il contrario del bello.
In Italia abbiamo una capacità artigianale enorme, non possiamo permetterci di perderla. Bisogna che il governo intervenga per favorire una collaborazione tra artigiano e industria. La nostra azienda sta realizzando, a questo proposito, un progetto specifico: il lavoro di piccole botteghe artigiane permetterà di personalizzare in maniera unica un nostro prodotto che, tramite la nostra forza commerciale, entrerà in case sparse in tutto il mondo.
Così il lavoro di un piccolo artigiano diventerà un'opera globale. Noi italiani, che non possiamo competere sul piano del prezzo, dobbiamo assolutamente recuperare la forza personalizzante dell’artigianalità. A questo proposito cito due libri: Futuro Artigiano di Stefano Miceli e L’Uomo Artigiano di Richard Sennett.
Servono, però, due azioni del governo. Primo: una riduzione delle tasse a tutti quegli artigiani che lavorano per l’industria allo scopo di favorire questo matrimonio; secondo: una semplificazione burocratica profonda e reale per tutte le botteghe artigianali con meno di 10-15 operai. Ho sentito con le mie orecchie dichiarare da parte di molti artigiani la loro decisione di chiudere, perché non ne possono più delle pratiche burocratiche. Sono interventi semplici, che si possono fare subito, ma è necessario che chi ha il potere decisionale si sporchi le mani, vada ad ascoltare gli artigiani che lavorano, per capire le loro reali necessità. In Italia, di solito, si decide nelle stanze asettiche dei palazzi romani e si promulgano provvedimenti cervellotici che, invece di semplificare, complicano ulteriormente le cose.

Tornando alla metafora delle colonne, ho messo come possibilità di sviluppo del lavoro la genuinità. Penso che l’Italia, spesso schiava delle leggi standardizzanti europee, debba avere, almeno sul cibo, il coraggio di emanare leggi molto più severe, per bandire, ad esempio, tutti i coloranti, i conservanti, gli insaporitori chimici e tutte quelle diavolerie che vengono usate nei ristoranti.
Ritorniamo al cibo genuino, indipendentemente dalle leggi europee! Com'è ridotto il settore del gelato? Intrugli di polveri e concentrati fanno rabbrividire l'insegna che ormai troneggia quasi in ogni gelateria italiana: “Gelato artigianale”. Eppure, in anni non molto lontani, i gelatieri italiani conquistavano il mondo con la loro qualità.
Sempre in tema di enogastronomia constato, per fortuna, quanto successo stanno avendo Slow Food e Eataly, che recuperano la vera artigianalità e le varietà genuine della storia dei cibi e dei vini italiani.
Il governo deve avere il coraggio di emanare leggi che rendano il cibo italiano il più genuino al mondo. Sono certo che provvedimenti del genere, che non costerebbero nulla allo Stato, genererebbero un potente volano per il turismo, che potrebbe dar lavoro a migliaia di giovani. Attraverso la ricerca della genuinità si potrebbe ridar vita anche alla nostra agricoltura agonizzante, sviluppando con intelligenza e creatività il biologico, per diventare i primi al mondo in questo settore.
Non mi dilungo a scrivere tutte le opportunità che si possono sviluppare sopra le colonne della creatività e della bellezza, perché voglio riservare uno spazio alle richieste che mi sento di fare come P.M.I., ossatura dell’industria italiana, purtroppo inascoltata.
Non avanzo istanze generiche. Chiedo provvedimenti da attuare subito.

Primo: sviluppare l’internazionalizzazione delle P.M.I. In Italia esistono aziende con prodotti d'eccellenza che, però, non hanno la capacità di internazionalizzarsi. Cosa fare? Creare all’Università la specializzazione di “Export management”. Non un corso teorico, ma una Facoltà che selezioni ragazzi laureati, anche stranieri, con un bagaglio di almeno tre lingue.
Il percorso di studio, un triennio, potrebbe prevedere un anno per la teoria e, per gli stranieri, di perfezionamento della lingua italiana.
Il secondo anno dovrebbe impegnare lo studente nell’azienda che avrà espresso l’intenzione di assumerlo a fine corso. L’azienda indicherà per quali Paesi ha bisogno dell’export manager, in modo tale che il percorso di studi segua in maniera specifica l’esigenza commerciale. In questo anno imparerebbe tutti i plus di prodotto che l’azienda intende esportare e si integrerebbe con la struttura della stessa.
L’ultimo anno potrebbe essere vissuto in ambasciate e/o consolati italiani. I rappresentanti diplomatici si impegnerebbero a mettere in contatto i ragazzi ivi ospitati con gli attori del commercio e dell'industria locali. Che bello sarebbe far collaborare le ambasciate!
I ragazzi, alla fine degli studi, sarebbero in possesso di una rete di conoscenze tali da renderli subito operativi nelle P.M.I. e potrebbero contribuire fattivamente a sviluppare l’internazionalizzazione delle stesse.
Un esempio concreto: la mia azienda intende allargare il mercato ed esportare in India. Fa richiesta di un export manager per questo Paese. L’Università si fa carico di trovare un neolaureato indiano disponibile a fare questo percorso con borsa di studio. Partendo già dalla conoscenza della lingua indiana e delle abitudini di questo Paese, sarebbe semplicissimo ottenere un ottimo export manager, formato alla perfezione per l’azienda che ne ha fatto richiesta. Interessante anche il fatto che tutti questi ragazzi alla fine del percorso scolastico avrebbero garantito un posto di lavoro. È chiaro che se fossimo partiti 10 anni fa con questa operazione, saremmo già operativi da anni, comunque meglio tardi che mai.

Secondo: lo Stato deve organizzare un’agenzia per la difesa dei brevetti, del design, della tipicità del cibo italiano. Sarebbe un provvedimento particolarmente importante per le P.M.I., che non hanno la forza per difendere il proprio prodotto in tutto il mondo.
Tale sistema deve prevedere la possibilità di depositare presso l’agenzia gli elementi da difendere, con un minimo versamento in percentuale sul fatturato del prodotto realizzato nei Paesi nei quali l’agenzia stessa garantisce la difesa dalle contraffazioni (ad esempio, lo 0,05%).
In questo modo lo Stato, con una spesa minima, potrebbe organizzare un apparato, a livello mondiale, che costituisca un incubo per i copiatori, che, a questo punto, coscienti che il prodotto italiano viene difeso con grande forza, sposterebbero la loro mira verso altri Paesi.
Quello appena descritto è una reale necessità per le P.M.I. Alla nostra azienda i cinesi hanno copiato dei prodotti e hanno rilevato a scanner le fotografie dei nostri cataloghi per realizzare, con le nostre foto, i loro depliant. È una sfacciataggine insopportabile. Il governo su questo deve intervenire. Se ci fosse la volontà politica, collaboreremmo subito a mettere in piedi quest'agenzia.

Terzo: nella metafora della nave ho tracciato un ponte tra l’isola della creatività e della bellezza con l’isola della ricerca. Ciò significa che nel nostro Paese dobbiamo far ripartire la ricerca. Senza ricerca non possiamo sviluppare per esempio l’ecosostenibilità, ma saremmo in grado di operare solamente attraverso giochi di marketing o di pennello verde. Cosa fare concretamente?
Il governo deve finalmente avere il coraggio di liberarsi dei baroni che hanno ingessato le Università, baroni che per fare punteggio utilizzano le tesi dei ragazzi per pubblicare articoli e libri, senza capo né coda, che firmano e che nessuno leggerà.
Deve avere spazio il merito e, nella ricerca, va premiato con finanziamenti solo chi sviluppa brevetti. Non brevetti qualunque, ma quelli nati dall’ascolto delle necessità delle P.M.I., che acquisteranno tali innovazioni, aiutando a finanziare i centri ricerca delle Università.
Si può fare, si deve fare subito, è a costo zero.

Spero che con queste nostre proposte nasca un dibattito e si realizzino cambiamenti concreti.
(Di Gabriele Centazzo - www.rinascimento-italiano.it)

P.S.
Avevo promesso che alla fine avrei svelato l’ultimo verbo da mettere in successione per essere etici. È condividere. La giusta successione è questa: essere, fare, avere e condividere. Il termine condividere non comprende solo gli elementi materiali, ma anche quelli culturali. Dunque non è etica quella parte colta e raffinata del nostro Paese, per fortuna numerosa, che, schifata dalla volgarità dominante, dal brutto imperante, si è messa in disparte per non sporcarsi le mani. Così facendo, ci ha lasciato nelle mani della volgarità, del cattivo gusto, dei furbi, di politici che hanno perso il senso della dignità, della giustizia e della bellezza e che, promuovendo il degrado senza essere intimiditi dal sentimento del pudore e della vergogna, hanno rovinato l’Italia.
È tempo che la parte sana di questo Paese si rimbocchi le maniche e, recuperando l’eticità, lavori per un nuovo Rinascimento italiano.
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