Quegli incroci tra un gioiello della meccanica italiana in fallimento e gli indiani di Gammon
Nei rapporti già difficili tra India e Italia, minati dalla
vicenda dei Marò e dal processo sulla tangente per i 12 elicotteri AW101 di
Agusta Westland, spunta pure il caso della Franco Tosi. L’azienda di Legnano, fiore
all’occhiello della meccanica italiana con Riva e Ansaldo fino alla fine degli
anni ’90, in amministrazione straordinaria (legge Prodi) dal settembre 2013, in pancia 200
milioni di euro di debito, è da mesi in attesa di risposte dal governo per la
vendita coordinata dal commissario straordinario Andrea Lolli. A quanto pare
adesso è tutto slittato a giugno, quando - secondo la Fiom Lombardia – si
rischia di iniziare «lo spezzatino di vendita».
Ma l’intreccio tra i 400 lavoratori in cassa integrazione, i
sindacati sul piede di guerra, e il 75% della proprietà in mano alla Gammon -
colosso delle costruzioni con più di 4mila dipendenti in India arrivato nel
2008 - non lascia presagire nulla di buono per il futuro. Anche perché in
queste condizioni la
Franco Tosi è ferma al palo. Ha già perso due commesse (in
Nicaragua e Bolivia) e non può operare, se non per le semplici operazioni di
service.
«Anche la Gammon
in India è sull’orlo del baratro», spiega un dirigente a microfoni spenti, «non
vorremmo che il fallimento della Tosi o la perdita delle garanzie bancarie
comportasse un peso per il bilancio degli indiani: per questo motivo, forse, si
sta prendendo tempo».
La storia della Tosi è molto simile a quella di altre grandi
aziende della meccanica italiana, specializzate in turbine per centrali
idroelettriche o termoelettriche a vapore. C’era una volta un’impresa
immensa, nata nel 1881, capace di dare lavoro a più 5mila persone su un’area di
quasi 350mila, con un passato ripreso pure nei libri di storia e nel Museo
della Scienza e della Tecnica di Milano. La Tosi vanta un parco macchine installato nel mondo
per una potenza elettrica pari a poco meno di 100 Gigawatt, e gode di una
ottima reputazione per qualità tecnica e realizzativa. Attualmente la Tosi
ha ancora un parco macchine e attrezzature di officina se non uniche di
primissimo piano per grandezza e capacità nel panorama italiano. Eppure questo non è bastato alla Tosi per far valere le proprie
ragioni, aggiornarsi e immettersi sul mercato della meccanica internazionale
con successo.
I problemi sono iniziati alla fine degli
anni ’90, quando il gruppo Finmeccanica, con Ansaldo Energia, iniziò a tagliare
i lavoratori. Scioperi, tensioni, i debiti, un insoluto con Equitalia di quasi
50 milioni di euro, la carenza di aggiornamento tecnologico, sono stati tutti problemi che si sono
sommati di anno in anno. E che nessuno è riuscito a risolvere. Nel 2000, quando
la Tosi vanta un
capitale sociale di oltre 70 miliardi di vecchie lire (45 milioni di euro)
arriva l’imprenditore varesino Gianfranco Castiglioni, già patron della Cagiva.
Il morale dei lavoratori è alle stelle, ricordano le cronache
dell’epoca. Ma qualcosa va storto perché dopo appena 8 anni la situazione
sembra precipitare, anzi pare persino peggiore rispetto agli anni ’90. Arrivano gli indiani della Gammon che puntano sul rilancio
dell’azienda. I governi Prodi e Berlusconi provano a dare una mano. E provano a
rilanciare l’industria immettendo nuove liquidità e sviluppando dei piani
integrati con il Politecnico di Milano. Ma non c’è niente da fare. I soldi
finiscono in fretta, forse vengono spesi anche male per tappare altri buchi, le
banche chiudono le fidejussioni e non si fidano degli indiani. E così si arriva
all’anno scorso, quando la “questione indiana» esplode a Legnano.
Fino al luglio del 2013 come
amministratore delegato della Tosi c’è Shiva Duggirala, manager Gammon, che a
quanto pare non ha fatto bene i calcoli dopo aver rilevato l’azienda. Nella scorsa estate, infatti,
si parla di fallimento immediato per la Tosi. Di soldi non ce ne sono più in cassa. Così ai primi di luglio si cambia,
Duggirala si dimette e arriva Vinod Sahai, indiano da più di quarant’anni in Italia,
già manager Fiat e presidente dell’Indian business forum of India e
dell’Associazione indiana del Nord Italia. Sahai in Italia e in India conosce
tutti, tra politica, baca e finanza, tanto che nel 2012, quando scoppia il caso
dei Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di aver ucciso
ingiustamente dei pescatori, è proprio lui a farsi carico di risolvere la
questione giudiziaria con l’India. Ne parla persino in un colloquio con Libero dove si dice «ottimista del loro ritorno». A distanza di due
anni però i nostri due militari rischiano la pena di morte e allo stesso tempo la Franco Tosi è tutt’ora
ferma al palo.
Il 25 luglio del 2013 infatti il tribunale di Milano certifica
l’insolvenza della Tosi. Il fallimento viene scongiurato, a Legnano si
avvalgono della Legge Prodi sulla amministrazione straordinaria. Si apre alla
vendita dell’azienda. E qui incominciano le stranezze. Tra gli offerenti c’è la Termomeccanica Italiana
di La Spezia ,
105 milioni di euro di valore con un debito di 25. Vogliono gli stabilimenti di piazza Monumento per
costruire un nuovo polo della meccanica in Italia. Tra le offerte però spunta
pure quella della Patel Engineering, azienda indiana con sede a Dubai, che a
quanto pare non ha un «carattere industriale», promette commesse per 300
milioni di euro e vanta un rapporto proprio con la Gammon : nel 2007 le due
aziende avevano stabilito una joint venture per la costruzione di una centrale
idroelettrica da 434 Mw a Himacal Pradesh, in India.
A Legnano
qualcuno si domanda che cosa stiano combinando gli indiani. Eleonora Cimbro,
deputato del Partito Democratico, ha presentato un’interpellanza parlamentare,
a cui il ministero dello Sviluppo Economico ha risposto senza aggiungere molto
di più di quello che già si sapeva. E allo stesso tempo i sindacati sono pronti
a rivolgersi al tribunale. «Il commissario straordinario ha il compito di
tentare la vendita complessiva, non di spacchettare l’azienda pezzo per pezzo,
vendendone segmenti sparsi, magari appetibili senza darne alcuna informazione
con conseguenze occupazionali inaccettabili e pesantissime per i lavoratori».
Il segretario generale Mirco Rota dice: «Se queste cose fossero vere, non
esiteremmo un istante a denunciare il tutto alla Procura della Repubblica».
Qualcuno sta facendo l’indiano?
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