Anche
i più convinti assertori del liberalismo e dell’economia di mercato
cominciano a nutrire seri dubbi su quanto è avvenuto e ancora avviene in
questo periodo di crisi profonda. Fermo restando che il libero mercato
continua a essere lo strumento migliore per l’allocazione delle risorse,
e che i modelli alternativi si sono rivelati fallimentari alla prova
della storia, c’è qualcosa di inquietante nel susseguirsi di allarmi che
ormai scandiscono la nostra vita quotidiana.
Paolo Franchi ha scritto sul Corriere della Sera che nemmeno l’esito
tutto sommato positivo delle elezioni in Grecia è stato in grado di
“distogliere i mercati dalla loro collera fredda contro i debiti sovrani
che contano, a cominciare dallo spagnolo e dal nostro”.
Già. Qualcuno è però in grado di spiegare in modo chiaro e
comprensibile al volgo di che si parla usando a piene mani il termine “i
mercati”? Ne avremmo diritto, visto che tale fantomatica entità sta
decidendo, giorno dopo giorno, il destino di interi Paesi e di un numero
tremendamente alto di esseri umani. Non stiamo parlando di quisquilie.
Qui si rischia di travolgere un sistema economico e politico il quale,
pur imperfetto e pieno di difetti, ha dato all’Occidente un periodo
assai lungo di pace e di benessere, fungendo pure da locomotiva per il
resto del mondo.
E se, invece di continuare a parlare di “mercati”, ricorressimo
all’espressione “grande speculazione internazionale”? Intendiamoci, la
speculazione finanziaria è sempre stata elemento essenziale del
capitalismo. La libertà implica il rischio, e quest’ultimo consente a
chi lo corre di essere remunerato se sceglie in modo giusto, e punito se
la scelta si rivela sbagliata.
Vi sono tuttavia limiti, che un grande economista liberale come Luigi
Einaudi sottolineò più volte. La sua diffidenza nei riguardi dello
strapotere dello Stato non gli impediva di notare che quando sono in
gioco problemi della vita collettiva la decisione ultima spetta alla
politica. Esiste il primato dell’economia sul piano tecnico, e
naturalmente buon politico è colui che rispetta il più possibile i dati
offertigli dall’economista. Ma l’economista propone e il politico
dispone. Se accade il contrario vengono lesi gli stessi principi
fondanti della democrazia liberale.
Perché, dunque, dobbiamo piegarci impotenti alla “collera fredda dei
mercati”, senza neppure sapere chi sono le persone in carne e ossa che
li indirizzano? E non si ricorra – per favore – alla storia della “mano
invisibile”. Nel caso specifico siamo di fronte a una strategia mirata,
anche se i comuni mortali non hanno ancora capito quale sia. Ci sarebbe
spazio a volontà per un “plot” alla Dan Brown, se qualcuno avesse voglia
di scriverlo.
Non parliamo poi delle celebri agenzie di rating. Anch’esse paiono
pervase dalla stessa collera fredda che anima i mercati. Il punto è che
non si capisce chi abbia conferito loro il potere di intervenire in
maniera così invasiva, determinando ondeggiamenti di borsa che portano
sempre più vicino al rischio di un collasso globale.
Le più influenti sono tutte americane, e a questo punto nascono altri
interrogativi. Il Presidente Obama ha cercato di porre dei paletti, dal
momento che la loro collera si rivolge ogni tanto anche verso gli USA.
Tuttavia Obama è un grande oratore, ma si ha spesso la sensazione che
sul piano decisionale conti assai meno delle lobbies che – probabilmente
– sono i veri referenti delle agenzie.
Per questo stupiscono non poco le continue accuse che il governo
americano rivolge alla UE. Vogliamo rammentare che la crisi ebbe origine
proprio negli Stati Uniti, con la gigantesca bolla finanziaria causata
dalla crisi dei subprime? E il caso Lehman Brothers si è forse
verificato sul suolo europeo? Le accuse andrebbero insomma rispedite al
mittente, se solo la UE avesse la forza di farlo.
Lungi da chi scrive l’intenzione di negare le colpe dell’Unione
Europea, e di alcuni Stati membri in particolare. In questi anni si è
pensato solo a economia e finanza, scordando che una moneta esiste ed è
forte soltanto nella misura in cui ha dietro un governo – anche federale
– in grado di esprimere una volontà politica condivisa. Inoltre
l’allargamento a dismisura dell’Unione è stato concepito male e per
ragioni più propagandistiche che di sostanza.
Tuttavia resta la sensazione di essere vittime di forze anonime e
incontrollabili, e per quale motivo non se ne dovrebbe parlare? E’ stata
evocata l’ipotesi di un progetto di ambienti americani volto a
sbarazzarsi della UE, concorrente potenzialmente temibile in futuro
nello scenario mondiale. Forse sono fantasie, ma qualche indizio a
favore c’è.
Incomprensibili anche le reazioni stizzite ogni volta che qualcuno si
azzarda a sostenere che l’uscita dall’euro è preferibile a questa
interminabile agonia. Meglio sarebbe che chi governa spiegasse agli
italiani i pro e i contro di una simile mossa, usando un linguaggio
semplice e non da iniziati. Personalmente credo che abbandonare
l’eurozona sarebbe una tragedia, ma vorrei anche che gli addetti ai
lavori esponessero con pacatezza i motivi di una sensazione che tanti
condividono.
Franklin D. Roosevelt, dopo la grande crisi del 1929, riuscì a
catturare il consenso degli americani diffondendo per radio i suoi
celebri “discorsi al caminetto” in cui spiegava in modo semplice che
cosa intendeva fare. Qualcosa di simile sarebbe quanto mai opportuno,
poiché l’assenza di comunicazione tra governanti e governati è il peggio
che a un Paese possa capitare.
(da loccidentale.it del 22/06/2012 - di Michele Marsonet)
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