18 SET - Gentile direttore,
I tormentati rapporti tra Stato e Regioni non trovano pace all’interno della Costituzione della Repubblica italiana e il dibattito tra centralismo e decentramento (se non federalismo) è diventato ormai una costante nel dibattito politico. Le Regioni sono gli unici enti politici che hanno il potere – oltre al Parlamento e, per la decretazione di urgenza o per gli atti aventi valore di legge, il Governo – di emanare atti legislativi relativi al territorio di competenza.
I rapporti tra legislazione statale e regionale sono regolamentati, da sempre e nelle varie formulazioni, dall’articolo 117 della Costituzione attraverso, inizialmente, la sola “legislazione concorrente” e, dopo la riforma del 2001, anche attraverso l’individuazione di materie di legislazione esclusiva di Stato e Regioni. Il legislatore costituzionale del 1948 attribuì allo Stato la competenza a legiferare in generale e attraverso l’articolo 117 individuò una serie di “materie” in cui le Regioni potevano emanare norme legislative “nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni”.
E’ quella che tecnicamente si chiama legislazione “concorrente”. Per legislazione concorrente si intende quel riparto di competenze tra Stato e Regioni nel quale, una stessa materia, necessita del duplice intervento tra legge statale e legge regionale. La prima è destinata e stabilire i “principi fondamentali della materia”, mentre la seconda è finalizzata a regolamentare la materia all’interno di quei principi.
La Costituzione del 1948 attribuì allo Stato la competenza generale e alle Regioni, attraverso la legislazione concorrente, la possibilità di, appunto, concorrere in una serie di materie indicate proprio dall’articolo 117. Tra queste era presente la sanità: competeva alle Regioni la competenza concorrente in materia di “assistenza sanitaria e ospedaliera”. Le Regioni, quindi, avevano solo la possibilità di legiferare in modo concorrente e di conseguenza solo dopo che lo Stato aveva fissato i “principi fondamentali” nelle leggi dette “cornice” o “quadro”.
Con la riforma del Titolo V del 2001 – Governo Amato - a stretta minoranza (come in realtà una revisione costituzionale non dovrebbe essere fatta!) passò una riforma proprio del riparto di competenze tra Stato e Regioni in misura più “federalista”. Le Regioni si videro assegnare più competenze di quelle precedenti e, soprattutto, una suddivisione di ambito tra una legislazione esclusiva dello Stato, una esclusiva delle Regioni e una concorrente.
Nella legislazione concorrente, per quanto riguarda la sanità, venne ricompresa la “tutela della salute” e non la più elementare “assistenza sanitaria e ospedaliera”. La Regione, come ente quindi, codecisore, insieme allo Stato del principio costituzionale della “tutela della salute”.
Con la revisione costituzionale - c.d. Renzi-Boschi – si cambierebbe ancora. Invece della tripartizione – competenza esclusiva dello Stato, competenza esclusiva delle Regioni e competenza concorrente – si passerebbe a una bipartizione di due legislazioni esclusive di Stato e Regioni abolendo la legislazione concorrente.
La sanità verrebbe ripartita tra lo Stato che si vedrebbe attribuita la competenza sulle “disposizioni generali e comuni sulla tutela della salute” e le Regioni si vedrebbero attribuita la competenza di “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali”.
L’abolizione della legislazione concorrente – propugnata, è giusto ricordarlo, dalla stessa parte politica che l’approvò a stretta maggioranza (quindi dagli stessi “padri costituzionali” del 2001) viene giustificata con il costante conflitto di attribuzione che si forma alla Corte costituzionale sulla legislazione concorrente. Gli specialisti che si sono occupati dell’argomento ci mostrano statistiche impietose però: in circa il 75% dei casi è lo Stato che ha impugnato le decisioni regionali. A fronte quindi di una riforma che voleva assumere il decentramento come spinta verso il federalismo, negli ultimi 16 anni si è osservato lo Stato alimentare il contenzioso verso le Regioni, controbilanciando (o tentando di controbilanciare) la spinta al decentramento. Uno Stato che, di fatto, non accetta l’autonomia regionale.
Nella revisione costituzionale Renzi-Boschi lo Stato si prende una rivincita e vede enormemente aumentate le proprie competenze. Viene abolita, come abbiamo detto, la legislazione concorrente e, quasi tutte le materie ivi incluse, passano alla legislazione esclusiva dello Stato. Nell’analisi tra l’articolo 117 del 2001 e quello che viene sottoposto a referendum lo Stato vede riconosciute, come legislazione in via esclusiva, quasi cinquanta materie.
Riforma che potremo tranquillamente, senza timore di smentita, definire “neocentralista”.
In realtà, a ben vedere, sulla sanità e non solo sulla sanità, l’abolizione della vituperata “legislazione concorrente” esce dalla porta e rientra, a pieno titolo, dalla finestra.
La legge di revisione Renzi-Boschi afferma di volere abolire la legislazione concorrente, ma poi utilizza espressioni scivolose, di incerta interpretazione. Se competono allo Stato le “disposizioni generali e comuni” non competono però alle Regioni le disposizioni non generali e non comuni in materia di tutela della salute – stessa formulazione utilizzata anche per la materia “istruzione” - ma solo di assistenza sanitaria e ospedaliera. Se non competono alle Regioni vuol dire che si rischiano dei vuoti legislativi che nessuno può colmare?
Dato che un ordinamento giuridico non può tollerare lacune, la disposizione dell’articolo 117 versione Renzi-Boschi non contiene novità di alcun rilievo, mantenendo di fatto ciò che è stato di diritto fino ad oggi: la legislazione concorrente in materia di sanità. E’ stata già coniata, per indicare questi casi, la “clausola di colegislazione”. Senza dirlo esplicitamente, anzi affermando il contrario, le disposizioni sulla sanità mantengono la legislazione concorrente. Difficile non concordare con chi ha definito questa parte della riforma renziana una “mera operazione gattopardesca” (Antonini, 2015).
Quindi all’interno della dichiarata competenza esclusiva dello Stato, per la “tutela della salute” lo Stato stesso limita il suo potere legislativo alle disposizioni generali e comuni, le Regioni intervengono sulla programmazione e organizzazione dei servizi sanitari”, ma anche sulle disposizioni di dettaglio della tutela della salute che lo Stato lascia scoperte.
Non ci sarà, però, solo la competenza regionale che interverrà colmando le lacune statali, ci potrà anche essere l’inverso: la totale sottrazione di ogni potere legislativo alle Regioni attraverso la clausola c.d. di “supremazia”, detta anche di “salvaguardia”, di “prevalenza” o di “flessibilità”. Il quarto comma dell’articolo 117 prevede, infatti, che lo Stato possa intervenire nelle materie affidate dalla Costituzione alla legislazione esclusiva regionale quando lo richieda la “tutela giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Su proposta del Governo il Parlamento deve legiferare invadendo le competenze regionali esclusive in base a valutazioni che sono volutamente indicate come generiche e interpretabili. Qui il progetto di revisione costituzionale Renzi/Boschi mostra un volto ipercentralista e non solo motiva l’invasione in base alla “tutela giuridica e economica”, ma rispolvera “l’interesse nazionale” archiviato con la riforma del titolo V del 2001.
In materia sanitaria, quindi, il Parlamento e il Governo potrebbero invadere, anche sistematicamente, le competenze regionali degradando la funzione regionale a mera funzione amministrativa. Lo Stato potrebbe avocare a sè, in nome di un generico e indeterminato “interesse nazionale”, pressoché tutte le decisioni, non solo in materia di “tutela della salute” bensì anche di “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali”. Al legislatore statale sarebbe rimessa, di volta in volta, la decisione su “quanta autonomia” concedere alle Regioni (Antonini, 2015).
In tema di autonomia delle Regioni la riforma Renzi/Boschi porta indietro le lancette dell’orologio a prima del 1970: Costituzione vigente (con prevista la legislazione concorrente) ma inesistenza degli enti regionali (che con la revisione rischiano di essere fortementee depotenziati).
In conclusione: revisione costituzionale improntata un chiaro neocentralismo che, con la c.d. “clausola di supremazia” diventerebbe un evidente ipercentralismo statale in nome di un “interesse nazionale” di incerta individuazione sulle materie che la riforma stessa ha già pesantemente dimagrito rispetto alla Costituzione vigente. Quale sia l’interesse nazionale a legiferare sulla “programmazione e organizzazione sanitaria” non è ben chiaro.
Il contenzioso Stato-Regioni rischia di non svanire affatto nel momento in cui, come abbiamo visto, la stessa revisione costituzionale attribuisce allo Stato solo le “disposizioni generali e comuni” e al tempo stesso il potere di invasione sulle competenze esclusive delle Regioni vanificando l’articolo 5 della Carta stessa che impone di “promuovere le autonomie locali” e di adeguare i principi e i metodi della propria legislazione “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Ricordiamo che la revisione costituzionale proposta mantiene tutte le 5 Regioni a statuto speciale che conservano intatta la loro autonomia. Tutte le considerazioni fatte in questa sede valgono quindi solo per le 15 Regioni a statuto ordinario.
La riforma della riforma del titolo V – operata, come abbiamo già notato, dalla stessa parte politica – contiene sgrammaticature, “palesi errori” (De Siervo, 2016) e rischi di vanificare il ruolo delle Regioni, nei fatti esautorate e ridotte a vedersi attribuite solo “marginali poteri di attuazione delle norme statali” (sempre De Siervo, 2016).
D’altra parte forse il neocentralismo, in questi anni, è stato comunque ben presente: cosa è, se non neocentralismo, il fatto che diverse Regioni, da molti anni sono commissariate e rispondono direttamente al Governo?
Non convince la spiegazione, fornita in chiave sostanzialmente antipolitica sullo screditamento della classe politica regionale di fronte all’opinione pubblica in questi anni. Questo argomento potrebbe essere allargato, sempre in chiave antipolitica e demagogica, su tutta la classe politica nazionale.
Abbiamo quindi davanti due scenari nel rapporto Stato/Regioni in sanità:
a) lo Stato che non utilizza la clausola di supremazia;
b) lo Stato che utilizza e abusa della clausola di supremazia.
Nel primo caso, nei fatti, non cambia sostanzialmente nulla e le Regioni utilizzano la “colegislazione” concorrente fatta rientrare dalla finestra. Nel secondo caso si verserebbe in un neocentralismo impensabile fino a oggi.
In entrambi i casi un pasticcio che chiamare riforma non sembra corretto. Le conseguenze neocentraliste potrebbero portare lo Stato – attraverso la legge ordinaria e il Ministero con nuovi poteri – a, lo diciamo a titolo esemplificativo, decidere sull’apertura e chiusura degli ospedali sul territorio, al numero delle aziende sanitarie, all’organizzazione interna ecc.
Non è questa la sede per approfondire, inoltre, le sovrapposizioni e le duplicazioni di competenze tra il nuovo Senato e la Conferenza Stato Regioni già stigmatizzate autorevolmente dalla Corte dei conti.
Sul metodo – l’approvazione a stretta maggioranza della Carta costituzionale – rischiamo lo stravolgimento del concetto stesso di Costituzione non più come “casa degli italiani”, ma come legge quasi ordinaria da cambiare secondo le opportunità politiche immediate. Ogni nuova maggioranza si sentirebbe legittimata a modificare la Costituzione in quanto non più vista come luogo delle regole del gioco comune. Piero Calamandrei, insigne giurista e padre costituente, scrisse che la Costituzione doveva essere “presbite”, non vedere al domani, ma destinata a durare nel tempo. La revisione costituzionale proposta è, invece, decisamente “miope”, vede benissimo nel corto raggio e pochissimo lontano.
Per l’approfondimento della revisione costituzionale complessiva vedi l’ebook gratuito, “In otto punti le ragioni del NO al Referendum costituzionale”.
Luca Benci
Giurista
(Fonte)
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