Da
qualche tempo a questa parte su giornali e blog vari si discute molto
dell’Europa dei banchieri. Visti come i veri padroni del vapore, costoro
imporrebbero agli stati misure restrittive secondo uno schema
ideologico di ferro che farebbe il gioco di pochi eletti a svantaggio
della gente comune.
Le critiche vanno dalle denunce alle politiche liberiste,
a confusionarie teorie complottistiche sul signoraggio, per arrivare
alla perdita di sovranità degli stati europei nei confronti di non ben
specificati centri di potere sovranazionale. Sebbene contengano molte
cose giuste, questo genere di critiche sono troppo generiche per
cogliere nel segno ma soprattutto non sciolgono un’ambiguità di fondo:
che genere di entità è l’Europa oggi? Per capirci qualche cosa di più,
proverò a chiarire a me stesso, e spero anche a chi legge, il campo di
gioco. Innanzi tutto va detto che oggi l’Europa non è un’entità
politica, quello è rimasto un progetto sulla carta ancora molto distante
dall’essere realizzato, ma monetaria. Il simbolo e il valore che la
definisce si chiama Euro, una moneta, non una politica, nemmeno una
visione politica ne tantomeno un’identità culturale.
Prima di aderire all’unione monetaria,
siamo all’inizio degli anni novanta, i singoli paesi stilarono i
criteri di convergenza necessari per entrare nell’Eurozona (intesa come
la zona dove l’Euro avrebbe avuto corso sostituendo le valute nazionali,
non la nazione europea). Questi criteri dovevano soddisfare quattro
parametri: 1) finanza pubblica (deficit di bilancio sotto controllo), 2)
andamento dei prezzi (tasso d’inflazione sotto un certo livello), 3)
tasso di cambio (quando c’erano ancora le monete nazionali), 4) tassi di
interesse a lungo termine. Per ognuno di questi parametri fu fissata
una soglia tassativa, superata la quale non si poteva entrare nell’Euro.
Erano i famosi parametri di Maastricht. I parametri non costituivano
solo una soglia di entrata ma un limite continuo che ogni paese era
tenuto a rispettare se voleva rimanere all’interno della zona Euro. Si
trattava, e si tratta, di parametri rigorosi, che rispecchiano una
gestione molto sobria dei bilanci statali, imposti principalmente dai
paesi nord europei, in particolare dalla Germania che temeva i bilanci
ballerini dei paesi latini, altrimenti detti PIGS (Portogallo, Italia,
Grecia e Spagna). L’obiettivo principale del primo governo Prodi
(1996-99) fu proprio quello di condurre con successo l’Italia nella zona
Euro riformando i conti pubblici dopo la disastrosa crisi del 1992. Da
quel momento la Banca Centrale Europea è diventata il cane da guardia
delle economie nazionali.
Infatti è stata la Bce a sovraintendere al processo d’integrazione monetaria,
valutando i parametri dei singoli paesi. Aderendo all’Eurozona i
singoli Stati hanno rinunciato alla loro sovranità monetaria,
rappresentata dalle diverse monete nazionali emesse dalle rispettive
banche centrali (da noi la Banca d’Italia) e hanno accettato la BCE come
unica autorità monetaria, riconoscendone scopo e missione costitutiva:
la stabilità dei prezzi e la difesa del valore della moneta. Inutile
aggiungere che una missione di questo tipo implichi politiche monetarie
restrittive che possono anche andare bene in una situazione economica
normale, ma che diventano una palla al piede in caso di forti
recessioni.
Il capitale della Banca Europea è costituito dalle banche centrali dei paesi aderenti e
il suo consiglio direttivo è presieduto dai governatori delle banche
centrali. Va aggiunto che, provenendo i membri del consiglio direttivo
dalle banche centrali dei rispettivi paesi, essi non sono eletti ma
seguono un percorso di carriera relativamente autonomo rispetto alla
classe politica. Per questo fatto la BCE si dichiara indipendente
rispetto ai governi e al parlamento europeo, che comunque per le
questioni economiche conta meno di zero. Se, però, gli Stati non hanno
nessuna influenza sulla BCE, la BCE ne ha, e molta, sugli Stati in
quanto è lei che gestisce la politica monetaria e sovraintende al
rispetto dei parametri di adesione all’Eurozona. Naturalmente è chiaro
che se un paese si chiama Germania e non ha nessun problema a rispettare
i parametri, la sua idea di politica monetaria s’identificherà
completamente con la politica attuata dalla BCE; gli intenti tra quel
paese e la Banca nella maggior parte dei casi convergeranno. Se però il
paese si chiama Italia, o Spagna, o perché no Francia, la cosa diventa
più complicata.
A questo punto occorre fare un passo
indietro e tornare alla fine degli anni novanta, gli anni
dell’entusiasmo europeo, quando la parola Europa unita era sulla bocca
di tutti, politici e non. Allora non furono pochi quelli che misero in
guardia di fronte a un rischio reale: se infatti all’unione monetaria
non fossero seguite in tempi rapidi, prima l’unione delle politiche
fiscali ed economiche e poi l’unione politica tout court (con un
ministero degli esteri e della difesa europeo ad esempio), si sarebbe
creato un ibrido tecnico che avrebbe rischiato di venire giù al primo
scrollone deciso della storia. Con l’istituzione della BCE gli Stati
perdevano uno strumento importante, l’autonomia monetaria, senza che
fossero previste delle contromisure per bilanciare tale perdita. A
queste critiche fu risposto affermando che l’Europa andava costruita per
gradi e che comunque i singoli paesi dovevano innanzi tutto dimostrare
la loro buona volontà, adeguandosi alla rigorosa gestione monetaria
della BCE. Il resto sarebbe venuto in automatico. Di fondo c’era il
timore, condiviso da molti paesi del nord Europa, di mettersi in casa
potenziali destabilizzatori (i PIGS), che con la loro cultura della
mazzetta e dello spreco di denaro pubblico,avrebbero potuto provocare il
fallimento immediato del progetto europeo. La cura BCE doveva servire
innanzitutto a questi paesi, per consentirgli gradualmente di mutare le
loro strutture adeguandole a quelle dei paesi più virtuosi.
L’entrata in crisi del sistema greco,
sebbene abbia creato delle ansietà, non ha mutato l’atteggiamento di
fondo della BCE, qualcosa in più invece è successo quando l’Italia ha
dato segni di cedimento, rischiando di trascinarsi dietro altri paesi.
Inizialmente la BCE ha sostenuto i titoli di stato italiani con
operazioni di mercato aperto, dopodiché la palla è stata ributtata nel
nostro cortile chiedendo all’Italia interventi strutturali per rientrare
nei parametri europei.
Oggi, però, c’è un fatto nuovo che può cambiare le cose:
la crisi ha iniziato a mordere le economie virtuose. Pochi giorni fa
l’asta dei Bund tedeschi è andata vuota per il 35%, un fatto clamoroso
per l’economia tedesca abituata a guardare gli altri dall’alto in basso.
La Francia, seguita timidamente dall’Italia, ha colto immediatamente la
palla al balzo per rilanciare l’idea degli Eurobond, i titoli di stato
europei che di fatto limerebbero l’autonomia della Banca Europea, ma la
cancelleria tedesca ha parato il colpo opponendo un deciso nein e
rilanciando invece l’integrazione fiscale, primo passo per
un’integrazione politica. La proposta tedesca non deve stupire, la
Germania è uno dei paesi che ha guadagnato di più dall’integrazione
monetaria, il modesto boom economico che ha vissuto negli ultimi anni è
dovuto principalmente alle esportazioni nell’Eurozona. Altri paesi come
la Francia, per non parlare dell’Italia, invece si sono indeboliti. Dopo
averla frenata per anni, Berlino rilancia dunque l’integrazione europea
a tutti i livelli, ricordando a tutti che l’Euro era solo una tappa, la
prima, delle molte previste.
La posizione tedesca non è dettata esclusivamente da interessi campanilistici,
sarebbe riduttivo vederla così. A Berlino c’è probabilmente la
convinzione che questa crisi possa provocare un terremoto mai visto e
che l’unico modo per impedire che le scosse telluriche mandino in
frantumi l’Eurozona, consista nel completare in fretta il processo
d’integrazione, arrivando a uno Stato Europeo con poteri sovranazionali
in materia di fisco, politica economica, politica estera ecc ecc.
Insomma l’Europa unita di cui tanto si vagheggiava vent’anni fa.
Questa volta però, a tirare il freno a mano sono i paesi meno virtuosi capitanati dalla Francia,
che non vuole nemmeno sentire parlare di perdita di sovranità. Secondo
Parigi per salvare la baracca basterebbe piegare la Bce alle esigenze
degli Stati, intervenendo sui parametri di Maastricht e lanciando gli
Eurobonds, che allontanerebbero il rischio default dai paesi deboli (e
in prospettiva anche dalla Francia).
Fatta la tara agli interessi di parte la sensazione è che i tedeschi, forse perché non si sentono più al riparo da brutte sorprese, abbiano compreso meglio e
più a fondo il potenziale rivoluzionario della crisi economica in atto e
tentino di reagire proponendo una trasformazione politica, e non solo
economica, del progetto europeo. Quello che nessuno sembra voler mettere
in discussione invece, sono i principi neoliberisti che regolano
l’economia capitalista. Eppure è da questi principi che la crisi ha
preso corpo.
(da www.lineadipartenza.it di Edoardo Laudisi
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