12 RISPOSTE SUL DEBITO E COME USCIRNE CON EQUITA'
1. Cos’è il debito pubblico?
Il debito pubblico si forma quando le strutture dello stato (governo,
regioni, province, comuni) spendono più di quanto incassano attraverso
imposte, tributi, tariffe, oneri sociali. Lo scarto che si crea nel
corso di un anno si definisce deficit. La somma di tutti i deficit
accumulati ad una certa data forma il debito. In altre parole il deficit
esprime la sfasatura relativa ai singoli anni; il debito la situazione
debitoria complessiva accumulata negli anni. Uno stato con potere di
battere moneta, può finanziare il proprio debito con l’emissione di
nuova moneta. Il che corrisponde ad una tassazione generalizzata di
tutti i cittadini, perché l’emissione di nuova moneta, a parità di
produzione, provoca inflazione, ossia aumento generale dei prezzi che
decurta il potere d’acquisto di tutti.
L’Italia ha utilizzato questa via prevalentemente negli anni
settanta, facendovi ricorso più limitato negli anni successivi. Ma da
quando è entrata nell’euro, nel 2001, questa possibilità le è preclusa
del tutto perché il potere di emissione è assegnato alla Banca Centrale
Europea, espressione delle banche centrali della zona euro, a loro volta
espressione delle banche private dei singoli stati. La Banca Centrale
Europea non ha fra i propri compiti quello di soccorrere i paesi
debitori e gli unici modi che questi hanno per fare fronte alle proprie
difficoltà finanziarie sono il dilazionamento dei pagamenti nei
confronti dei propri fornitori e l’accensione di prestiti presso banche e
qualsiasi altro soggetto (assicurazioni, fondi, famiglie) disposto a
fornire denaro in cambio di un tasso di interesse. Generalmente il
prestito è ufficializzato da un certificato emesso dal Ministero del
Tesoro, che certifica l’ammontare ricevuto, la data di restituzione e il
tasso di interesse riconosciuto. Tali certificati sono genericamente
definiti titoli di stato o titoli di debito pubblico, ulteriormente
suddivisi in Bot (Buoni ordinari del tesoro), Cct (Certificati di
credito del tesoro), o altro, in base alle condizioni specifiche del
prestito.
2. Come si è formato il debito pubblico in Italia?
In Italia, il debito pubblico ha cominciato ad assumere dimensioni
preoccupanti negli anni settanta, allorché iniziò a formarsi un divario
consistente fra entrate e spese pubbliche. Mentre in alcuni periodi le
uscite crescevano più ampiamente delle entrate, in altri succedeva che
le prime salivano mentre le seconde scendevano. Ad esempio, nel periodo
1971-1974 le entrate, in rapporto al prodotto interno lordo (Pil), si
ridussero dello 0,5% (dal 29 al 28,5%), mentre le uscite crebbero dal
36,9 al 43,4%.
Fra le ragioni per cui nel corso degli anni si sono avute entrate
inferiori a quelle che il sistema avrebbe potuto garantire, va citata la
riduzione delle aliquote sugli scaglioni più alti di reddito, la bassa
tassazione dei redditi da capitale, la riduzione se non l’eliminazione
delle imposte patrimoniali, l’elevato tasso di evasione fiscale,
l’espandersi dell’economia in nero.
Fra le ragioni per cui si è avuta un’accelerazione delle uscite,
vanno citate le politiche a sostegno delle imprese, il pensionamento
precoce nel settore pubblico, l’abnorme espansione occupazionale in
ambito pubblico e il mantenimento di inutili carrozzoni con finalità al
tempo stesso clientelari ed elettorali, l’esplosione dei privilegi dalla
politica, le ruberie a vantaggio di imprese appaltate dallo stato per
spartire il bottino con i partiti al governo, la corruzione valutata 60
miliardi di euro l’anno.
Ma non va dimenticato il ruolo degli interessi che specie negli anni
ottanta sono stati elevatissimi. Nel 2010 la spesa per interessi è stata
pari a 70,1 miliardi di euro corrispondente all’8,8% dell’intera spesa
pubblica e al 15,7% delle entrate tributarie (Imposte dirette e
indirette esclusi oneri sociali). In effetti gli interessi, oltre ad
accrescere le uscite e quindi il debito, rappresentano una
redistribuzione alla rovescia: concentrano nelle tasche di pochi la
ricchezza di tutti.
Fonti: Maria Teresa Salvemini, Le politiche del debito pubblico, Laterza 1992; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Nunzia Penelope, Soldi rubati, Salani Editore 2011.
Fonti: Maria Teresa Salvemini, Le politiche del debito pubblico, Laterza 1992; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Nunzia Penelope, Soldi rubati, Salani Editore 2011.
3. A quanto ammonta il debito pubblico italiano?
Secondo i dati della Banca d’Italia, al giugno 2011 il debito
pubblico totale ammontava a 1901 miliardi di euro pari al 122% del Pil
realizzato nel 2010. Ma economisti come Loretta Napoleoni, affermano che
è impossibile avere il dato preciso perché in ogni ambito delle
amministrazioni pubbliche, dal Ministero del Tesoro, fino all’ultimo
comune d’Italia, possono essere stati accesi prestiti presso banche
private compiacenti che in cambio di laute commissioni hanno escogitato
degli stratagemmi per farli passare come anticipi su operazioni future.
Ma il problema è che si tratta di operazioni assimilabili a scommesse
che possono o non possono dar luogo ad incassi.
In conclusione si fanno comparire fra le entrate somme che negli anni
successivi possono trasformarsi in debiti, gravati di interessi, perché
l’evento auspicato non si è realizzato. Benché si tratti di operazioni
configurabili come veri e propri falsi in bilancio, purtroppo sono
utilizzate anche dai governi. Il caso più eclatante è stato scoperto a
carico della Grecia che aveva agito con la complicità della banca
d’affari Goldman Sachs. Per essere ammessa nell’euro, nell’anno 2001 e
seguenti, la Grecia aveva bisogno di dimostrare che il suo deficit
annuale era inferiore a quello reale e non potendo agire sul piano delle
uscite, aveva deciso di falsificare i dati sul piano delle entrate.
In altre parole si era fatto anticipare da Goldman Sachs dei soldi su
polizze assicurative relative ad eventi finanziari futuri
(l’innalzamento dei tassi di interesse piuttosto che la rivalutazione di
certe valute) di cui nessuno poteva prevedere l’andamento. Ma ciò non
interessava a nessuno: il problema era ingannare, poi si sarebbe visto. E
infatti nel 2010 il bubbone è scoppiato perché non poteva essere più
tenuto nascosto. Ed oggi la Grecia non sa di che morte morirà. Gustavo
Piga, professore dell’università di Tor Vergata, ha spiegato che tutti i
grandi paesi industrializzati del mondo, Italia compresa, ricorrono
all’uso di queste polizze assicurative, meglio conosciute come derivati,
che però sono costosissime e tal volta articolate in una maniera tale
che se l’evento assicurato non si realizza, può essere il cliente a
dover pagare l’assicuratore.
Ne sanno qualcosa i 519 comuni d’Italia che dalla sottoscrizione di simili polizze, con banche del calibro di Deutschebank o Ubs, stanno registrando perdite per quasi un miliardo di euro. Così l’utilizzo delle moderne tecniche di ingegneria finanziaria sta aggravando il debito pubblico e lo sta rendendo sempre più opaco, ossia fuori controllo. I vincenti, ancora una volta, sono le banche e le assicurazioni.
Ne sanno qualcosa i 519 comuni d’Italia che dalla sottoscrizione di simili polizze, con banche del calibro di Deutschebank o Ubs, stanno registrando perdite per quasi un miliardo di euro. Così l’utilizzo delle moderne tecniche di ingegneria finanziaria sta aggravando il debito pubblico e lo sta rendendo sempre più opaco, ossia fuori controllo. I vincenti, ancora una volta, sono le banche e le assicurazioni.
Fonti: Banca d'Italia, Supplemento
al
bollettino
statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Gustavo Piga, Derivatives
and
public
debt
management, Isma 2001; Loretta Napoleoni, Il
contagio, Rizzoli 2011.
4. Chi detiene il debito pubblico italiano?
Una prima classificazione può essere fatta in base alla
nazionalità dei detentori. Da questo punto di vista, al giugno 2011,
il debito pubblico era detenuto per il 56,4% da soggetti italiani e
il 43,4% da soggetti stranieri.
Una seconda classificazione può essere fatta in base alla tipologia
giuridica dei detentori. Da questo punto di vista, la quota detenuta
dalle famiglie, al giugno 2011, corrispondeva al 12,7%. Tutto il
resto era detenuto da investitori istituzionali: banche,
assicurazioni e fondi. Più precisamente: 3,6% Banca d'Italia; 26,2%
banche commerciali italiane, 13,8% assicurazioni e fondi italiani,
10,6% banche estere, 32,8% fondi esteri.
In conclusione, limitatamente alla parte di debito detenuto dagli investitori istituzionali, la suddivisione fra soggetti italiani ed esteri è praticamente al 50%, mentre la suddivisione fra banche e fondi è rispettivamente del 46,8 e 53,2%.
In conclusione, limitatamente alla parte di debito detenuto dagli investitori istituzionali, la suddivisione fra soggetti italiani ed esteri è praticamente al 50%, mentre la suddivisione fra banche e fondi è rispettivamente del 46,8 e 53,2%.
Fonti: Elaborazione dati Banca d'Italia, Supplemento
al
bollettino
statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Morgan Stanley, Who
owns
Italy's
government
debt?, luglio 2011.
La speculazione è una strategia attuata da parte di fondi,
assicurazioni e banche per guadagnare sul debito a più riprese.
Le tecniche finanziarie sono molte, ma una delle più ricorrenti è
la speculazione al ribasso che consiste nel vendere, al prezzo di
oggi, titoli che saranno consegnati fra una settimana o fra un mese.
Il tempo è un elemento determinante, ma non è la semplice
separazione fra data di vendita e data di consegna che consente agli
speculatori di guadagnare. Il vero segreto è che non possiedono i
titoli che offrono, in fondo il trucco sta tutto qui. La loro
speranza è che nel frattempo il prezzo scenda e quando arriverà il
tempo di consegnare i titoli, li compreranno sul momento a prezzi
ribassati. Nella differenza fra l'alto prezzo di vendita di oggi e il
basso prezzo di acquisto di domani, sta il loro guadagno. Sempre che
tutto vada bene.
Ma banche
e fondi non si affidano al caso. Quando prendono una decisione sanno
come fare per creare le condizioni favorevoli al loro obiettivo
perché hanno abbastanza denaro per indirizzare la storia. Se puntano
su un'operazione al ribasso, in un primo momento si muovono con
circospezione, cercano di piazzare le loro vendite senza dare
nell'occhio. Poi quando stabiliscono che il prezzo deve crollare
danno un'accelerazione all'offerta e il gioco è fatto. La massa di
offerta insospettisce chi frequenta le borse: se tutti vendono una
certa roba vuol dire che non vale niente, meglio starne alla larga.
Ma proprio perché nessuno compra, il prezzo scende davvero e il
timore si trasforma in realtà esattamente come volevano i
burattinai.
Ovviamente
questa è solo una semplificazione delle mille diavolerie che la
finanza moderna si è inventata per guadagnare sulla dabbenaggine
della moltitudine di piccoli risparmiatori che si aggirano per le
piazze finanziarie. Ma quasi sempre la loro strategia si basa sulla
psicologia di massa. Ottimismo e pessimismo, fiducia e paura sono i
grandi alleati dei burattinai della finanza e quando stabiliscono che
a loro serve un sentimento o l'altro si attivano con i loro potenti
mezzi per provocarlo. La speculazione al ribasso si nutre della
paura, e immediatamente l'intero sistema informativo cerca di
amplificarla con titoli tipo: “I mercati non credono nel sistema
Italia, prezzi in picchiata”.
Smettiamola di parlare di mercato: anche lì c'è una massa manovrata e una minoranza che manovra e né l'una né l'altra crede in qualcosa ad eccezione dei soldi. Ai fondi europei, americani, chissà forse anche cinesi, non importa niente di cosa succederà alla Grecia o all'Italia. Non si preoccupano neanche di cosa succederà all'economia mondo di cui fanno parte anche loro. La loro è una logica da pirateria: attaccano, rubano e scappano. Che poi la nave affondi o riprenda a navigare non è affar loro.
Smettiamola di parlare di mercato: anche lì c'è una massa manovrata e una minoranza che manovra e né l'una né l'altra crede in qualcosa ad eccezione dei soldi. Ai fondi europei, americani, chissà forse anche cinesi, non importa niente di cosa succederà alla Grecia o all'Italia. Non si preoccupano neanche di cosa succederà all'economia mondo di cui fanno parte anche loro. La loro è una logica da pirateria: attaccano, rubano e scappano. Che poi la nave affondi o riprenda a navigare non è affar loro.
Va
comunque sottolineato che nella prima fase, il guadagno degli
speculatori non si realizza alle spalle dello stato, ma degli altri
soggetti privati che svendono i loro titoli per effetto della paura.
Il danno per lo stato arriva in un secondo momento, allorché si
ripresenta sul mercato finanziario per ottenere nuovi prestiti. A
questo punto scatta la seconda strategia di arricchimento degli
speculatori, che invocano la sfiducia nei confronti dello stato per
pretendere interessi più alti sui nuovi prestiti richiesti.
Considerato che per l'Italia ogni punto di aumento percentuale degli
interessi corrisponde ad un maggiore esborso di 35 miliardi di euro,
si capisce la preoccupazione per gli attacchi speculativi.
Ma va precisato che la speculazione è possibile solo perché la legge la consente. Niente vieterebbe al governo e al parlamento di prendere dei provvedimenti che impediscono gli attacchi speculativi almeno sui titoli pubblici. Per farlo, basterebbe avere il coraggio di mettersi contro il potere finanziario che però i politici non hanno, perché per rimanere al potere non è del popolo che hanno bisogno, ma della complicità del potere economico. Del resto si sa che molti politici hanno i piedi contemporaneamente in due scarpe: quella della politica e quella degli affari. Due casi per tutti: Matteo Colaninno, al tempo stesso deputato PD e vice presidente del gruppo Piaggio, e Silvio Berlusconi, al tempo stesso deputato PDL, presidente del Consiglio e principale azionista di Fininvest. Dunque non deve stupire se la consegna dell'intero arco parlamentare è piegarsi al ricatto dei mercati e affrettarsi a fare delle manovre correttive che hanno lo scopo di convincere i mercati che lo stato italiano è un debitore affidabile. Un debitore, cioè, disposto a fare tirare la cinghia al suo popolo pur di pagare gli interessi ai creditori.
Ma va precisato che la speculazione è possibile solo perché la legge la consente. Niente vieterebbe al governo e al parlamento di prendere dei provvedimenti che impediscono gli attacchi speculativi almeno sui titoli pubblici. Per farlo, basterebbe avere il coraggio di mettersi contro il potere finanziario che però i politici non hanno, perché per rimanere al potere non è del popolo che hanno bisogno, ma della complicità del potere economico. Del resto si sa che molti politici hanno i piedi contemporaneamente in due scarpe: quella della politica e quella degli affari. Due casi per tutti: Matteo Colaninno, al tempo stesso deputato PD e vice presidente del gruppo Piaggio, e Silvio Berlusconi, al tempo stesso deputato PDL, presidente del Consiglio e principale azionista di Fininvest. Dunque non deve stupire se la consegna dell'intero arco parlamentare è piegarsi al ricatto dei mercati e affrettarsi a fare delle manovre correttive che hanno lo scopo di convincere i mercati che lo stato italiano è un debitore affidabile. Un debitore, cioè, disposto a fare tirare la cinghia al suo popolo pur di pagare gli interessi ai creditori.
La disponibilità dei nostri politici a calare le braghe è senza
limiti e non protestano neanche quando gli interessi si fanno così
esosi da correre il rischio che lo stato soccomba. Del resto alle
banche questa prospettiva non sembra interessare, anzi forse è
proprio ciò che vogliono, come è nella politica di molti strozzini
a cui non interessa tanto cosa possono guadagnare dagli interessi, ma
cosa possono ricavare dalle spoglie del debitore. Questa è la terza
strategia di arricchimento degli speculatori.
In molti paesi del Sud del mondo è abituale che gli strozzini cedano
prestiti ai piccoli contadini ad interessi da capogiro in modo da
dissanguarli e fare scattare la trappola alla prima rata non pagata.
A quel punto inviano avvocati, notai e sicari, ciascuno con la
propria arma di ricatto, per costringere i contadini a chiudere la
partita cedendo i propri averi. E se il debitore non ha niente da
dare possono prendersi lui stesso in ostaggio riducendolo in
schiavitù.
Nei confronti degli stati indebitati si assiste alla stessa scena.
Nelle loro capitali arrivano emissari di ogni genere, della Banca
Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale, delle società
di rating, tutti con la stessa missiva: “pagate ciò che il mercato
vi impone e se non potete pagare, svendete”.
Soprattutto “svendete” perché il vero disegno di mercanti,
banche, assicurazioni, imprese di servizi, tutti intrecciati fra
loro come serpenti in amore, è di mettere le mani sulle proprietà
degli stati. Vedere tanta ricchezza e non poterla toccare, alla
stregua di un frutto proibito, è una sofferenza indicibile, da
sempre si scervellano per impossessarsene. Così si scopre che si
scrive debito, ma si pronuncia privatizzazione, il sogno eterno dei
mercanti di accaparrare palazzi, spiagge, parchi, isole, ma anche
acqua, scuola, sanità, elettricità, gas, strade e tutto il resto
che gli stati possiedono e gestiscono. Beni comuni che la struttura
pubblica mette gratuitamente a disposizione di tutti per il bene di
tutti, ma che i mercanti vogliono per sé per ricavarci profitto.
Dobbiamo prendere coscienza che il debito pubblico è un nodo che
rischia di compromettere lo stato sociale dei prossimi trecento anni.
E sicuramente lo è se la parola d'ordine di destra e sinistra
continua ad essere “restituire il debito senza colpire i ricchi”.
Tant'è si perseguono due sole strade, entrambe esplosive: la
riduzione delle spese sociali e la svendita del patrimonio pubblico.
Si giustifica il taglio alle spese sociali con l'argomentazione che
il primo obiettivo di risanamento della finanza è evitare di
accumulare altro debito. Il che si ottiene col pareggio di bilancio,
ossia con una riduzione delle spese sufficiente ad avere di che
pagare gli interessi. Se fossimo governati da partiti che hanno a
cuore l'equità e il benessere dei cittadini, le manovre correttive
sarebbero realizzate aumentando le tasse sui ricchi e tagliando le
spese inutili e dannose come quelle militari e i privilegi della
politica. Ma oggi né destra, né sinistra hanno a cuore il bene
comune e sia l'una che l'altra cercano di raddrizzare i conti
pubblici accanendosi verso i redditi medio-bassi e tagliando le
spese per il personale, per l'istruzione, per l'assistenza, per i
comuni che si occupano delle politiche sociali a livello locale. Ed
ecco il taglio di 8 miliardi di euro alla scuola nel triennio
2009-2011; di 10 miliardi alla sanità dal 2011 al 2014, di 15
miliardi di euro a regioni e comuni nello stesso periodo.
Ma la preda che governo, confindustria e Unione Europea sono
assolutamente intenzionati a spolpare è la previdenza sociale.
Eppure tutti sanno che il nostro sistema previdenziale è
fondamentalmente in equilibrio. Gli ultimi dati disponibili, relativi
al 2009, dimostrano che il
saldo
tra
le
entrate
contributive
e
le
prestazioni
pensionistiche
previdenziali
al
netto
delle
ritenute
fiscali
è
in
attivo
per
27,6
miliardi
di
euro,
pari
all'1,8%
del
Pil.
Solo
un
artificio
contabile
consente
alla
Corte
dei
Conti
di
affermare
che
il
sistema
previdenziale
è
in
deficit,
addirittura
di
77
miliardi
nel
2010. Ma ciò
dipende dal fatto che il fondo previdenziale è usato anche per il
pagamento delle pensioni sociali e dei sussidi di disoccupazione che
dovrebbero essere a carico della fiscalità generale. In realtà
l'accanimento verso il sistema previdenziale non è dovuto alla sua
debolezza, ma alla sua solidità. Nel 2010 i versamenti per
contributi sociali sono ammontati a 214 miliardi di euro, quasi un
terzo delle entrate totali dello stato. Se solo una parte potesse
essere sottratta al pagamento delle pensioni, si potrebbero risolvere
molti problemi senza mettere le mani nelle tasche dei ricchi.
In ogni caso va tenuto presente che il pareggio di bilancio è solo
uno degli obiettivi. L'altro è l'abbattimento del debito accumulato,
la famosa restituzione del capitale in nome della quale si impongono
ulteriori sacrifici. Ma tutto ha un limite e anche i politici sanno
di non poter restituire 1900 miliardi di euro solo con i tagli alle
spese, perciò ricorrono alla vendita del patrimonio pubblico
esattamente come si fa in famiglia che dopo aver tagliato sul
riscaldamento, sul cinema, sul telefono, si vendono le proprietà di
famiglia. Tant'è la parola d'ordine è privatizzare e solo per
miracolo, grazie al referendum di maggio, abbiamo salvato l'acqua. Ma
il decreto di agosto 2011 prevede misure per la privatizzazione di
tutte le municipalizzate, mentre il provvedimento per l'introduzione
del federalismo, varato nel 2010, trasferisce i beni demaniali ai
comuni con licenza di venderli per il risanamento delle casse locali.
Di questo passo ci troveremo una comunità nazionale senza più un
edificio, un parco, una strada, un'azienda pubblica che garantisca
qualsivoglia servizio gratuito a favore di tutti. Così stiamo
recitando il requiem dell'economia del bene comune, ricordandoci che
una volta dilapidata ci vorranno secoli per ricostruirla.
Fonti: dpr 98/2011 convertito in legge 111/2011; dpr 138/2011 convertito in legge 148/2011; Felice Roberto Pizzuti, Pensioni, perchè è giusto indignarsi, il Manifesto 27.10.2011; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Decreto legislativo n.85 del 28 maggio 2010.
Fonti: dpr 98/2011 convertito in legge 111/2011; dpr 138/2011 convertito in legge 148/2011; Felice Roberto Pizzuti, Pensioni, perchè è giusto indignarsi, il Manifesto 27.10.2011; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Decreto legislativo n.85 del 28 maggio 2010.
7. Perché tutti invocano la crescita per la
soluzione del debito pubblico?
Il debito è come una tavola a cui si presentano
degli ospiti inattesi. Si può decidere di respingerli e il problema
è risolto, ma se si accolgono ci sono due soli modi per servire
anche loro: ridurre le razioni di tutti o aumentare le portate. Ed
ecco la crescita come soluzione del debito in alternativa ai tagli e
agli aumenti di tasse.
L'argomentazione è che se aumenta la ricchezza
prodotta, automaticamente dovrebbe aumentare anche il gettito fiscale
e quindi le risorse per il pagamento di interessi e capitale. Ma la
crescita pone tre ordini di problemi: una questione di soldi, una
questione di diritti, una questione di compatibilità ambientale.
La questione dei soldi si pone perché per investire le
imprese hanno bisogno di stimoli. Se si tratta di imprese orientate
al mercato interno, come quelle delle costruzioni e delle
infrastrutture, richiedono ordini. Si aspettano che lo stato le
ingaggi per la costruzione di strade, ponti, ferrovie, acquedotti. Se
si tratta di imprese orientate al mercato globale richiedono
sovvenzioni. Si aspettano che lo stato le aiuti con finanziamenti
alla ricerca, con facilitazioni fiscali e riduzione degli oneri
sociali, in modo da avere meno costi e quindi essere più
competitive. Ma dove trovare i soldi se il fondo del barile è già
stato raschiato? L'indicazione delle imprese è tagliare
ulteriormente le spese correnti per recuperare risorse per loro. Così
la crescita si trasforma in antagonista delle spese sociali.
Sapendo di non avere soldi da spendere, il governo
Berlusconi ha cercato disperatamente delle scorciatoie per favorire
le imprese a costo zero. Ma l'unica via che ha trovato è la
riduzione del costo del lavoro tramite la riduzione delle garanzie
contrattuali: preminenza dei contratti aziendali sui quelli
nazionali, maggiore libertà di licenziamento, minori tutele nelle
assunzioni. Così la crescita si trasforma in antagonista dei
diritti dei lavoratori.
Ma il problema principale è che oggi non ci sono più
margini per la crescita. E non tanto per ragioni economiche, quanto
ambientali. Le nostre economie sono già cresciute fin troppo, se
tutti i paesi del mondo pretendessero di raggiungere i nostri livelli
di ricchezza, il pianeta collasserebbe. L'assottigliarsi delle
risorse e la necessità di ridurre l'inquinamento ci impongono
sobrietà nei consumi e prudenza nella produzione. La nostra sfida
non è accrescere la produzione, ma ristrutturarla in modo da
garantire a tutti di vivere bene nel rispetto dei limiti del pianeta.
Per riuscirci dobbiamo aver chiaro che il benessere non si misura con
la quantità di lattine di coca-cola che buttiamo nel carrello della
spesa o col numero di apparecchi televisivi che abbiamo per casa.
Prima che dalle cianfrusaglie di mercato, la dignità personale
dipende dalla qualità dell'abitare, dalla possibilità di curarsi e
vivere in buona salute, dalla capacità di esercitare pienamente le
funzioni di cittadino sovrano, dalla possibilità di fare comunità,
dalla possibilità di potersi nutrire, vestire, muoversi, scaldare a
buon mercato. Per questo il vero sviluppo, quello umano e sociale,
non dipende dalla crescita del prodotto interno lordo, ma dal grado
di equità, di inclusione lavorativa, di solidarietà collettiva che
siamo capaci di mettere in atto. Dipende dal livello di diritti che
sappiamo garantire, dalla quantità e qualità dei servizi collettivi
che sappiamo fornire, dal tipo di città che sappiamo strutturare,
dalle forme e dai tempi di lavoro che sappiamo organizzare, dalle
forme di partecipazione che sappiamo promuovere.
Non di più, ma meglio e diverso devono essere le nuove
parole d'ordine. Non si tratta di creare nuove fabbriche, ma di
trasformare quelle esistenti per renderle più eco-compatibili e
metterle in condizione di produrre ciò che serve secondo nuovi
schemi di consumo orientati ai bisogni fondamentali per tutti.
Trasformarle non solo da un punto di vista tecnico, energetico e
produttivo, ma anche dell'assetto proprietario, delle forme di
assunzione, dei tempi di lavoro, dei livelli salariali, dei diritti
sindacali, tenendo a mente che il lavoro non è un costo da
comprimere, ma una ricchezza da valorizzare. Una funzione che tutti
abbiamo il diritto-dovere di svolgere in forma dignitosa e sicura
per poter prendere parte alla ricchezza prodotta. E non solo in
ambito mercantile, ma sempre di più in ambito collettivo perché
quando le risorse si fanno scarse non è espandendo il mercato, ma
l'economia della solidarietà collettiva, che si può permettere a
tutti di vivere con dignità.
Dunque non è alla crescita che dobbiamo puntare, ma a
un altro modello organizzativo che pur mantenendo consumi e
produzione al minimo, consente a tutti la piena inclusione
lavorativa, il pieno soddisfacimento dei bisogni fondamentali, la
piena realizzazione umana, sociale e politica. Ma per riuscirci è
quanto mai necessario trovare un via di uscita dal debito alternativa
a quella presente, per non trovarci del tutto spogliati.
8. Cosa significa “congelamento del debito?”
Congelare il debito non significa dichiarare
fallimento, o default, come dicono gli inglesi. Il fallimento è una
dichiarazione di resa assunta per impotenza economica. Il
congelamento è una dichiarazione di volontà assunta per decisione
politica. E' il sussulto di un popolo che si riappropria della
propria sovranità.
Congelare il debito significa sospendere il pagamento di
capitale e interessi, a banche, fondi e assicurazioni, per un periodo
di tempo di uno o due anni, in modo da recuperare quella libertà e
quella cognizione di causa necessarie a poter definire, in piena
autonomia, criteri e tempi di uscita dal debito.
Il primo obiettivo del congelamento è mettere
fuori gioco la speculazione in modo da non avere più la
pistola dei mercati puntata alla tempia.
Se gli speculatori sapessero che non si può ottenere
più niente, perché i rubinetti dello stato sono chiusi, la
smetterebbero con i loro giochetti per fare aumentare i tassi di
interesse.
Portarsi fuori ricatto è già un passo importante per recuperare
libertà decisionale, ma nel contempo bisogna fare luce sui fatti
perché indagando possono emergere elementi che ribaltano la
situazione. Oggi che conta solo l'interesse dei creditori, ci si
focalizza solo sui numeri che misurano la capacità di pagamento
dello stato. Ma se cambiamo prospettiva e mettiamo al centro della
nostra attenzione la tutela della collettività, capiamo che prima di
tutto dobbiamo studiare la formazione del debito per stabilire se
persiste o meno l'obbligo del pagamento.
Quando i popoli del Sud del mondo hanno analizzato come si era
formato il debito dei loro paesi, hanno scoperto che gran parte era
stato accumulato per arricchire indebitamente politici e centri di
potere economico. Pertanto lo hanno ripudiato perché non si può
chiedere ai popoli di impiccarsi per ripagare le malefatte dei
governanti con la complicità delle banche.
Dunque il
secondo obiettivo del congelamento del debito è prendersi il tempo
per condurre una seria indagine sulla formazione del debito in modo
da definire quale parte è doveroso pagare perché utilizzato per il
bene comune e quale parte, invece, è legittimo ripudiare perché
dovuto a frode, ruberie, corruzione, sprechi, opere inutili e
dannose, arricchimenti e regalie indebite a caste, banche, imprese.
Un'indagine che valuti anche il ruolo avuto dagli interessi e che
esamini la lista dei creditori per capire se ce ne sono che da
decenni si arricchiscono alle spalle del debito pubblico. In tal caso
bisognerà fare un conto di quanto hanno incassato per stabilire se
non sia arrivato il momento di dire basta. A meno che non si voglia
affermare che la rendita è un diritto perpetuo, bisognerà pur
stabilire quando cessa il diritto del creditore a pretendere un
compenso dal debitore. Ad esempio, quando l'esborso per interessi è
pari al doppio del capitale non potrebbe aver senso annullare ogni
rapporto di dare e di avere?
E ancora non basta. Una seria indagine deve occuparsi anche delle
entrate perché se è vero che il deficit è una sfasatura fra
entrate e uscite non è detto che la responsabilità sia solo
dell'eccesso di spesa. Può essere dovuto anche a una carenza di
entrate. In Italia, ad esempio, abbiamo un tasso di evasione
altissimo e sappiamo che dal 1982 ad oggi si sono abbassate le
aliquote oltre i 75000 euro dal 72 al 45%. Per lo stato ha
significato senz'altro un mancato incasso che gli ha procurato un
doppio danno: il peggioramento del debito e un maggiore esborso per
interessi. Per i ricchi, invece, si è trattato di un doppio
guadagno: mancato esborso fiscale e incasso di interessi perché la
beffa è che i soldi risparmiati sono finiti comunque allo stato, ma
sotto forma di prestito. E allora chi è il vero debitore: il popolo
depredato dai ricchi o i ricchi che hanno derubato il popolo?
Ogni volta che uno stato osa sfidare le regole imposte dai
creditori, si paventano scenari tenebrosi per il loro futuro. In
realtà i paesi che in passato hanno avuto il coraggio di dichiarare
una moratoria sul pagamento del debito, non sono naufragati, ma sono
rinati. Lo mostra l'esperienza della Russia nel 1998, dell'Argentina
nel 2001, dell'Ecuador nel 2007.
L'Ecuador, tra l'altro, è un esempio concreto di inchiesta sul
debito. Sette mesi dopo la propria elezione, il neo presidente Rafael
Correa ha istituito una commissione d'inchiesta formata da 18 esperti
che hanno cominciato a lavorare nel luglio 2007. Dopo 14 mesi di
lavoro hanno consegnato un rapporto che mostrava chiaramente
l'esistenza di numerosi prestiti accesi in violazione delle più
elementari norme di legalità. Sulla base di tali risultanze, nel
novembre 2008 il governo ha dichiarato la sospensione del pagamento
di titoli in scadenza nel 2012 e nel 2030. Finalmente il governo di
questo piccolo paese è uscito vittorioso da una prova di forza con
le banche nord-americane e per 900 milioni di dollari ha ricomprato
titoli del valore nominale complessivo di oltre 3 miliardi. Se si
considerano anche gli interessi annullati, il risparmio totale per
l'Ecuador è stato di 7 miliardi di dollari che il governo può
spendere per spese sociali, sanità, istruzione, trasporti.
Certo si dirà che la posizione dell'Italia non è quella
dell'Ecuador, e uno sgarbo ai creditori potrebbe costarle la fuga
massiccia di capitali, l'espulsione dall'euro, una catastrofe
economica a causa del fallimento delle banche. Tutte ipotesi che
andrebbero verificate non solo per capire quante probabilità hanno
di avverarsi, ma anche per stabilire se siano realmente minacce o se
invece non potrebbero rivelarsi delle opportunità.
Premesso che nessuna forza economica, sia essa bancaria, finanziaria,
o commerciale, ha interesse a mandare a fondo un paese come l'Italia,
perché loro sarebbero i primi a rimetterci, va precisato che se
anche perdessimo capitali forse non sarebbe un gran danno dal momento
che non sono impiegati per attività produttive, ma per iniziative
speculative. Quanto alla nostra presenza nell'euro, si impone una
valutazione fra costi e benefici. Sicuramente ci hanno guadagnato le
imprese fortemente inserite nel mercato europeo, ma ci hanno perso,
fino a morire, molte piccole a vocazione locale, che sono state
sgominate dalle potenti imprese tedesche o francesi. Da più parti si
richiede, se non di uscire dall'euro, di consentire la contemporanea
circolazione di monete regionali, per favorire le imprese locali. E
se proprio dovessimo tornare alla lira, forse non sarebbe del tutto
negativo. Quanto meno restituiremmo al nostro stato il potere di
controllo sulla moneta, sui tassi di interesse e sui tassi di cambio,
tutti strumenti di governo dell'economia oggi perduti a favore di
Bruxelles che li gestisce unicamente nell'interesse delle banche e
dei grandi gruppi speculativi.
Infine l'ultima minaccia: il fallimento delle banche. A questo mondo
tutto è possibile, ma stando ai fatti, i titoli pubblici che le
banche detengono solo raramente e in piccola parte si trasformano in
denaro sonante. Solitamente se ne stanno chiusi nelle casseforti e
quando arrivano a scadenza non provocano un incasso di denaro, ma una
partita di giro perché la somma disponibile è subito riutilizzata
per l'acquisto di titoli di nuova emissione. Tutto questo per dire
che stiamo parlando di ricchezza virtuale scritta nei libri
contabili, che i detentori usano più come strumento giuridico per
avere diritto a una rendita, che come ricchezza da spendere. Se i
titoli pubblici si deprezzassero o venissero cancellati, la banca
risentirebbe un danno più per i mancati interessi che per la
perdita patrimoniale. Perciò
un danno contenuto che certo può ripercuotersi negativamente sugli azionisti
e sui dipendenti, ma che
difficilmente porta al fallimento bancario. Evento che può
comunque essere prevenuto con opportuni interventi legislativi.
Fonte: Eric Toussaint,
La dette ou la vie, CADTM 2011.
10. E'
vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche non
avranno più indietro i loro depositi?
Da un
punto di vista strettamente finanziario la risposta è no. Ma la
capacità delle banche di rifondere i propri clienti è fortemente
influenzata dalla fiducia di cui godono. In condizioni di normalità
le banche soddisfano tranquillamente le richieste di rimborso, non
perché abbiano in cassa l'equivalente di tutti i depositi, ma perché
i clienti che chiedono di avere indietro i loro soldi sono
relativamente pochi.
Detta
molto schematicamente, il mestiere delle banche è guadagnare
sull'impiego di soldi ottenuti da terzi, creando una differenza fra i
tassi di interessi pagati e quelli incassati. Pertanto hanno la
convenienza a impiegare tutto ciò raccolgono, lasciando nel cassetto
il meno possibile. In condizioni normali questa situazione non
preoccupa perché è dimostrato che il numero di persone che si
presentano per ritirare i propri risparmi sono pochi e in ogni caso
lo fanno solo per ragioni economiche. Tutti gli altri, che non si
trovano in stato di bisogno, dormono sonni tranquilli perché
sentono i propri soldi al sicuro. Ma questo equilibrio può rompersi
se per una ragione qualsiasi la gente perde fiducia
sull'affidabilità delle banche. In quel caso tutti si precipitano a
ritirare i propri depositi ed è la volta buona che non li ottengono
perché di soldi in cassa non ce ne sono.
In caso di
congelamento del debito, può scatenarsi una sfiducia collettiva che
spinge a dare l'assalto alle banche, ma molto dipende da come lo
stato gestisce la situazione.
Va
comunque tenuto presente che il rischio fallimento delle banche è
reale e non tanto per le quote di debito pubblico che detengono, ma
per il rischio di perdere somme colossali che hanno investito in
spregiudicate operazioni di speculazione finanziaria. Non a
caso i governi occidentali hanno già sborsato 13000 miliardi di
dollari per salvare le banche e altri ne stanno cercando. Tutto
questo per dire che oggi non c'è più nessuna certezza e che i primi
ad avere l'interesse a rimettere le cose a pulito sono proprio i
piccoli risparmiatori. Una proposta in tal senso è quella di
nazionalizzare le banche per la parte che coinvolge i risparmiatori e
le imprese, lasciando che tutto il resto sia abbandonato al proprio
destino, esattamente come hanno fatto in Islanda.
11.E'
possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie che
hanno investito in Buoni del Tesoro?
Poichè
i Buoni del Tesoro sono nominativi, il congelamento del debito può
essere gestito in maniera altamente selettiva, in base ai detentori e
all'ammontare posseduto. Quindi può essere stabilito che vengano
esclusi dal congelamento i titoli intestati a persone fisiche al di
sotto di un certo valore per non compromettere la loro sicurezza di
vita.
Prima di tutto bisogna abbatterne la dimensione, individuando,
tramite apposita Commissione d'inchiesta, la parte da ripudiare
perché illegale, illegittima e odiosa. Ma se l'ammontare da ripagare
persiste eccessivo, si impone la necessità di ristrutturarlo tramite
un ridimensionamento d'imperio o negoziazioni con i creditori in modo
da ridurre il peso degli interessi e del capitale da restituire.
In ogni caso serve un piano di restituzione che definisca tempi e modalità di finanziamento. Il che significa agire sia sul piano delle entrate che delle uscite. Sul piano delle entrate, prima di tutto bisogna ripristinare una seria politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Ossia applicare aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito. Contemporaneamente bisogna reintrodurre una seria patrimoniale che colpisca la ricchezza accumulata oltre misura, sotto forma di beni mobili e immobili, depositi e titoli. Oggi perfino la Confindustria sostiene una simile proposta, evidentemente per paura che l'eccesso di disuguaglianza o di sacrifici sociali possa scatenare una pericolosa sollevazione popolare. Di sicuro il risultato sarebbe garantito: Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica, ha calcolato che un'imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del loro valore, potrebbe garantire un introito sufficiente a poter dimezzare il debito pubblico.
Il discorso sulle entrate potrebbe continuare con misure contro l'evasione fiscale e l'economia in nero che procura un mancato incasso di oltre 120 miliardi di euro l'anno. Nel contempo si dovrebbe lavorare anche sul piano delle uscite. Bisognerebbe eliminare ogni forma di spreco e di privilegio a vantaggio di politici, alti funzionari e dirigenti di imprese pubbliche. Bisognerebbe ridurre le spese militari ritirandoci da ogni missione neocoloniale e cancellando qualsiasi sistema d'arma a scopo offensivo. Si dovrebbero abbandonare tutte le opere faraoniche utilizzando gli stessi soldi per il risanamento dei territori, il potenziamento delle infrastrutture e delle economie locali, la riconversione della produzione in un'ottica di sostenibilità, il miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.
In ogni caso serve un piano di restituzione che definisca tempi e modalità di finanziamento. Il che significa agire sia sul piano delle entrate che delle uscite. Sul piano delle entrate, prima di tutto bisogna ripristinare una seria politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Ossia applicare aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito. Contemporaneamente bisogna reintrodurre una seria patrimoniale che colpisca la ricchezza accumulata oltre misura, sotto forma di beni mobili e immobili, depositi e titoli. Oggi perfino la Confindustria sostiene una simile proposta, evidentemente per paura che l'eccesso di disuguaglianza o di sacrifici sociali possa scatenare una pericolosa sollevazione popolare. Di sicuro il risultato sarebbe garantito: Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica, ha calcolato che un'imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del loro valore, potrebbe garantire un introito sufficiente a poter dimezzare il debito pubblico.
Il discorso sulle entrate potrebbe continuare con misure contro l'evasione fiscale e l'economia in nero che procura un mancato incasso di oltre 120 miliardi di euro l'anno. Nel contempo si dovrebbe lavorare anche sul piano delle uscite. Bisognerebbe eliminare ogni forma di spreco e di privilegio a vantaggio di politici, alti funzionari e dirigenti di imprese pubbliche. Bisognerebbe ridurre le spese militari ritirandoci da ogni missione neocoloniale e cancellando qualsiasi sistema d'arma a scopo offensivo. Si dovrebbero abbandonare tutte le opere faraoniche utilizzando gli stessi soldi per il risanamento dei territori, il potenziamento delle infrastrutture e delle economie locali, la riconversione della produzione in un'ottica di sostenibilità, il miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.
(Da: www.cnms.it)
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