Quando Napolitano era contro l’euro
E’ già circolato in rete, ma ci pare di attualità proporre ai
nostri lettori l’intervento dell’allora deputato del PCI Giorgio
Napolitano in occasione dell’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario
Europeo. Era il 13 dicembre 1978 e Napolitano, intervenendo a nome del
gruppo comunista, illustrava la contrarietà del PCI al sistema dal quale
sarebbe poi nata la moneta unica con argomentazioni largamente
coincidenti con quelle di quanti, oggi come allora, ritengono l’Euro una
costruzione intrinsecamente insostenibile.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, siamo tutti consapevoli,
credo, del significato e della difficoltà di questo dibattito. E’ in
gioco una decisione importante, rispetto alla quale i pareri
sono discordi, mentre vengono alla luce modi diversi di concepire lo
sviluppo della Comunità europea e di intendere la presenza e il ruolo
dell’Italia in seno alla Comunità.
Ma, se c’è un paese in cui la discussione attorno a questi problemi,
attorno ai problemi suscitati dalla proposta di accordo monetario
europeo, avrebbe potuto svolgersi in termini del tutto obiettivi, senza
essere alterata e deviata da contrapposizioni ideologiche e da manovre
politiche, questo paese, onorevoli colleghi, è il nostro.
In Italia, infatti, tra i partiti democratici, tra le forze
fondamentali della nostra società e nello spirito pubblico non circolano
pregiudizi antieuropeistici; non operano né tradizioni di isolamento,
più o meno splendido, dal resto dell’Europa, né presunzioni di grandezza
nazionale. Le tendenze nazionalistiche, sfruttate ed esasperate dal
fascismo, e quindi travolte nel suo disastro, non sono risorte, neppure
come vaghe correnti di opinione, anche grazie alla linea cui si sono
ispirate tutte le forze democratiche italiane.
Non è meno importante il fatto che, pur muovendo da posizioni
diverse, tutte le forze politiche e sociali che si riconoscono nei
valori della Costituzione, si siano via via riconosciute anche nei
valori dell’europeismo democratico, liberati dalle distorsioni e dagli
strumentalismi del periodo della guerra fredda; si siano riconosciute
nel difficile sforzo di costruzione di un’Europa comunitaria realmente
ancorata a principi di solidarietà, di progresso sociale, di
cooperazione internazionale e di pace.
Che in questo sforzo si considerino pienamente impegnati tutta la
sinistra e il movimento operaio – come dimostra la loro adesione senza
riserve alla scelta dell’elezione diretta del Parlamento europeo – è un
fatto che differenzia in non lieve misura la situazione italiana da
quella inglese o francese. E’ un punto di forza per il nostro paese sul
piano internazionale, un punto di forza che solo polemiche pretestuose
,ed irresponsabili possono oggi tendere ad oscurare.
Nello stesso tempo, non può non considerarsi una naturale
manifestazione di vitalità democratica e di ricchezza politica e
culturale la dialettica di posizioni che si esprime – nell’ambito di una
comune scelta europeistica – tra diverse valutazioni dell’esperienza
comunitaria e diverse concezioni dell’azione – da condurre in seno alla
Comunità. La discussione attorno al progetto di sistema monetario
europeo avrebbe dunque, onorevoli colleghi, potuto svolgersi in Italia
in termini del tutto obiettivi. E così è stato, nel complesso, sino ad
alcune settimane fa: nonostante le disparità di opinioni, si è discusso a
lungo, e a più riprese, nel Parlamento e sulla stampa, tra i
rappresentanti dei partiti di maggioranza ed il Governo, tra gli
specialisti di ogni tendenza, all’interno del mondo economico e
sindacale, entrando nel merito dei problemi, nel concreto delle proposte
avanzate e delle loro implicazioni, della trattativa in corso e della
linea da seguire in tale trattativa e dei risultati che via via si
ottenevano.
Oggi, nella fase finale, sono affiorate e prevalse forzature di varia
natura. Su di esse tornerò più avanti. Mi limito ora a rillevare che
queste forzature sono venute da una parte sola, cioè da coloro che hanno
premuto per l’ingresso immediato dell’Italia nel sistema monetario.
Il Presidente del Consiglio ha dato atto, nel suo discorso di ieri
mattina che né prima né dopo il vertitce di Bruxelles sono state fatte
verso il sistema monetario di cui stiamo discutendo eccezioni mosse da
riserve europeiste o da contrarietà alla creazione di un sistema
monetario come tale. Non si può, invece, negare ,che le pessioni in
senso opposto le la scelta conclusiva siano state viziate da schemi e da
calcoli che prescindevano da una valutazione obiettiva dei termini del
problema.
Ma mi si permetta, onorevoli colleghi, signor Presidente, di
ripartire dalla posizione assunta da noi comunisti di fronte al vertice
di Brema, di fronte alle indicazioni scaturite nel luglio scorso da
quella riunione dei capi di Governo della CEE. Guardammo allora con
interesse ai propositi di rilancio del processo di integrazione e di
maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di portata mondiale,
per accelerare lo sviluppo delle economie europe e combattere la
disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Non negamno l’esigenza
di realizzare, a questo fine, anche una maggiore stabilità nei cambi,
non esprimemmo alcuna pregiudiziale negativa nei confronti dell’idea di
un nuovo sistema monetario europeo.
Ponemmo invece il problema della relazione tra uno sforzo inteso a
conseguire una maggiore stabilità nei rapporti tra le monete e lo sforzo
inteso ad avvicinare le situazioni e le politiche economiche e
finanziarie dei paesi della Comunità in funzione di obiettivi chiari di
crescita, di riequilibrio, di progresso sociale. Ponemmo in questo senso
il problema delle condizioni in cui il nuovo sistema monetario europeo
avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia
avrebbe potuto aderire fiin dall’iniizio.
E’ un fatto, signor Presidente del Consiglio, che quindi ci
riconoscemmo nelle condizioni formulate dal Governo italiano e
illustrate alla Camera dal ministro del tesoro nella seduta del 10
ottobre, e valutammo via via l’andamento del negoziato in rapporto a
quelle condizioni. Su di esse sembrarono concordare tutti i partiti
della maggioranza; ma mentre alcuni hanno poi finito per discostarsene
nei loro giudizi, è ancora ad esse che noi ciriferiamo nel valutare le
conclusioni raggiunte a Bruxelles e la decisione a cui ieri è pervenuto
il Presidente del Consiglio.
Consideriamo non seria – mi si consenta di dirlo – la tendenza a
liquidare come problema tecnico irrilevante quello di una attenta
verifica dei contenuti della risoluzione di Bruxelles del 5 dicembre per
valutarne la rispondenza alle concrete esigenze poste da parte
italiana. Quello delle garanzie da conseguire affinché il nuovo sistema
monetario possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio
all’interno della Comunità europea (e non sortire un effetto contrario),
contribuire a una maggiore stabilità monetaria e ad un maggiore
sviluppo su scala mondiale, è un rilevante problema politico.
Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro
interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori
fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo,
in quanto – cito parole e concetti del ministro del tesoro e del
governatore della Banca d’Italia – “Un suo insuccesso comporterebbe
gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario
internazionale, sull’avvenire e sulle possibilità di avanzamento della
costruzione economica europea e sulle condizioni dei singoli paesi”.
E come condizione perché il nuovo sistema risultasse realistico e
duraturo si indicò uno sforzo volto a contemperare le esigenze di rigore
che un sistema di cambi deve necessariamente avere con la realtà della
Comunità, che presenta situazioni fortemente differenziate; e in modo
particolare si sollecitò una flessibilità del sistema tale da
accompagnare senza sussulti il cammino del rientro dell’Italia verso
condizioni economiche generali e, più in particolare, verso condizioni
di inflazione prossime a quelle dei paesi più forti.
Gli interessi della costruzione comunitaria e gli interessi dell’Italia
si sono cioè presentati come strettamente intrecciati tra loro.
Ma, ciononostante, le condizioni poste da parte itaiiana sono state
in notevole misura disattese, e i rischi paventati e indicati dai nostri
negoziatori e da tanti osservatori obiettivi, da tanti studiosi ed
esperti, rimangono sostanzialmente in piedi.
Ella, onorevole Andreotti, ha dato invece nel suo discorso di ieri un
apprezzamento largamente positivo dei risultati ottenuti, e non ha
parlato più dei rischi. Ma l’apprezzamento positivo, punto per punto,
strideva, me lo consenta, con il suo stesso giudizio complessivo,
secondo cui la riunione di Bruxelles ha solo in parte soddisfatto le
aspettative, dando l’impressione che si dimensionassero sia la
suggestiva cornice di Brema, sia taluni propositi di concreta
solidarietà che erano apparsi realistici nella fase preparatoria.
Inoltre, mentre su alcuni punti è apparsa corretta la valorizzazione,
che noi non contestiamo, dei risultati conseguiti (la possibilità per
la lira di oscillare nella misura del 6 per cento anziché del 2,25 per
cento; le disponibilità di quello che poi diventerà il Fondo monetario
europeo; alcuni aspetti del funzionamento dei meccanismi di credito),
nella sua esposizione, onorevole Andreotti, non sono stati però
presentati nella loro effettiva e cruda realtà i punti più negativi
delle conclusioni di Bruxelles.
Così, per quel che riguarda gli accordi di cambio in senso stretto,
si è teso quasi a far credere che si sia ottenuta una equilibrata
distribuzione degli oneri di aggiustamento o, come si dice, una
simmetria degli obblighi di intervento, tra paesi a moneta forte e paesi
a moneta debole, in caso di allontanamento dai tassi di cambio iniziali
e di avvicinamento al margine estremo di oscillazione consentito.
Ma l’ulteriore alterazione nell’ultimo vertice di Bruxelles nella
formula relativa a questo aspetto essenziale dell’accordo di cambio,
quella sostituzione – che può apparire innocuamente bizantina
dell’avverbio “eccezionalmente” con l’espressione “in presenza di
circostanze speciali”, è stata solo la conferma di una sostanziale
resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di
Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad
assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore
equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi
della Comunità.
E così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni
del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso
positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la
gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a
garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità,
delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a
garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non
espansiva della Germania federale e spingendosi un paese come l’Italia
alla deflazione.
E ben strano, mi si consenta, che di questo rischio, così presente
nelle dichiarazioni del rappresentante del Governo il 10 ottobre alla
Camera e il 26 ottobre al Senato, non si parli più nel momento in cui si
propone l’adesione immediata, alle attuali condizioni, dell’Italia al
sistema monetario europeo.
Non voglio ripetere le considerazioni già svolte puntualmente dal
collega Spaventa sui motivi che giustificano e impongono un particolare
sforzo del nostro paese per conseguire un più alto tasso di crescita, e
sul rischio che invece i vincoli del sistema monetario, quale è stato
congegnato, producano effetti opposti.
Ma desidero sottolineare che nulla ci è stato detto per confutare
analisi come quella citata dal collega Spaventa secondo cui, di fronte
ad una tendenza alla rapida svalutazione della lira rispetto al marco,
che discende dallo scarto attualmente così forte tra tasso di inflazione
italiano e tedesco, le regole dello SME ci possano portare ad intaccare
le nostre riserve e a perdere di competitività, ovvero a richiedere di
frequente una modifica del cambio, una svalutazione ufficiale e brusca
della lira fino a trovarci nella necessità di adottare drastiche
politiche restrittive. Il rischio è comunque quello di dissipare i
risultati conseguiti negli ultimi due anni in materia di attivo della
bilancia dei pagamenti e delle riserve, quei risultati di cui anche il
cancelliere Schmidt, con un giudizio politicamente significativo, ha nei
giorni scorsi messo in luce il valore. I1 rischio è quello di veder
ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di
conseguire un più alto tasso di crescita; di vedere allontanarsi, invece
di avvicinarsi, la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.
Questi rischi erano tanto presenti al Governo e ai suoi
rappresentanti nel negoziato per il sistema monetario che essi non solo
avevano richiesto garanzie – in materia di accordi di cambio – ben più
consistenti di quelle che si sono ottenute, ma avevano posto, come una
delle condizioni non scambiabili con altre, quella del trasferimento di
risorse e dalla revisione delle politiche comunitarie in funzione dello
sviluppo delle, economie meno prospere.
Si disse che andava così compensata la più rigida disciplina
economica, comunque implicita nel sistema monetario, e che occorreva
procedere simultaneamente nelle diverse direzioni.
Mi pare che si tentasse di evitare che quella che il Presidente dal
Consiglio ha ieri definito <la suggestiva cornice di Brema>,
restasse solo una cornice e per di più ridimensionata. Da questo punto
di vista, le cose sono andate purtroppo nel modo più deludente – non è
giusto nascondercelo – per i limiti posti sia all’ammontare dei nuovi
prestiti disponibili per l’Italia e l’Irlanda, sia alla misura (non più
dd 3 per cento) degli abbuoni di interesse, sia all’utilizzazione dei
prestiti stessi, con l’esclusione di qualsiasi progetto per lo sviluppo
industriale (per quel ci riguarda nel Mezzogiorno) e addirittura di
qualsiasi progetto che alteri i termini della <<competitività di
particolari industrie all’interno degli Stati membri >>.
Il problema non era per altro solo questo, ma quello del concreto
avvio alla revisione e allo sviluppo di determinate politiche
comunitarie; anche se ovviamente nessuno si illudeva che tale revisione
potesse essere conclusa entro il 4 o il 5 dicembre. Ma contano, a questo
proposito, i segni negativi che si sono avuti.
Il primo vi è stato con il rifiuto francese di aumento del fondo
regionale; rifiuto che significa molte cose: negazione dell’autorità del
Parlamento europeo; negazione, al limite, della necessità di una
politica di riequilibrio nell’ambito della comunità, di cui il
mezzogiorno d’Italia sia tra i principali beneficiari; tendenza,
comunque, della Francia a sottrarsi ad un maggior impegno in questo
senso.
L’altro segno negativo è costituito dal fatto che a Brema non si sia
niusciti ad avviare seriamente alcun processo di revisione della
politica agricola comunitaria; che non si sia preso in esame neppure il
memorandum a questo scopo predisposto e preannunoiato dal presidente
della Commissione Jenkins. Non si sono nemmeno avuti chiarimenti
esaurienti rispetto alle preoccupazioni esposte di recente nella
Commissione agricoltura del Senato da esponenti di diversi gruppi, del
partito repubblicano, della democrazia cristiana, e dallo stesso
ministro dell’agricoltura, per quel che riguarda le ripercussioni di
un’entrata immediata dell’Italia nello SME sul sistema dei prezzi
agricoli, mentre non si sono definiti finora i correttivi di cui a
questo proposito si è parlato, e le ipotesi pure ventilate di
svalutazione della <lira verde> sollevano intanto seri
interrogativi sugli effetti inflazionistici che ne potrebbero derivare.
Il tema della politica agricola comunitaria, onorevoli colleghi, è un
tema centrale; e quando si compie il bilancio di questa politica, come
di tutta l’esperienzacomunitaria, non si deve indulgere a
semplificazioni retoriche di stampo idilliaco.
Non si può parlare di politica agricola comunitaria solo per
ricordarne il fine dichiarato di migliorare le condizioni di vita delle
popolazioni rurali, e tacere sulle grandissime distorsioni che essa ha
prodotto a beneficio dei paesi più ricchi a svantaggio di paesi come
l’Italia, alla quale – se si calcola la differenza tra i prezzi dei
prodotti CEE importati dall’Italia e quelli vigenti sul mercato
internazionale – è stata addossata una tassa che da qualcuno viene
calcolata (si tratta di calcoli probabilmente discutibili, ma non
possediamo stime ufficiali) in 2 mila miliardi di lire.
Tornando, Signor Presidente, alle conclusioni raggiunte a Bruxelles,
non c‘è dubbio che esse autorizzassero largamente la decisione, presa il
5 dicembre dal Presidente del Consiglio, non di aderire entro otto
giorni, ma di riservarsi ancora sostanzialm,ente la scelta dell’adesione
immediata e a tutti gli effetti oppure no.
E le valutazioni espresse nel merito dei risultati ottenuti dal
ministro degli esteri e dal ministro del commercio con l’estero
pubblicamente, dal ministro del tesoro in Parlamento, ed in sede tecnica
dalla autorità monetaria (senza che questa per altro travalicasse i
limiti della propria competenza ed invadesse il campo della autorità
politica, senza che si prestasse a strumentalizzazioni né in un senso né
nell’altro), queste valutazioni sono a noi apparse tali da giustificare
pienamente una scelta che si limitasse ad una dichiarazione di
principio favorevole e alla partecipazione a talune dellle operazioni
previste dalla risoluzione di Bruxelles, e che escludesse l’accettazione
dal 1° gennaio dei vincoli di cambio, del meccanismo del tasso di
cambio, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran
Bretagna, con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.
Una scelta che infine esprimesse un impegno positivo e incisivo-
dell’Italia per l’ulteriore confronto su tutti gli aspetti del nuovo
sistema monetario e della politica complessiva di sviluppo della
Comunità.
Perché non si è seguita questa strada ?
Perché non si sono raccolte le preoccupazioni e gli avvisi di
prudenza che venivano da diversi settori della maggioranza e
dall’interno dello stesso Governo ?
Queste preoccupazioni nascevano anche dall’esigenza finora non
sodisfatta di collocare la creazione di un’area di stabilità monetaria
in Europa nel più vasto quadro – ne ha parlato il collega Spaventa – di
una ridefinizione dei rapporti con l’area del dollaro e di uno sforzo
per giungere ad un nuovo ordine monetario internazionale e per
contribuire ad una accelerazione, non ad un rallentamento, dello
sviluppo economico mondiale.
Perché non si sono ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci
e si è giunti ad una decisione precipitata ed arrischiata ? Onorevoli
collleghi, su questo punto noi non possiamo ritenere che si sia fatta
sufficiente chiarezza finora e ci si permetterà di contribuire alla
ricerca di risposte sodisfacenti.
Parto dalle sollecitazioni e motivazioni davvero più nobili, quelle
dei più ardenti fautori dell’unità europea, tra i quali il collega ed
amico Altiero Spinelli. Questi amici si sono preoccupati di non
contribuire, con una decisione di non ingresso immediato dell’Italia
nello SME, a un parziale insuccesso di quello che appare il primo
rilevante tentativo di rilancio del processo di integrazione europea
dopo anni ed anni di involuzione e di crisi. Ma quello che non ci ha
persuaso in tale motivazione è la tendenza ad attribuire ad un tentativo
del genere, così come è concepito e congegnato, la virtù di mettere in
moto una reale ripresa su basi nuove e solide dell’integrazione europea.
No, onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi ad una risoluzione, quella
di Bruxelles, che assume i limiti ristretti della creazione di un
meccanismo del tasso di cambio le cui caratteristiche rischiano per di
più di creare gravi problemi ai partecipanti.
Naturalmente non sottovalutiamo la importanza degli sforzi rivolti a
creare un’area di stabilità monetaria. Ma se è vero che le frequenti
fluttuazioni dei cambi costituiscono una causa di instabilità e un
fattore negativo per lo sviluppo del commercio intracomunitario (la
crisi di questo commercio non può per altro essere ricondotta soltanto
alle fluttuazioni nei cambi) è vero anche che esse sono il riflesso di
squilibri profondi all’interno dei singoli paesi, all’interno della
Comunità europea e nelle relazioni economiche internazionali.
La verità è che forse – come si è scritto fuori d’Italia – si è
finito per mettere il << carro >> di un accordo monetario
davanti ai <<buoi>> di un accordo per le economie. Ed è
invece proprio su questo terreno, oltre che su quello della revisione
del meccanismo dei cambi in quanto tale, che occorreva continuare a
premere, a discutere, a negoziare.
Ma – ci si chiede – come: stando dentro o stando fuori?
Francamente di fronte ad una domanda di questo genere noi sentiamo il
bisogno di osservare – e mi scuso per l’ovvietà – che il 5 dicembre non
si è creata a Bruxelles una nuova Comunità europea al posto della
vecchia.
Noi continuiamo, evidentemente, qualunque sia la decisione relativa
allo SME, a stare dentro tutte le istituzioni e le sedi di confronto
comunitarie; possiamo anche partecipare, pur non aderendo nell’immediato
al sistema monetario, a consultazioni specificamente previste dalla
risoluzione di Bruxelles in materia di politiche monetarie.
Il documento approvato il 5 dicembre – e questo è un suo aspetto
indubbiamente positivo – non scava alcun solco fra chi aderisce subito e
chi si riserva di aderire successivamente; né credo che il nostro
ingresso immediato avrebbe avuto un effetto traumatico, quasi che
dipendesse da ciB che lo SME nascesse, come ha detto ieri l’onorevole
Andreotti, a sei invece che ad otto e mezzo (tanto per restare nel gergo
monetario, non riesco a capire quale unità di conto abbia adoperato
l’onorevole Andreotti per attribuire un peso del due e mezzo
all’ingresso immediato dell’Italia nel sistema monetario).
E nostra convinzione che avremmo potuto esercitare una maggiore forza
contrattuale mantenendo la nostra riserva, la nostra posizione di non
ingresso immediato.
Onorevoli colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco
fa anche il collega Cicchitto)delle sollecitazioni e delle
assicurazioni pervenuteci negli ultimi giorni da governi amici; sembra
anche che esse abbiano avuto un notevole peso nella scelta finale del
Governo.
Per la verità voglio ricordare che anche qualche altra volta abbiamo
ricevuto telegrammi. Ricevemmo – non è vero, ministro Marcora? – un
telegramma pieno di assicurazioni dal cancelliere Schmidt anche nel
maggio scorso, per invitarci a sciogliere la riserva sul negoziato per i
prezzi agricoli e sul << pacchetto >> mediterraneo.
Quale seguito han. no avuto quelle assicurazioni telegrafiche ?
Anche in questa occasione più dei messaggi a fuochi spenti sarebbe
valso l’accoglimento concreto di determinate istanze e proposte.
Queste sollecitazioni, comunque, confermano l’esistenza di un reale e
forte interesse degli altri paesi membri della Comunità ad avere
l’Italia al più presto presente nel sistema monetario. Si sarebbe,
dunque, potuto far leva su questo interesse, non dando la adesione
immediata allo SME, per portare avanti un serio negoziato, utilizzando
le stesse scadenze previste dalla risoluzione di Bruxelles, in
particolare la scadenza della revisione di determinate misure dopo sei
mesi, nonché altre occasioni e scadenze, soprattutto quella della
annuale trattativa di marzo sui prezzi agricoli, che va trasformata in
un ben più ampio ed impegnativo negoziato sulla politica agricola nel
suo complesso, partendo da proposte già elaborate in Italia dai partiti,
dal Parlamento e dal Governo, per le modifiche da realizzare sia
nell’immediato, sia nel medio periodo.
Si tratta, in definitiva, di muoversi in modo conseguente per una
trasformazione della Comunità – a cui ci auguriamo possa contribuire
anche quell’importante, primo elemento di democratizzazione che è
costituito dall’elezione diretta del Parlamento europeo – che punti
all’affermarsi di un nuovo modo di guardare allo sviluppo dell’economia
europea, non concependo più – siamo d’accordo su questo punto
fondamentale con il collega Spinelli – questo sviluppo come
consolidamento delle economie più forti e come ulteriore elevamento del
livello di benessere nei paesi più ricchi, ma come impegno di espansione
verso le regioni più arretrate della stessa Comunità e verso i paesi di
quello che veniva definito terzo mondo.
Ma se ci si vuole, onorevoli calleghi, confrontare con questi che
sono i problemi di fondo, i problemi delle politiche economiche, del
ritmo e della qualità dello sviluppo, bisogna sbasrazzarsi di ogni
residuo di europeismo retorico e di maniera dando ben altra organicità,
forza e coerenza alla presenza dell’Italia nella Comunità.
Sappiamo che passa qui una linea discriminante fra diversi modi di
concepire e di praticare l’impegno europeista, ma sappiamo anche che su
questo punto esistono posizioni convergenti fra diversi partiti; in
primo luogo, come hanno dimostrato le vicende di queste settimime e
questo dibattito, tra il partito comunista ed il partito socialista, ma
non salo tra essi.
Nella nostra visione – desidero ribadirlo – tutela degli interessi
nazionali e impegno per il rilancio dell’integrazione europea fanno
tutt’uno.
Nessuno di noi ha commentato il vertice di Bruxelles ponendo i
problemi come li ha posti il primo ministro Callaghan ai Comuni, senza
essere per questo accusato di golpismo.
“La semplice verità” – ha dichiarato Callaghan – “è che noi a
Bruxelles abbiamo valutato i nostri interessi nazionali esattamente come
altri paesi hanno valutato i loro”.
Noi non poniamo i problemi in questi termini, proprio perché siamo
convinti che l’interesse ,del nostro paese, e specificamente l’interesse
del nostro Mezzogiorno, coincida con la causa di uno sviluppo della
Comunità su base di maggior coordinamento e integrazione delle politiche
economiche e in direzione delle regioni più arretrate. Ma quella che
non possiamo accettare è una posizione di rinunci a battersi per la
trasformazione della Comunità e ‘dei suoi indirizzi, di sfiducia
radicale nel ruolo ,del nostro paese e di utilizzazione strumentale dei
nostri impegni comunitari a fini interni, quali che siano.
Da parte di alcuni esponenti del partito repubblicano si è giunti a
sostenere che << l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni
se appartenere o meno ad un meccanismo valutario o ad un’area di
stabilità dei cambi, ma se recidere >> – dico recidere – << o
meno i suoi legami con i paesi dell’Europa occidentale, sul terreno
economico e sul terreno politico.
Ma questa è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non
poggia su atcun argomemto razionale e si colloca, invece, nel quadro di
una drammatizzazione gratuita ed esasperata della scelta che era
davanti al nostro paese.
Si è giunti anche a dire che, d’altra parte, noi saremmo
nell’imbarazzo, perché l’europeismo dei comunisti deve ancora tradursi
in atti pratici.
Ma atti pratici, coatributi pratici sul terreno europeistico ne
abbiamo dati assai più di altri, in dieci anni di lavoro altamente
qualificato nel Parlamento europeo, che qualunque osservatore obiettivo
ha riconosciuto ed apprezzato.
Al di là di ciò già un mese fa non è mancata in qualche discorso da
me personalmente ascoltato l’affermazione che il nostro paese non fosse
in grado di porre alcuna condizione e che la sola speranza di salvare
l’Italia da sviluppi catastrofici della crisi attuale fosse il vincolo
esterno di un rigoroso meccanlsmo di cambio.
Chi sostiente questo fa un grave torto a tutte le forze democratiche
italiane dimenticando prove come quella dell’autunno 1976, quando, di
fronte ad una drammatica caduta della lira i partiti dell’attuale
maggioranza, i partiti democratici, con la collaborazione delle forze
sociali, con la collaborazione del movimento sindacale, seppero assumere
impegni severi, che valsero ad evitare il peggio e permisero di
conseguire quei risultati, per quanto parziali, su cui oggi possiamo
fare affidamento per fronteggiare le difficoltà che ci stanno davanti.
Noi non attenuiamo minimamente – ella lo sa, onorevole Ugo La Malfa,
ma io tengo a ribadirlo – il nostro giudizio sulla persistente e per
certi aspetti crescente gravità degli squilibri di fondo che minano lo
sviluppo economico e sociale del nostro paese. Noi non ci nascondiamo
l’acutezza di problemi come quelli della produttività, del costo del
lavoro, della competitività.
Concordo con le considerazioni che sono state svolte a questo
proposito da altri colleghi. Non può reggere a lungo – è questa la
nostra persuasione – una << via italiana >> alla
competitività, basata su una svalutazione strisciante, su un alto tasso
di inflazione, sull’economia sommersa e sul lavoro nero.
E – voglio aggiungere – non ci nascondiamo le difficoltà che incontra
lo sforzo per trovare consensi nelle parti sociali attorno a
comportamenti coerenti con le esigenze del rilancio degli investimenti,
di sviluppo del Mezzogiorno e dell’occupazione e, insieme, di lotta
all’inflazione.
Ma queste difficoltà non vengono solo dall’interno del movimento
sindacale e lì, comunque, siamo noi che con più chiarezza e coraggio
reagiamo a posizioni che consideriamo sbagliate. La si smetta, però,
onorevoli colleghi, di guardare da una parte sola, senza vedere le
responsabilità che altre forze si stanno assumendo (parlo di forze
imprenditoriali) con i loro atteggiamenti negativi nei confronti di ogni
prospettiva di programmazione e nei confronti proprio delle più
qualificate proposte del movimento sindacale.
Comunque, proprio per rispondere a queste difficoltà fu concepito il
<< docunento Pandolfi>> e si assunse l’impegno del piano
triennale il cui obbiettivo – non si dimentichi – deve essere la
riduzione graduale del tasso di inflazione ma, insieme, il rilancio
degli investimenti e della occupazione, in un contesto di rinnovata
solidarietà europea.
E’ sul piano triennale che si deve realizzare il necessario severo
confronto fra tutte le parti investite di responsabilità nella vita
politica, economica e sociale.
Ma in quale rapporto con questo impegno così importante andava posta
la questione dell’ingresso immediato o meno dell’Italia nel sistema
monetario europeo ?
Condividiamo l’opinione che è stata espressa, secondo cui il
confronto sul piano triennale previsto per le prossime settimane andava
assunto come la necessaria preparazione ad una entrata credibile
dell’Italia nel nuovo sistema, piuttosto che come insostenibile
conseguenza di una entrata prematura.
Se oggi, comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse
il calcolo di far leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla
disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra
ed il movimento operaio – eludendo la difficile strada della ricerca del
consenso – dinanzi ad una sostanziale distorsione della linea
ispiratrice del programma concordato tra le forze dell’attuale
maggioranza, dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di
rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo
irresponsabile e velleitario, non meno di quelli che hanno spinto
determinate componenti della democrazia cristiana a premere per
l’ingresso immediato dell’Italia nello SME in funzione di meschine
manovre anticomuniste, destinate a sgonfiarsi rapidamente ma non senza
aver prodotto il danno di una irresponsabile mescolanza tra fatti di
corrente e di partito e scelte altamente impegnative, sul piano
internazionale e sul piano interno, per il nostro paese.
Noi attendiamo, onorevoli colleghi, le risposte del Governo – dando
già ora ed essendo pronti a dare il nostro contributo costruttivo – sui
problemi aperti acutamente e posti con forza dal movimento sindacale per
Napoli, la Calabria ed il Mezzogiorno, problemi ormai non più
prorogabili, sui temi di una politica di seria lotta all’inflazione ed
alla disoccupazione sui contenuti e gli strumenti del piano triennale
per la finanza pubblica e per la economia che dovrà essere presentato
entro il 31 dicembre.
Anche in questo momento difficile, che vede una divisione non certo
irrilevante in seno alla maggioranza, il nostro obbiettivo, la nostra
scelta non è una crisi di Governo, ma il superamento delle debolezze e
delle ambiguità che hanno finora caratterizzato l’azione di Governo, il
rilancio della solidarietà tra i partiti della maggioranza per superare
l’emergenza, per risanare l’economia italiana rinnovandola nelle sue
strutture, per risanare la finanza pubblica attraverso una pratica di
effettivo rigore in tutte le direzioni e garantendo una effettiva
giustizia – dalla quale si continua a restare molto lontani – nella
ripartizione dei sacrifici.
Dicevo all’inizio, onorevole Andreotti, che condividiamo oggi un
dibattito difficile; ma nella vita di un’ampia maggioranza come quella
che oggi sorregge il Governo vi sono momenti in cui si impongono la
chiarezza delle rispettive posizioni e la distinzione delle
responsabilità.
Questa distinzione, onorevole Presidente del Consiglio, noi non
l’abbiamo ricercata. Ella ha ritenuto di dover compiere una scelta, che
consideriamo rischiosa e da cui dissentiamo, e di doversi assumere una
responsabilità che non ci sentiamo di condividere.
Ci auguriamo che le prossime scadenze vedano una seria ripresa
dell’impegno comune dei partiti dell’attuale maggioranza a fare uscire
il paese dalla crisi.
Ci guida comunque la serena coscienza di aver operato lealmente nell’interesse dell’Italia e dell’Europa.
(Fonte)
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