Commissioni, l'ex guardasigilli Nitto Palma alla Giustizia. Silvio blinda il "falco" di via Arenula nella giornata dell'incubo giudiziario
C’è
un motivo se pure il comunicato per commemorare il Divo Giulio diventa
occasione per mandare il messaggio che più gli sta a cuore: “Auspichiamo negli
anni della demonizzazione segua finalmente una pacificazione, di cui il governo
appena insediato possa rappresentare il giusto prologo”. E c’è un motivo se nel
giorno in cui torna, inquietante, l’incubo della ripresa dei processi, Silvio
Berlusconi mette il silenziatore ai dichiaratori (e a se stesso), dando a
vedere di essere seriamente impegnato nell’operazione statista.
A
mettere in fila gli elementi l’ex premier si è convinto che la costruzione
della tregua stia funzionando, o comunque è una via che non va ancora
abbandonata. Riavvolgendo la pellicola a qualche settimana fa, quando il
predestinato al Quirinale era Prodi, e a palazzo Chigi era diretto Bersani, al
grido di ineleggibilità e conflitto di interessi, era impensabile immaginare
che Angelino Alfano (l’uomo del Lodo), l’avvocato chiamato a operare da via
Arenula in base alle indicazioni di Ghedini sarebbe andato all’Interno. E che
il suo successore, Francesco Nitto Palma, il falco ugualmente fedele, avrebbe
ottenuto l’incarico di presidente della commissione Giustizia del Senato.
Per
le loro mani passeranno dossier cruciali, certo, ma è prima ancora il
significato simbolico dell’operazione che è pesante. Farlo saltare, è stato il
ragionamento con cui ha frenato i falchi, significa tornare indietro, col
rischio stavolta di una saldatura tra Pd e grillini: “Se facciamo cadere il
governo – dice un azzurro di rango – non si va al voto, ma ci sarà chi lavora
per una maggioranza sullo scalpo del premier”. È su questo sfondo che si
capisce la portata dell’incarico all’ex guardasigilli.
Proprio
alla nomina di Nitto Palma si è dedicato personalmente Berlusconi, nel giorno
delle trattative più lunghe e dei veti incrociati, sapendo che per il Pd era
difficilmente digeribile. E proprio sull’altare della commissione Giustizia,
Berlusconi ha sacrificato il fedelissimo Paolo Romani, uomo Mediaset e amico di
una vita, destinato alla commissione Trasporti (con delega alle Comunicazioni)
e su cui pesavano gli stessi veti del Pd. Pur di chiudere sull’ex guardasigilli,
che mantiene ancora oggi potenti ramificazioni a via Arenula e nella
magistratura di cui si occupò da ministro, il Cavaliere ha chiesto a Romani un
sacrificio. Per lui si parla della commissione Difesa, se spetterà al
Pdl.
L’obiettivo
Giustizia era troppo importante. Più di ogni altra considerazione o
retropensiero, conta il simbolo. E cioè che la tregua è possibile, se per un
motivo o per un altro il Pd è costretto ad accettare un ex guardasigilli del
Cavaliere. Ed è costretto a tacere sulla vicenda giudiziaria di Berlusconi, con
cui è alleato al governo. E si capisce, in questa logica, quale sia il punto di
caduta del ragionamento. Basta leggere la dichiarazione di Augusto Minzolini,
l’unico a violare la consegna del silenzio: “La Cassazione – afferma l’ex
direttore del Tg1
- dice no alla richiesta di spostare i processi al Cav a Brescia. Dire che il
tribunale di Milano non sia sereno sul Cav è eufemismo: è un no a
pacificazione”.
Ecco
la pacificazione. È attraverso la politica che passa la difesa giudiziaria. Se
cioè regge il clima di unità nazionale, se Berlusconi agisce da leader politico
e non da imputato, se sostiene lealmente un governo di salvezza o servizio che
dir si voglia, quando pioveranno sentenze, a quel punto – è il ragionamento –
sono le procure a minare la tregua, non altri. Se poi dovesse concretizzarsi il
disegno di approdare alla presidenza della Convenzione, l’operazione sarebbe
perfetta. È una linea pensata, ragionata: “Fottersene delle sentenze e pensare
in grande” è il consiglio che l’ascoltato Giuliano Ferrara ha ripetuto fino
alla noia. Anche delle sentenze più infamanti. Per questo, dicono nell’inner
circle del Capo, Berlusconi non ha affatto intenzione di dismettere i toni
pacati. Certo, un conto è non attaccare un conto è rinunciare a difendersi. In
questa fase l’obiettivo è mostrare come le accuse siano lunari, commentandole
più con distacco che con la bava alla bocca. Emblematica l’intervista, la prima
di una serie, concessa al Tg5 che andrà infatti in onda domai in uno speciale di
seconda serata, per entrare nel merito del processo Mediaset: “Confido – dice -
in una sentenza di piena assoluzione a meno che si voglia ancora una volta
eliminarmi attraverso la via giudiziaria”. O a meno che non si voglia minare la
pacificazione. Chissà.
(Fonte)
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