Paolo Gila
Giornalista economico finanziario,
Giornalista economico finanziario,
intervista di Valerio Valentini
Benvenuti nell’era del Capitalesimo, l’epoca del capitalismo che si
sposa con il feudalesimo. Perché? Perché è in atto un intreccio tra
tendenze evolutive, innestate sullo sviluppo del capitalismo tecnologico
e finanziario, con altre tendenze che invece mostrano un arretramento
dei diritti sociali, una perdita del potere d’acquisto da parte di una
massa crescente di popolazione, da uno scivolamento del ceto medio verso
il ceto basso. Insomma, la civiltà del low cost che si sta affermando e
che si sposa con il capitalismo più avanzato dei mercati finanziari, dà
vita a questo intreccio, a questa nuova epoca a cui si è dato il nome
appunto di Capitalesimo.
La tecnologia avanza in una società che arretra, la finanza cresce in
un’ottica di deregolamentazione e in una cornice dove la sovranità
nazionale degli Stati perde peso a tutto vantaggio di una sovranità
dettata da organismi internazionali che se la ridono dei diritti
costituzionali dei singoli Stati e che affermano degli ordini e delle
regole nuove di fronte alle quali anche le nazioni, il genus loci, il territorio deve essere subordinato.
Avevamo già avuto, nel corso della seconda metà del Novecento, alcune testimonianze, come il libro di Leopold Kohr, del 1953, intitolato “Il Crollo delle Nazioni”.
Un titolo quasi profetico, nel quale si auspicava la cancellazione
degli Stati nazionali in Europa proprio per dare vita ad organismi
comunitari, sovranazionali in grado di imporre le proprie leggi, le
proprie regole, a discapito della vivacità delle economie locali. Tutto
per affermare un nuovo ordine che, in un certo qual modo, abbandonasse
il passato. Un passato e una storia di conflitti nazionali all’interno
del bacino, della scodella europea. C’è stato anche un altro libro,
molto importante, di Michael Albert: il presidente delle Assicurazioni
Generali in Francia nel 1987 ha pubblicato un libro dal titolo “Crollo
disastro miracolo”. Un testo nel quale si auspicavano delle crisi a
livello locale per fomentare, diciamo così, la nascita di un nuovo
ordine tutto impostato sulla possibilità che organi comunitari,
internazionali rispetto agli Stati nazionali europei imponessero la
propria legge.
Potremmo pensare che questo sia un fenomeno tipicamente europeo, e
che quindi il Capitalesimo sia un fenomeno strettamente legato al
vecchio continente. Ma nel corso degli anni, in varie parti del mondo,
sono in atto progetti per costituire delle monete uniche all’interno di
aree valutarie ottimali. Pensiamo che dal Nafta, in Nord-America,
potrebbe generarsi l’Amerigo; nel Sud-America c’è il trattato del
Mercosur che spinge verso la creazione di un’area di scambio unica e
integrata; i Paesi del Centro-America sono orientati a creare un’area
legata al Celac; e infine nei Paesi del Golfo Arabo c’è un progetto per
costituire il Gulfo, una moneta in grado di raccordare e unire le
tendenze di almeno sei Paesi.
Che cosa comporta la nascita di una moneta unica all’interno di aree geografiche estese? Be’, comporta proprio la perdita di sovranità nazionale
da parte dei singoli Stati a tutto vantaggio di enti e organismi che
sono sovranazionali, i cui rappresentanti non vengono eletti dalla
popolazione – pensiamo ad esempio in Europa al Consiglio Europeo,
pensiamo alla Commissione [Europea], che rispetto al Parlamento Europeo
di Strasburgo o di Bruxelles hanno tutto il vantaggio di una priorità
legislativa in barba, diciamo così, alla volontà della popolazione. E
quindi abbiamo la nascita di nuove signorie fondiarie, dove investitori
dalla potenza finanziaria smodata e ingente hanno davvero la possibilità
di entrare e uscire dai mercati senza rispettare le regole degli Stati
nazionali, senza avere, diciamo così, delle occasioni di
regolamentazione, dal momento che il mercato – si dice e si propugna – è
libero e gli operatori hanno e devono avere la possibilità di crescere
senza barriere.
Ma cosa c’entra tutto questo con il Feudalesimo? Be’, c’entra e
molto. Perché la ricchezze che vengono create a livello finanziario
vengono molto spesso riparate in società off-shore, nei paradisi
fiscali, con un metodo molto praticato che è il Trust. Il Trust è un
istituto giuridico che consente di trasferire la proprietà, la ricchezza
ad un, diciamo così, prestanome, ad un trustee, che per nome e
per conto del titolare la ricchezza la gestisce con un patto fiduciario,
secondo quello che è un criterio di riservatezza, secondo quello che
oggi è stato più comunemente definito da molti critici, da molti
osservatori, come una tecnica oscura. Be’, diciamo che il Trust è uno
strumento legale che consente di parcheggiare ricchezze in diversi
Stati; le tecnologie consentono di trasferire queste ricchezze da un
capo all’altro del mondo senza sgambetti, senza possibilità di essere
visionati e supervisionati da enti di controllo. Insomma, la rete
tecnologica del capitalismo più avanzato presta il fianco alla
valorizzazione del Trust, uno strumento giuridico che, ricordiamolo, è
nato agli inizi dell’anno 1000. In piena epoca feudale, i cavalieri, i
nobili che partivano per le Crociate, conferivano, attraverso un patto
fiduciario ad un trustee le proprie proprietà, le proprie
ricchezze, perché a loro volta questi fiduciari potessero gestirle per
conto degli eredi, nel caso in cui questi nobili non ritornassero dalle
Crociate in Terra Santa.
Bene, nel corso degli anni, di 900 anni e forse anche più (dal 1066,
quando pare che il primo Trust sia nato, proprio in un’isola della
Manica dove vigeva la consuetudine di scrivere i trattati e gli atti)
bene, il trust ha resistito per tutti questi anni, è avanzato, e oggi è,
diciamo così, il vero strumento con cui non tanto e non solo i nobili e
gli aristocratici dal sangue blu, ma anche i nuovi ricchi e le nuove
oligarchie trovano il modo di parcheggiare le loro ricchezze e di
portarle nei paradisi fiscali. Uno strumento giuridico che appunto nasce
nel Medioevo, si tramanda nel corso dei secoli e oggi viene impiegato
da moltissime persone, non tanto e non solo i ricchi, i nobili di
allora, ma anche i parvenu, coloro che attraverso le reti
telematiche, attraverso le risorse, attraverso le attività di
intermediazione e di attività sui mercati finanziari hanno trovato il
modo di arricchirsi e di pensare a come gestire in piena riservatezza le
ricchezze che hanno creato.
Per questo credo che la tesi del Capitalesimo, pur essendo una tesi
forte, è una tesi che è condivisa dagli atti, dai fatti, ed è supportata
da una serie storica numerosa di prove e di fatti che non sono più dei
sospetti, non sono più degli indirizzi, ma sono delle prove certe. Il
capitalismo si è fuso con un istituto giuridico medievale per dare vita e
forza ad una salvaguardia delle ricchezze a discapito dei principi
democratici inneggiati dalla Rivoluzione Francese, i principi di
libertà, uguaglianza, fraternità, ma potremmo dire anche al diritto
della sovranità di ogni nazione di potersi dare una politica di
indirizzo, anche a livello monetario: di poter cioè gestire la propria
libertà di regime fiscale, di regime monetario, come fanno alcuni paesi,
ad esempio la Gran Bretagna, che ha deciso di restare fuori dall’Euro,
di poter battere moneta, di decidere in autonomia quale regime fiscale
applicare all’interno del proprio Paese senza dover rendere conto a
organismi internazionali, sovranazionali, come purtroppo – qualcuno dice
per fortuna – stanno facendo i Paesi dell’Unione Europea.
(Fonte)
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