mercoledì 22 maggio 2013

Chiedilo a Eni

All'assemblea della multinazionale del 10 maggio scorso, l'azionariato critico ha chiesto conto al management di inchieste, corruzione, omissioni e sfruttamento dei territori che accolgono gli impianti estrattivi. Dalla Nigeria al Kazakistan, passando per la Procura di Milano. Poche le risposte, nell'assordante silenzio del ministero dell'Economia.



Integrità e sostenibilità sono state le due parole d'ordine poste al centro dell'assemblea degli azionisti dello scorso 10 maggio di Eni. Integrità per contrastare le accuse di corruzione piovute a cascata sull'azienda e sul suo amministratore delegato, Paolo Scaroni, indagato nel maxi scandalo di corruzione internazionale che vede protagonista una controllata dell'Eni, la Saipem, in Algeria. Ma non solo: Kazakistan e Iraq allungano la lista dei casi finiti sotto la lente della magistratura, italiana e internazionale. Ai quali potrebbe aggiungersi un nuovo caso segnalato dal direttore dell'organizzazione inglese Global Witness proprio nel corso dell'assemblea della settimana scorsa. 
Sostenibilità per dimostrare che per l'azienda “non si tratta di impegni volontari”, ma che usando le parole dell'Ad Paolo Scaroni, “la sostenibilità è il principale strumento della presenza dell'Eni nel mondo”.  E a confermarlo sarebbero i mercati finanziari, vista la presenza dell'azienda negli indici di sostenibilità del Dow Jones e del Footsie4good.
In realtà, l'azienda ha giocato in difesa su entrambi i fronti, con risposte evasive sia alle domande presentate in forma scritta prima dell'assemblea dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica -con la collaborazione di Re:Common e Amnesty International- che alle domande presentate in sala nel corso della discussione sull'approvazione del bilancio. 
Sotto attacco le misure anti-corruzione che l'azienda avrebbe dovuto mettere in piedi dopo lo scandalo di corruzione per l'appalto del terminal di esportazione del gas a Bonny Island in Nigeria, in cui Eni e altre multinazionali avrebbero pagato mazzette per 182 milioni di dollari al governo nigeriano, aggiudicandosi il contratto di costruzione dell'impianto. Nel luglio del 2010 Eni ha patteggiato con le autorità statunitensi (Dipartimento di Giustizia e Security and Exchange commission) il pagamento di 365 milioni di dollari, firmando un accordo (“Deferred Prosecution Agreement”) che di fatto condizionava la chiusura del caso all'implementazione di un sistema anti-corruzione interno “adeguato” entro due anni. Proprio l'adeguatezza di quel sistema interno, definito “chiaro ed efficace” dal presidente del consiglio di amministrazione Giuseppe Recchi, viene messa in dubbio dalle diverse indagini internazionali in corso relative a fatti avvenuti nel corso dei due anni di pendenza.
La dirigenza Eni ha di fatto risposto prendendo le distanze dalla controllata Saipem, che nonostante rientri nel bilancio consolidato del gruppo, “è quotata in borsa” e quindi “hai i propri organi autonomi e funzioni di controllo” ed “è stata sempre trattata come una società indipendente”. In Kazakistan, la Procura di Milano avrebbe dato ordine nell'aprile 2012 di “applicare a Eni la misura dell'interdizione per un anno e sei mesi dall'esercizio delle attività previste nell'accordo sottoscritto con la Repubblica del Kazakistan e nei successivi atti amministrativi e/o negoziali, o di voler disporre […] la prosecuzione delle medesime attività per il periodo indicato sotto la sorveglianza di un commissario”. Misure su cui il giudice per le indagini preliminari ha già rimandato due volte una decisione definitiva, ma che danno il senso della situazione. Un contesto in cui l'azienda è sospettata di avere gonfiato le fatture di fornitura con l'obiettivo di creare illecitamente fondi neri in un progetto, quello di Kashagan, i cui costi complessivi sarebbero stimati in 187 miliardi di dollari. 
Scaroni ha preso poi le distanze dalla spinosa questione di Malabu, sollevata dal direttore di Global Witness Simon Taylor presente all'assemblea. Al centro, la titolarità del blocco OPL 245, situato al largo della costa nigeriana, su cui Shell e Eni avrebbero messo gli occhi diversi anni fa, e che secondo Eni -dopo oltre 10 anni di disputa giudiziaria tra Shell, la società Malabu (intestata a Dan Etete, ex ministro del petrolio all'epoca della dittatura di Sani Abacha) e il governo nigeriano- avrebbero avuto “l'opportunità” di acquistare grazie a una “mediazione” del governo nigeriano. Scaroni non ha risposto in merito ai diversi incontri che sarebbero avvenuti tra alcuni top manager dell'azienda e Dan Etete prima della firma del contratto, come anche sull'altissima commissione richiesta da uno dei due intermediari, Emekar Obi, addirittura del 19% (percentuali oltre il 5% sono considerate sospette dal governo degli Stati Uniti, nda) che secondo lo stesso avrebbe dovuto condividere con alcuni alti dirigenti dell'azienda italiana. È possibile che nemmeno una commissione così alta abbia fatto accendere la luce rossa all'interno dell'azienda, visto il codice interno anti-corruzione?
Sul lato della sostenibilità, Amnesty ha insistito su scadenze certe sia per terminare con la pratica del gas flaring che per le necessarie bonifiche nel Delta del Niger, senza riuscire ad ottenere risposte adeguate. Secondo l'azienda, in Nigeria si brucerebbe in torcia “solo” il 15% del gas associato (senza fornire alcun dato complessivo o per progetto), mentre le perdite e l'inquinamento ambientale sarebbero causati principalmente da sabotaggi e furti di petrolio. Affermazioni che non è possibile verificare, vista l'assoluta mancanza di trasparenza e di rispetto della normativa nigeriana anche riguardo gli interventi in caso di incidenti, che dovrebbero essere condotti con la partecipazione di membri delle comunità colpite e del governo, e non in maniera unilaterale dalle aziende petrolifere, proprio per garantirne l'oggettività. 
Il tutto nel silenzio del ministero del Tesoro, azionista di maggioranza e presente in sala tramite un suo funzionario, che ha evitato di commentare persino il punto sulle retribuzioni. Scaroni quest'anno ha ricevuto un bonus di oltre 1 miliardo, portando il suo compenso a 6,3 miliardi di euro l'anno. 

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