Enrico Letta ha concluso il suo tour europeo senza ottenere
grandi risultati. Angela Merkel ha anzi insistito sulla necessità di
proseguire il risanamento dei conti pubblici e attuare le “riforme
strutturali” necessarie per aumentare la competitività dei paesi
periferici.
Ma cos’è la competitività? E perché dovrebbe essere un
obiettivo di politica economica? Il futuro premio Nobel Paul Krugman, in
questo noto saggio di quasi 20 anni fa, proprio prendendo spunto
dall’ossessione per la competitività diffusa in Europa, spiega che un
paese non è assimilabile ad una singola azienda e che la crescita può
basarsi sulla domanda interna, senza ossessioni mercantilistiche.
Titolo originale:
Competitiveness: A dangerous obsession
Paul Krugman, Foreign Affairs; Mar/Apr 1994; 73,2; Platinum Full Text Periodicals
L’IPOTESI È SBAGLIATA
Nel giugno 1993 Jacques Delors fece una speciale presentazione ai
leader delle nazioni della Comunità europea, che si incontravano a
Copenaghen, sul problema della crescente disoccupazione europea. Gli
economisti che studiavano la situazione europea erano curiosi di sapere
quello che avrebbe detto Delors, presidente della Commissione Europea.
La maggior parte di loro condividono più o meno la stessa diagnosi del
problema europeo: le tasse e le regolamentazioni imposte dagli stati
Europei dal complicato welfare hanno reso i datori di lavoro riluttanti
nel creare nuovi posti di lavoro, mentre il relativamente generoso
livello di sussidi di disoccupazione ha reso i lavoratori non disposti
ad accettare quel tipo di impiego a basso salario che aiuta a tenere la
disoccupazione comparativamente più bassa negli Stati Uniti. Le
difficoltà valutarie associate alla salvaguardia del sistema valutario
europeo di fronte ai costi della riunificazione tedesca hanno rafforzato
questo problema strutturale.
È una diagnosi persuasiva, ma politicamente esplosiva, e tutti
volevano vedere come Delors l’avrebbe affrontata. Avrebbe sfidato i
leader europei dicendo che i loro sforzi di perseguire la giustizia
economica hanno prodotto disoccupazione come sottoprodotto non
intenzionale? Avrebbe ammesso che l’EMS [European Monetary System, Sistema monetario europeo, NdT] poteva
essere sostenuto solamente al prezzo di una recessione e avrebbe
affrontato le implicazioni di quell’ammissione per l’unione valutaria
europea?
Indovinate un po’? Delors non affrontò i problemi dello stato del
welfare o dell’EMS. Spiegò che la causa fondamentale della
disoccupazione europea era la mancanza di competitività con gli Stati
Uniti ed il Giappone e che la soluzione era un programma di investimenti
in infrastrutture e alta tecnologia.
Era un’evasione deludente, ma non sorprendente. Dopo tutto, la
retorica della competitività – quel modo di vedere secondo il quale,
nelle parole del Presidente Clinton, ogni nazione è “come una grande
società per azioni che compete nel mercato globale” – si è sparso fra
gli opinion leader di tutto il mondo. Persone che si credono sofisticati
conoscitori del tema danno per certo che il problema economico che sta
di fronte ad ogni nazione moderna è fondamentalmente quello di competere
nel mercato mondiale – che gli Stati Uniti e Giappone siano concorrenti
nello stesso senso nel quale la Coca-cola compete con la Pepsi – e non
sono consapevoli che si potrebbe sensatamente mettere seriamente in
dubbio questa affermazione. Ogni tanto un nuovo best seller avverte il
pubblico americano delle conseguenze atroci del perdere la “corsa” per
il 21° secolo; (1) un’intera
industria di consigli sulla competitività, “geo-economisti” e teorici
della gestione del commercio è sbucata fuori a Washington. Molte di
queste persone, avendo diagnosticato i problemi economici dell’America
negli stessi termini di quanto Delors faceva con l’Europa, sono ora è
nei cieli più alti dell’amministrazione Clinton e formulano la politica
economica e commerciale per gli Stati Uniti. Quindi Delors stava usando
un linguaggio non solo appropriato ma anche comodo per lui e per un
vasto pubblico di tutte e due le sponde dell’Atlantico.
Sfortunatamente la sua diagnosi sui mali dell’Europa era
profondamente fuorviante, e diagnosi simili negli Stati Uniti sono
altrettanto fuorvianti. L’idea che le fortune economiche di un paese
siano determinate principalmente dal suo successo nei mercati del mondo è
un’ipotesi, non una verità necessaria; e come faccenda pratica,
empirica, è un’ipotesi de plano sbagliata. Non è affatto vero, cioè, che
le nazioni principali del mondo siano l’una con l’altra in un grado
significativo di competizione economica, o che uno qualunque dei loro
importanti problemi economici possa essere attribuito a fallimenti nel
competere sul mercato mondiale. La crescente ossessione di una nazione
avanzata a proposito della competitività internazionale dovrebbe essere
vista non come una preoccupazione fondata, ma come una visuale che viene
mantenuta nonostante la palese evidenza del contrario. E per di più è
evidentemente una visione che viene difesa tenacemente, un desiderio di
credere, che si riflette nella incredibile tendenza, di quelli che
predicano la dottrina della competitività, a sostenere la loro tesi con
un’aritmetica creativa e fallace.
Questo articolo consiste in tre punti. Nel primo sostiene che le preoccupazioni sulla competitività sono, sul piano empirico, quasi completamente infondate. Nel secondo, tenta di spiegare perché definire il problema economico come quello della competizione internazionale è nondimeno così attraente per molte persone. Infine sostiene che l’ossessione della competitività non solo è sbagliata, ma è pericolosa, e che distorce le politiche nazionali e minaccia il sistema economico internazionale. Questo ultimo problema è evidentemente il più importante dal punto di vista delle politiche pubbliche. Pensare in termini di competitività, direttamente o indirettamente, porta a politiche economiche sbagliate su una vasta serie di problemi, nazionali ed internazionali, dalla sanità al commercio.
Questo articolo consiste in tre punti. Nel primo sostiene che le preoccupazioni sulla competitività sono, sul piano empirico, quasi completamente infondate. Nel secondo, tenta di spiegare perché definire il problema economico come quello della competizione internazionale è nondimeno così attraente per molte persone. Infine sostiene che l’ossessione della competitività non solo è sbagliata, ma è pericolosa, e che distorce le politiche nazionali e minaccia il sistema economico internazionale. Questo ultimo problema è evidentemente il più importante dal punto di vista delle politiche pubbliche. Pensare in termini di competitività, direttamente o indirettamente, porta a politiche economiche sbagliate su una vasta serie di problemi, nazionali ed internazionali, dalla sanità al commercio.
La maggior parte di coloro che usa il termine “competitività” fa così senza un arrière pensée.
Sembra loro ovvio che l’analogia tra un paese ed una società per azioni
sia ragionevole, e che chiedersi se gli Stati Uniti siano competitivi
nel mercato mondiale non sia diverso in linea di principio dal chiedersi
se General Motors sia competitiva nel mercato nordamericano di minivan .
Tentare tuttavia di definire la competitività di una nazione è nei
fatti molto più problematico che definire quella di una società per
azioni.
La linea rossa per una società per azioni consiste letteralmente nei
suoi confini: se una società per azioni non può permettersi di pagare i
suoi lavoratori, i fornitori, i possessori di obbligazioni, uscirà dal
business. Quindi quando noi diciamo che una società per azioni non è
competitiva, intendiamo dire che la sua posizione nel mercato è
insostenibile, ovvero che, se non migliora le sue prestazioni, cesserà
di esistere. I Paesi invece non escono dal business. Possono essere
contenti o scontenti delle loro prestazioni economiche, ma non hanno una
linea rossa ben definita. Di conseguenza, il concetto di competitività
nazionale è vago.
Si potrebbe supporre, ingenuamente, che la linea rossa di un’economia
nazionale consista semplicemente la sua bilancia commerciale, che la
competitività possa essere misurata dall’abilità di un paese di vendere
all’estero più di quanto comperi. In teoria come in pratica un’eccedenza
commerciale può tuttavia essere un segno di debolezza nazionale, mentre
un deficit può essere un segno di forza. Per esempio, il Messico fu
costretto ad enormi eccedenze commerciali negli anni ottanta per pagare
gli interessi sul suo debito estero, dato che gli investitori
internazionali si rifiutavano di prestargli altri soldi; ebbe grandi
deficit commerciali dopo il 1990 quando gli investitori stranieri
recuperarono la fiducia e nuovi capitali cominciarono ad affluire. C’è
forse qualcuno che voglia indicare il Messico come una nazione
estremamente competitiva durante l’epoca della crisi del debito, o
descrivere quello che accade dal 1990 in poi come una perdita in
competitività?
La maggior parte degli autori che si occupano del problema hanno
perciò tentato di definire la competitività come combinazione di
favorevoli prestazioni commerciali e di qualcos’altro. In particolare,
la definizione più popolare della competitività è oggi quella definita
dalle linee stabilite dal libro “Who’s Bashing Whom?” [Chi sta assalendo chi?"] di Laura D’Andrea Tyson, Presidente del Council of Economic Advisors:
la competitività è “la nostra abilità di produrre beni e servizi che
passano il test della competizione internazionale mentre i nostri
cittadini godono di uno standard di vita insieme crescente e
sostenibile.” Sembra ragionevole. Se tuttavia ci si sofferma a pensarci
sopra, e si mettono a confronto i pensieri con i fatti, si scopre che
questa definizione soddisfa assai poco l’orecchio.
Consideriamo, per un momento, quello che la definizione vorrebbe dire
per un’economia che fa poco commercio internazionale, come gli Stati
Uniti negli anni cinquanta. Per una siffatta economia, la capacità di
bilanciare il suo commercio sta soprattutto nel trovare il giusto tasso
di cambio. Ma siccome il commercio internazionale è un piccolo fattore
nell’economia, il livello di cambio influisce poco sugli standard di
vita. In un’economia con poco commercio internazionale, quindi,
l’aumento degli standard di vita – e così la “competitività” secondo la
definizione di Tyson – sarebbe determinata quasi completamente da
fattori nazionali, in primo luogo dal tasso di crescita della
produttività. La crescita di produttività nazionale, punto e a capo, e
non la crescita di produttività relativamente agli altri paesi. In altre
parole, per un’economia con poco commercio internazionale,
“competitività” finisce per essere un modo curioso di dire
“produttività”, senza avere niente a che fare con la competizione
internazionale.
Ma vanno diversamente le cose quando il commercio internazionale
diviene più importante, come accade per tutte le più importanti
economie? Certamente le cose potrebbero cambiare. Supponiamo che un
paese scopra che, anche se la sua produttività sta fortemente salendo,
riesce ad esportare solo se svaluta ripetutamente la sua moneta,
vendendo più a buon mercato le sue esportazioni nei mercati del mondo.
Il suo standard di vita, che dipende sia dal suo potere d’acquisto nelle
importazioni sia dai beni prodotti internamente, potrebbe
effettivamente declinare. Nel gergo degli economisti, la crescita
nazionale potrebbe essere recuperata a scapito del commercio
internazionale. (2) Così la “competitività” finirebbe per spuntarla alla fine sulla competizione internazionale.
Non c’è comunque nessuna ragione di lasciare tutto questo allo stato
di pura speculazione: lo si può facilmente controllare confrontandolo
coi dati. Il deterioramento degli scambi internazionali sono stati uno
spauracchio importante per lo standard di vita americano? Oppure il
tasso di crescita del reddito netto ["Real income"] americano
ha essenzialmente continuato ad uguagliare il tasso di crescita della
produttività nazionale, anche se gli scambi internazionale costituiscono
una porzione di reddito maggiore che in passato?
Per rispondere a questa domanda basta guardare ai dati della contabilità del reddito nazionale ["national income"] che il Dipartimento del Commercio pubblica regolarmente nella “Survey of Current Business”. La misura standard della crescita economica negli Stati Uniti è, ovviamente, il PIL reale [Real GNP], una misura che divide il valore di beni e servizi prodotti negli Stati Uniti per gli appropriati indici di prezzo per giungere ad una stima della produzione nazionale netta [real national output]. Il Dipartimento del Commercio pubblica comunque anche una cosa chiamata “command GNP.” Questo è simile al Real GNP, salvo che divide le esportazioni USA non per l’indice di prezzo delle esportazioni, ma per l’indice di prezzo delle importazioni degli Stati Uniti. Ovvero, le esportazioni sono valutate in base a quello che gli americani possono comprare con i soldi ricavati dalle esportazioni. Il “command GNP” misura dunque il volume di beni e servizi che l’economia americana può “ordinare” – il potere d’acquisto della nazione – invece che il volume del prodotto. (3) Come abbiamo appena visto, la “competitività” significa qualche cosa di diverso dalla “produttività” se e solamente se il potere d’acquisto cresce significativamente più lentamente del prodotto totale.
Bene, ecco i numeri. Nel periodo 1959-73, un periodo dalla crescita vigorosa degli standard di vita USA e dalle poche preoccupazioni sulla competizione internazionale, il “Real GNP” per ora-uomo crebbe annualmente dell’ 1,85 percento, mentre il “command GNP” orario crebbe un po’ più velocemente, dell’1,87 percento. Dal 1973 al 1990, un periodo di stagnazione degli standard di vita, la crescita del “command GNP” orario scese allo 0,65 percento. La quasi totalità (il 91 percento) di questo rallentamento fu spiegato con un ribasso nella crescita della produttività nazionale: il “Real GNP” orario crebbe solamente dello 0,73 percento.
Calcoli simili per la Comunità europea e il Giappone producono risultati simili. In ogni caso, la percentuale di crescita degli standard di vita essenzialmente uguaglia la percentuale di crescita della produttività nazionale, non la produttività relativamente ai concorrenti, ma semplicemente la produttività nazionale. Anche se il commercio mondiale è oggi più sviluppato di quanto non sia mai stato, gli standard di vita nazionali sono grandemente determinati da fattori nazionali piuttosto che dalla competizione nei mercati mondiali.
Per rispondere a questa domanda basta guardare ai dati della contabilità del reddito nazionale ["national income"] che il Dipartimento del Commercio pubblica regolarmente nella “Survey of Current Business”. La misura standard della crescita economica negli Stati Uniti è, ovviamente, il PIL reale [Real GNP], una misura che divide il valore di beni e servizi prodotti negli Stati Uniti per gli appropriati indici di prezzo per giungere ad una stima della produzione nazionale netta [real national output]. Il Dipartimento del Commercio pubblica comunque anche una cosa chiamata “command GNP.” Questo è simile al Real GNP, salvo che divide le esportazioni USA non per l’indice di prezzo delle esportazioni, ma per l’indice di prezzo delle importazioni degli Stati Uniti. Ovvero, le esportazioni sono valutate in base a quello che gli americani possono comprare con i soldi ricavati dalle esportazioni. Il “command GNP” misura dunque il volume di beni e servizi che l’economia americana può “ordinare” – il potere d’acquisto della nazione – invece che il volume del prodotto. (3) Come abbiamo appena visto, la “competitività” significa qualche cosa di diverso dalla “produttività” se e solamente se il potere d’acquisto cresce significativamente più lentamente del prodotto totale.
Bene, ecco i numeri. Nel periodo 1959-73, un periodo dalla crescita vigorosa degli standard di vita USA e dalle poche preoccupazioni sulla competizione internazionale, il “Real GNP” per ora-uomo crebbe annualmente dell’ 1,85 percento, mentre il “command GNP” orario crebbe un po’ più velocemente, dell’1,87 percento. Dal 1973 al 1990, un periodo di stagnazione degli standard di vita, la crescita del “command GNP” orario scese allo 0,65 percento. La quasi totalità (il 91 percento) di questo rallentamento fu spiegato con un ribasso nella crescita della produttività nazionale: il “Real GNP” orario crebbe solamente dello 0,73 percento.
Calcoli simili per la Comunità europea e il Giappone producono risultati simili. In ogni caso, la percentuale di crescita degli standard di vita essenzialmente uguaglia la percentuale di crescita della produttività nazionale, non la produttività relativamente ai concorrenti, ma semplicemente la produttività nazionale. Anche se il commercio mondiale è oggi più sviluppato di quanto non sia mai stato, gli standard di vita nazionali sono grandemente determinati da fattori nazionali piuttosto che dalla competizione nei mercati mondiali.
Come può succedere una cosa del genere nel nostro mondo
interdipendente? Parte della risposta è che il mondo non è così
interdipendente quanto probabilmente si pensi: i paesi non sono come le
società per azioni. Anche oggi, le esportazioni americane sono solamente
il 10 percento del valore aggiunto nell’economia (che è uguale al GNP
[PIL, NdT]). Gli Stati Uniti sono cioè circa al 90 percento un’economia
che produce beni e servizi per sé stessa. Per contrasto, anche la più
grande società per azioni vende ben poco della sua produzione ai propri
lavoratori; lo “export” della General Motors – le sue vendite a persone
che non ci lavorano – è di fatto la totalità delle sue vendite, che sono
più di 2,5 volte il valore aggiunto della società.
I paesi inoltre non competono l’uno con l’altro nello stesso modo
delle società per azioni. Coca cola e Pepsi sono concorrenti quasi pure:
solamente una frazione trascurabile delle vendite di Coca-Cola va ai
lavoratori di Pepsi, solamente una frazione trascurabile dei lavoratori
di Coca-cola compra prodotti della Pepsi. Quindi se Pepsi ha successo,
lo fa tendenzialmente a spese della Coca-cola. Ma i maggiori paesi
industriali, mentre vendono prodotti che competono l’un con l’altro,
sono anche l’uno dell’altro i maggiori fornitori di importazioni utili.
Se l’economia europea va bene, non ha bisogno di esserlo a spese di
quella USA; effettivamente, se c’è una cosa probabile è proprio che
un’economia europea che abbia successo aiuterebbe l’economia Americana
fornendo un mercato più ampio e vendendogli beni di qualità superiore a
prezzi più bassi.
Il commercio internazionale, inoltre, non è un gioco a somma zero.
Quando sale la produttività in Giappone, il risultato principale è un
aumento reale dei salari giapponesi; I salari americani o europei hanno
in linea di principio la stessa probabilità di salire o di scendere, ed
in pratica sembrano essere di fatto non influenzati.
Sarebbe possibile approfondire questo punto, ma la conclusione è
chiara: mentre in linea di principio potrebbero esistere problemi di
competizione, in pratica, sul piano empirico, le nazioni importanti del
mondo non sono l’una con l’altro ad un livello significativo di
competizione economica. C’è sempre, chiaramente, una rivalità di status e
di potere: i paesi che crescono più velocemente vedranno crescere il
loro ruolo politico. E’ quindi sempre interessante comparare i paesi.
Asserire che la crescita giapponese diminuisce lo status USA è molto
diverso dal dire che riduce lo standard di vita USA, come la retorica
della competitività invece asserisce.
Si può chiaramente assumere la posizione che le parole dicono quello
che noi vogliamo dicano, che c’è la libertà, se uno vuole, di usare il
termine “competitività” come un modo poetico di dire produttività, senza
davvero intendere che la competizione internazionale c’entri qualcosa.
Ben pochi autori sulla competitività accetterebbero però questo modo di
vedere. Questi credono che i fatti raccontino una storia molto diversa
da quella che stiamo vivendo, come Lester Thurow ha scritto nel suo
libro di successo, “Head to Head” [Testa a testa], in un mondo
di competizione fatta di “vittorie e sconfitte” tra le economie
principali. Come è possibile questa credenza?
Una delle straordinarie, sorprendenti caratteristiche della enorme
letteratura sulla competitività è la tendenza ripetuta di autori
estremamente intelligenti ad impegnarsi in quella che può essere forse
descritta con esattezza come “aritmetica spensierata.” Si fanno
affermazioni che suonano come asserzioni quantitative su grandezze
misurabili, ma gli autori non presentano in realtà dati su queste
grandezze, e così non ci si accorge che i numeri veri contraddicono le
loro affermazioni. Oppure si presentano dati che si suppone sostengano
un’asserzione, ma l’autore non si accorge che i suoi stessi numeri
implicano che quello che sta affermando non può essere vero. Si trovano
continuamente libri ed articoli sulla competitività che sembrano al
lettore non accorto pieni di convincenti evidenze, ma che appaiono a
chiunque abbia dimestichezza coi dati come stranamente, quasi
misteriosamente, incapaci di maneggiare i numeri. Alcuni esempi
illustrano meglio questo punto. Ecco tre casi di aritmetica spensierata,
ognuno a suo modo interessante.
Deficit commerciale e perdita di posti di lavoro qualificati.
In un recente articolo pubblicato in Giappone, Lester Thurow ha
spiegato al suo pubblico l’importanza di ridurre l’eccedenza commerciale
giapponese verso gli Stati Uniti. I salari reali USA, ha affermato,
sono precipitati del sei percento durante gli anni di Reagan e Bush, e
la ragione era che il deficit commerciale nei beni manifatturieri aveva
costretto i lavoratori a fuoriuscire dai ben pagati lavori nelle
manifatture per spostarsi negli assai meno pagati posti di lavoro nei
servizi.
Non è un punto di vista originale, ed è ampiamente condiviso. Ma
Thurow è stato più concreto degli altri, dando numeri reali sulla
perdita di posti di lavoro e di salario. Si sono persi un milione di
posti di lavoro nelle manifatture, ha sostenuto, e il lavoro nelle
manifatture è pagato il 30 percento in più del lavoro nei servizi.
Entrambi i numeri meritano qualche dubbio. Il milione di posti di
lavoro è troppo alto, ed il 30 percento di differenziale di salario tra
manifattura e servizi è soprattutto dovuto alla differente lunghezza
della settimana lavorativa, non a una differenza nel livello salariale
orario. Acconsentiamo però ai numeri di Thurow. Raccontano questi la
storia che ci suggerisce?
Il punto chiave è che i posti di lavoro totali USA sono più di 100
milioni. Supponiamo che un milione di lavoratori sia costretto a
spostarsi dalla manifattura ai servizi perdendo di conseguenza il 30
percento del salario manifatturiero. Dato che questi lavoratori sono
meno dell’1 percento della forza di lavoro USA, questo ridurrebbe il
livello salariale medio USA di meno di 1/100 del 30 percento – ovvero,
meno dello 0.3 percento.
Questo è un numero troppo piccolo per spiegare il 6 percento di diminuzione del salario reale, troppo piccolo di un fattore 20. Per guardare le cose in un altro modo, la perdita di salario annuale da deficit indotto da deindustrializzazione, che evidentemente Thurow ritiene essere la radice delle difficoltà economiche degli USA, sulla base dei suoi stessi numeri sarebbe all’incirca uguale a quello che gli Stati Uniti spendono in spese sanitarie in una settimana.
Questo è un numero troppo piccolo per spiegare il 6 percento di diminuzione del salario reale, troppo piccolo di un fattore 20. Per guardare le cose in un altro modo, la perdita di salario annuale da deficit indotto da deindustrializzazione, che evidentemente Thurow ritiene essere la radice delle difficoltà economiche degli USA, sulla base dei suoi stessi numeri sarebbe all’incirca uguale a quello che gli Stati Uniti spendono in spese sanitarie in una settimana.
C’è qui un vero rompicapo. Come può succedere che una persona
intelligente come Thurow, scrivendo un articolo che pretenderebbe di
fornire una chiara evidenza quantitativa dell’importanza della
competizione internazionale nell’economia USA, non riesca a comprendere
che l’evidenza che lui propone mostra con chiarezza che non sono i
problemi da lui identificati ad essere i colpevoli?
Settori ad alto valore aggiunto. Ira
Magaziner e Robert Reich, due figure oggi influenti nell’Amministrazione
Clinton, raggiunsero per la prima volta un largo pubblico col loro
libro del 1982, “Minding America’s Business” [Gli affari in America, NdT].
Il libro proponeva una politica industriale USA, e nell’introduzione
gli autori fornivano apparentemente una base quantitativa e concreta per
una tale politica: Il “nostro standard di vita può crescere solamente
se (i) capitale e lavoro fluiscono in modo crescente verso industrie ad
alto valore aggiunto per lavoratore e (ii) manteniamo una posizione in
quelle industrie che sia superiore a quella dei nostri concorrenti.”
Gli economisti erano scettici su questa idea in linea di principio. Se l’obbiettivo di avere le industrie giuste consistesse semplicemente nel passare a settori con alto valore aggiunto, perché i mercati privati non lo stavano già facendo? (4) Ci si potrebbe però liberare della domanda attribuendola semplicemente alla solita fede illimitata degli economisti nel mercato; non sostenevano forse Magaziner e Reich la loro tesi con molte evidenze tratte dal mondo reale?
Gli economisti erano scettici su questa idea in linea di principio. Se l’obbiettivo di avere le industrie giuste consistesse semplicemente nel passare a settori con alto valore aggiunto, perché i mercati privati non lo stavano già facendo? (4) Ci si potrebbe però liberare della domanda attribuendola semplicemente alla solita fede illimitata degli economisti nel mercato; non sostenevano forse Magaziner e Reich la loro tesi con molte evidenze tratte dal mondo reale?
Bene, “Minding America’s Business” contiene molti fatti. Una
cosa che non fa mai è però quella di giustificare i criteri esposti
nell’introduzione. La scelta delle industrie ad alto valore aggiunto
dipende evidentemente dalla credenza degli autori che questo sia
sinonimo di alta tecnologia, ma in nessun luogo nel libro si forniscono
numeri che comparino i reali valori aggiunti per lavoratore nelle
diverse industrie.
Valore aggiunto per lavoratore (USA 1988)
in migliaia di dollari |
|
Sigarette | 488 |
Raffinazione petrolio | 283 |
Automobili | 99 |
Acciaio | 97 |
Aeronautica | 68 |
Elettronica | 64 |
Tutte le manifatture | 66 |
Non è difficile trovare numeri del genere. Ogni biblioteca pubblica negli USA ha una copia dello Statistical Abstract degli
Stati Uniti che ogni anno contiene un tabella che presenta il valore
aggiunto e l’occupazione per le industrie manifatturiere degli Stati
Uniti.
Tutto quel che serve è passare qualche minuto nella biblioteca con
una calcolatrice per ricavare una tabella che classifichi le industrie
USA in base al valore aggiunto per lavoratore. La tabella qui sopra
mostra alcune voci selezionate dalle pagine 740-744 dello Statistical Abstract del
1991. Se ne ricava che le industrie americane con valore aggiunto per
lavoratore veramente alto sono in settori con rapporti molto alti di
capitale per lavorare, come le sigarette e la raffinazione del petrolio.
(Il risultato era prevedibile: dato che le industrie capital-intensive
devono ottenere un ritorno standard su grandi investimenti, devono
caricare i prezzi con un maggiore margine sul costo del lavoro di quanto
non facciano le industrie ad alto impiego di manodopera, cosa che
implica un alto valore aggiunto per lavoratore). Fra le grandi
industrie, il valore aggiunto per lavoratore tende ad essere alto nei
tradizionali settori manifatturieri pesanti come l’acciaio e le auto.
Settori ad alta tecnologia come l’aerospazio e l’elettronica risultano
essere grosso modo in posizione intermedia.
Questo risultato non sorprende gli economisti convenzionali. Alto
valore aggiunto per lavoratore si ha nei settori che sono estremamente
capital-intensive, ovvero nei settori nei quali un dollaro addizionale
di capitale fa aumentare di poco il valore aggiunto. In altre parole,
non c’è nessun “buono premio” [free lunch, pranzo gratis, NdT].
Ma sorvoliamo su quel che si dice a proposito di come funzioni
l’economia, e notiamo invece la stranezza dell’errore di Magaziner e
Reich. Certamente loro non volevano promuovere una politica industriale
che versasse con l’imbuto capitali e posti di lavoro nell’acciaio e
nelle industrie automobilistiche, invece che in quelle ad alta
tecnologia. Come possono però scrivere un intero libro dedicato alla
proposta di designare come obiettivo le industrie ad alto valore
aggiunto senza mai controllare quali siano queste industrie?
Costo del lavoro. Nella sua presentazione
al vertice di Copenaghen, Il Primo ministro inglese John Major ha
mostrato una tabella che indicava che i costi unitari del lavoro europei
erano cresciuti più rapidamente di quelli negli Stati Uniti e nel
Giappone. Ne deduceva che i lavoratori europei stavano autoattribuendosi
un reddito al di fuori del mercato mondiale. Ma alcune settimane più
tardi Sam Brittan del Financial Times ha scoperto una cosa strana nei
calcoli di Major: i costi del lavoro non erano normalizzati con i tassi
di cambio. Nella competizione internazionale, chiaramente, quel che
conta per una ditta USA sono i costi dei suoi concorrenti esteri
misurati in dollari, non in marchi o yen. I confronti internazionali dei
costi del lavoro, come le tabelle che la Banca dell’Inghilterra
pubblica normalmente, sono dunque sempre convertiti in una valuta
comune. I numeri presentati da Major non contenevano però questa
normalizzazione standard. E fu una buona cosa, per la sua presentazione,
che non l’abbia fatto. Come Brittan sottolineò, i costi del lavoro
europei non risultavano più alti, in termini relativi, una volta
normalizzati al cambio. Questo errore è ancora più banale di quelli di
Thurow o Magaziner e Reich. Come poteva John Major, con alle spalle le
sofisticate risorse statistiche della Tesoreria del Regno Unito,
presentare un’analisi che è precipitata nel nulla dopo aver fatto la più
standard delle correzioni?
Questi esempi di aritmetica bizzarramente spensierata, scelti fra
dozzine di casi simili, da parte di persone che certamente avevano le
capacità e le risorse per farvi fronte, esige una spiegazione. La
migliore ipotesi di lavoro è che in ogni caso l’autore o l’oratore
voleva credere nell’ipotesi competitiva a tal punto da non avvertire
nessuno stimolo a metterla in discussione; se si sono usati dei dati, è
stato solamente per sostenere una credenza predeterminata, non per
esaminarla. Ma perché molte persone sono evidentemente così ansiose di
definire i problemi economici come problemi di competizione
internazionale?
La metafora competitiva – l’immagine di paesi che competono l’un con
l’altro nei mercati del mondo nello stesso modo in cui lo fanno le
società per azioni – deve molto del suo fascino alla sua apparente
comprensibilità. Dire a un gruppo di uomini d’affari che un paese è come
una società per azioni più in grande, significa dare loro il conforto
di pensare che siano già in grado di capire le cose fondamentali.
Parlare loro di concetti economici come il vantaggio comparato,
significa chiedergli di imparare qualche cosa nuovo. Non è sorprendente
che molti preferiscano una dottrina che offre il vantaggio di una
apparente sofisticazione senza la fatica di dover pensare intensamente.
La retorica della competitività è divenuta così tanto diffusa, tuttavia,
per tre ragioni più profonde.
La prima è che le immagini competitive sono eccitanti, ed il brivido
vende biglietti. Il sottotitolo del più importante best-seller di Lester
Thurow, “Head to head“, è “La Prossima Battaglia Economica fra
Giappone, Europa, e USA”; la copertina proclama che “la guerra decisiva
del secolo è iniziata … e gli USA potrebbero avere già deciso di
perderla.” Supponiamo che il sottotitolo avesse descritto la vera
situazione: “La prossima lotta nella quale ogni grande economia riuscirà
o fallirà si basa sui suoi propri sforzi, piuttosto indipendentemente
da quel che faranno gli altri.” Thurow non avrebbe forse venduto un
decimo delle copie?
Secondo, l’idea che le difficoltà economiche degli USA si incardinano
in modo cruciale sui nostri fallimenti nella competizione
internazionale fa paradossalmente apparire quelle difficoltà come più
facili da risolvere. La produttività del lavoratore americano medio è
determinata da un ordine complesso di fattori, la maggior parte dei
quali irraggiungibile da politiche praticabili pubbliche. Se si accetta
quindi la realtà che il nostro problema “competitivo” è realmente un
problema di produttività nazionale puro e semplice, è improbabile
riuscire ad essere ottimisti sulla possibilità di cambiamenti
drammatici. Ma se ci si convince che il problema sta realmente dei
fallimenti nella competizione internazionale – quelle importazioni
stanno spingendo i lavoratori fuori dei posti di lavori ad alto salario,
o la competizione straniera sovvenzionata dagli stati sta portando gli
Stati Uniti fuori dai settori ad alto valore aggiunto – allora le
risposte al malessere economico possono consistere in cose semplici come
il sostegno dell’alta tecnologia e il fare i duri col Giappone.
Infine molti dei leader del mondo hanno trovato la metafora
competitiva estremamente utile come strumento politico. La retorica
della competitività offre giustificazioni per scelte dure o per
evitarle. L’esempio di Delors a Copenaghen mostra l’utilità di metafore
competitive come evasione. Delors doveva dire qualche cosa al vertice
Europeo; dire qualsiasi cosa che riguardasse le vere radici della
disoccupazione europea avrebbe comportato rischi politici enormi.
Spostando la discussione su questioni essenzialmente irrilevanti ma
apparentemente plausibili come la competitività, ha fatto guadagnare il
tempo per fornire una migliore risposta (che fornì in una certa misura
in Dicembre, con il libro bianco sull’economia europea, un lavoro che
manteneva comunque la “competitività” nel titolo).
Per contrasto, la bene accolta presentazione del programma economico
iniziale di Bill Clinton a febbraio 1993 mostrò l’utilità della retorica
competitiva come motivazione per politiche difficili. Clinton propose
un insieme di dolorosi tagli al deficit Federale ed aumenti delle tasse.
Perché? Le ragioni per tagliare il deficit sono deludentemente poco
drammatiche: il deficit sottrae fondi che potrebbero altrimenti essere
investiti produttivamente, e questo provoca una costante anche se
piccola deriva della crescita economica USA. Ma Clinton ha potuto invece
fare un eccitante appello patriottico, chiamando la nazione ad agire
subito per rendere l’economia competitiva nel mercato globale – con
l’argomento che ne seguirebbero conseguenze economiche atroci se gli
Stati Uniti non lo facessero.
Molte persone che sanno che la “competitività” è un concetto
ampiamente privo di significato indulgono nel soddisfare la retorica
competitiva perché credono che sia loro possibile imbrigliarla al
servizio di buone politiche. Un’eccessiva paura dell’Unione sovietica fu
usata negli anni cinquanta per giustificare la costruzione del sistema
di viabilità pubblica interstatale e l’espansione dellaìistruzione in
matematica e nelle scienze. Le paure ingiustificate della competizione
internazionale non possono essere usate in modo simile per giustificare
sforzi seri per ridurre il deficit di bilancio, ricostruire le
infrastrutture, e così via?
Alcuni anni fa questa era una speranza ragionevole. Oggi l’ossessione
della competitività è tuttavia giunta ad un punto tale che ha già
cominciato a distorcere pericolosamente le politiche economiche.
Pensare e parlare in termini di competitività porta a tre pericoli
reali. Primo, potrebbe dare luogo ad una spesa rovinosa di danaro
pubblico per migliorare la competitività USA.. Secondo, potrebbe
condurre al protezionismo e a guerre commerciali. Finalmente, e più
importante, potrebbe dare luogo a cattive politiche pubbliche su di uno
vasto spettro di importanti problemi.
Durante gli anni cinquanta, la paura dell’Unione sovietica spinse il
governo americano a spendere soldi su cose utili come le strade
pubbliche e l’istruzione scientifica.
Condusse tuttavia anche a spese considerevoli su cose più dubbie come
i rifugi antiatomici. Il più ovvio, anche se non il meno preoccupante,
pericolo dell’ossessione crescente della competitività è che condurrà
probabilmente ad una simile cattiva allocazione di risorse. Per fare un
esempio, le recenti linee guida del governo per il finanziamento della
ricerca hanno accentuato l’importanza di sostenere la ricerca che può
migliorare la competitività internazionale degli USA. Questo esercita
quanto meno una certa polarizzazione verso invenzioni che possono
aiutare ditte manifatturiere che generalmente competono nei mercati
internazionali, invece dei produttori di servizi che generalmente non lo
fanno. Ancora: la maggior parte dei nostri posti di lavoro e del valore
aggiunto ora è nei servizi, ed è stata la mancanza di produttività nei
servizi, piuttosto che nei prodotti, ad essere il singolo fattore più
importante nella stagnazione degli standard di vita USA.
Un rischio molto più serio è che l’ossessione della competitività
porti a guerre commerciali, forse anche ad una guerra commerciale
mondiale.
La maggior parte di quelli che hanno predicato la dottrina della
competitività non sono stati dei protezionisti vecchio stile. Vogliono
che i loro paesi vincano il gioco commerciale globale, non che se ne
sottraggano. Ma cosa succede se, nonostante i suoi migliori sforzi, un
paese non appaia vincente, o venga a mancargli la fiducia di poterlo
fare? La diagnosi competitiva suggerisce inevitabilmente che chiudere i
confini è meglio che rischiare che degli stranieri portino via posti di
lavoro a salario alto in settori ad alto valore aggiunto. Come estrema
conclusione, la supposta relazione sulla natura competitiva delle
relazioni economiche internazionali unge le ruote di quelli che vogliono
politiche “confrontative” se non apertamente protezionistiche.
Possiamo già vedere questo processo in cammino, negli Stati Uniti e
in Europa. Negli Stati Uniti è degno di nota quanto rapidamente i
sofisticati argomenti interventisti avanzati da Laura Tyson nei suoi
lavori pubblicati abbiano dato un viatico alla ingenua affermazione del
Rappresentante della U.S Trade Michael Kantor che l’eccedenza
commerciale bilaterale del Giappone stava costando milioni di posti di
lavoro negli Stati Uniti. E la retorica commerciale del Presidente
Clinton che mette l’accento sulla creazione supposta di posti di lavoro
ad alto salario invece che sui vantaggi da specializzazione, ha lasciato
la sua amministrazione in una posizione debole quando tentò di
ribattere ai nemici del NAFTA che sostenevano che la concorrenza del
lavoro messicano più conveniente avrebbe distrutto la base
manifatturiera USA.
Ma il rischio forse più serio dell’ossessione della competitività è
comunque il suo effetto indiretto e sottile sulla qualità del dibattito
economico e sulle relative politiche. Se alti rappresentanti statali
sono fortemente orientati verso una particolare dottrina economica, il
loro impegno finisce per colorare inevitabilmente le politiche su tutti i
temi, anche quelli che non abbiano niente a che fare con quella
dottrina. E se una dottrina economica è completamente e dimostrabilmente
sbagliata, l’insistenza che le discussioni facciano propria quella
dottrina inevitabilmente annebbia la vista e diminuisce la qualità del
dibattito sulle politiche su di una vasta serie di problemi, inclusi
alcuni che sono molto lontani dalle politiche commerciali di per sé.
Consideriamo, per esempio, il problema della riforma della sanità,
indubbiamente la più importante iniziativa economica
dell’amministrazione Clinton, quasi certamente un ordine di grandezza
più importante per gli standard di vita USA di qualsiasi altra cosa si
sarebbe potuta fare sulle politiche commerciali (salvo se gli Stati
Uniti provocassero una guerra mondiale commerciale). Dato che la sanità è
un problema con pochi collegamenti internazionali diretti, ci si
sarebbe aspettati che la si tenesse fuori da alcune distorsioni
politiche dovute alla fuorviate preoccupazione sulla competitività.
Ma l’amministrazione ha messo lo sviluppo del piano sanitario nelle
mani di Ira Magaziner, lo stesso Magaziner che ha sbagliato così
clamorosamente il suo compito a casa nel sostenere l’intervento pubblico
nelle industrie ad alto valore aggiunto. Gli scritti precedenti e le
consulenze di Magaziner sulle politiche economiche si concentravano
quasi completamente sul problema della competizione internazionale,
sulle sue vedute su quanto riassunto nel titolo del suo libro del 1990, “The Silent War” [La Guerra Silenziosa, NdT].
La sua nomina era conseguenza di molti fattori, evidentemente non
ultima la sua lunga amicizia personale con la più importante coppia [d'America, NdT].
Ancora, non è stato irrilevante che in un’amministrazione impegnata
nell’ideologia della competitività, Magaziner, che ha raccomandato
costantemente che le politiche industriali nazionali fossero basate sui
concetti di strategia imprenditoriale da lui appresi durante i suoi anni
come consulente del Boston Consulting Group, fosse considerato un
esperto di politica economica.
Si può anche notare l’insolito processo con il quale è stata
sviluppata la riforma della sanità. Nonostante le enormi dimensioni
della task force, esperti riconosciuti nella sanità erano quasi
completamente assenti, in particolare sebbene non esclusivamente
economisti specializzati nella sanità, inclusi economisti con
impeccabili credenziali liberal come Henry Aaronn della Brookings
Institution. Di nuovo, questo è stato probabilmente il riflesso di una
serie di fattori, tra i quali non è però probabilmente irrilevante la
circostanza che Magaziner, fortemente impegnato nell’ideologia della
competitività, non abbia in passato trovato gli economisti di
professione molto comprensivi, e non fosse disposto ad avere a che fare
con loro su nessun problema.
Per fare una dura ma non completamente ingiustificata analogia, un
governo sposato all’ideologia della competitività è altrettanto
improbabile faccia una buona politica economica quanto un governo
impegnato nel creazionismo possa fare una buona politica della scienza,
anche in aree che non hanno relazione diretta con la teoria
dell’evoluzione.
Se l’ossessione della competitività è fuorviante e dannosa come
questo articolo sostiene, perché non ci sono più voci a dirlo? La
risposta è: per una mistura di speranza e di paura.
Dal lato della speranza, molte persone assennate hanno immaginato di
potersi appropriare della retorica della competitività in favore di
politiche economiche desiderabili. Supponiamo di credere che gli Stati
Uniti abbiano bisogno di innalzare il tasso di risparmio e di migliorare
il sistema educativo per innalzare la produttività. Anche sapendo che i
benefici di una maggiore produttività non hanno niente a che vedere con
la competizione internazionale, perché non descrivere questo come una
politica per migliorare la competitività se si pensa di potere così
allargare il pubblico dei suoi sostenitori? Quella di accarezzare i
pregiudizi popolari in favore di una buona causa, è una tentazione alla
quale ho ceduto io stesso.
Riguardo alla paura, ci vuole o un economista molto coraggioso o
molto imprudente per dire pubblicamente che una dottrina che molti,
forse i più, degli opinion leader del mondo ha abbracciato, è de plano
sbagliata. L’insulto maggiore sta nel fatto che molti di quegli uomini e
donne pensano, usando la retorica della competitività, di dimostrare la
loro sofisticazione in economia. Questo articolo può influenzare delle
persone, ma non si farà molti amici.
Sfortunatamente quegli economisti che hanno sperato di appropriarsi
della retorica della competitività per buone politiche economiche hanno
avuto invece la loro credibilità aumentata in favore di cattive idee. E
qualcuno deve mettere in evidenza quando il guardaroba intellettuale
dell’imperatore non sia esattamente quel che lui pensa.
Quindi cominciamo a dire la verità: la competitività è una parola
senza significato quando si applica alle economie nazionali. E
l’ossessione della competitività è sbagliata e pericolosa.
——————————————–:
1) Si veda, per solo alcuni esempi, Laura D’Andrea Tyson ” Who’s Bashing Whom”: Conflitto commerciale in Industrie ad Alta tecnologia, Washington, Institute for International Economics, 1992; Lester C. Thurow “Head to Head”: La Prossima Battaglia Economica fra Giappone, Europa, e l’America; New York: Morrow; 1992; Ira C. Magaziner e Robert B. Reich, “Minding America’s Business”: declinio e crescita dell’Economia americana, New York: Vintage Books, 1983; Ira C. Magaziner e Mark Patinkin, “The Silent War”: dentro le battaglie del business globale che plasmano il futuro dell’America. New York: Vintage Books,, 1990; Edward N. Luttwak, “The Endangered American Dream”: Come impedire che gli Stati Uniti diventino un paese del terzo mondo e come vincere la lotta geo-economica per la supremazia industriale, New York: Simon e Schuster, 1993; Kevin P.Phillips, “Staying on Top”: Il business case per una strategia industriale nazionale, New York: Random House, 1984; Clyde V. Prestowitz, Jr., “Trading Places:” Come abbiamo permesso al Giappone di andare in testa, New York: Basic Books, 1988; William S. Dietrich, !In the Shadow of the Rising Sun”: Le radici politiche del declino economico americano, University Park: Pennsylvania State University, 1991; Jeffrey E. Garten, “A Cold Peace”: America, Giappone, Germania, e la lotta per la supremazia, New York: Times Books, 1992; e Wayne Sandholtz. et al., “The Highest Stakes”: i fondamenti economici del prossimo sistema di sicurezza, Berkeley Roundtable sull’Economia Internazionale (BRIE), Oxford University Press, 1992.
2)Un esempio può qui essere utile. Supponiamo che un paese spenda il 20 percento del suo reddito in importazioni, e che i prezzi delle sue importazioni non siano stabiliti in valuta nazionale ma estera. Allora se il paese è costretto a svalutare la sua moneta – riduce il suo valore in valuta straniera – entro il 10 percento, questo innalzerà il prezzo del paniere che il paese sta spendendo del 20 percento, elevando così l’indice dei prezzi complessivo del 2 percento. Anche se la produzione nazionale non è cambiata, il vero reddito del paese sarà precipitato perciò del 2 percento. Se il paese deve svalutare ripetutamente di fronte ad una pressione competitiva, la crescita del reddito reale rimarrà costantemente in ritardo rispetto alla crescita reale della produzione.
E’ comunque importante notare che la dimensione di questo ritardo non dipende solo dall’ammontare della svalutazione ma dalla quota di importazione nelle spese. Una svalutazione del 10 percento del dollaro rispetto allo yen non riduce il reddito reale degli Stati Uniti del 10 percento – infatti, riduce solamente approssimativamente il reddito reale degli Stati Uniti solo dello 0.2 percento perché solo circa il 2 percento del reddito Americano è speso in beni prodotti in Giappone.
3)Nell’esempio nella nota precedente, la svalutazione non avrebbe effetto sul GNP reale, ma il “command GNP” sarebbe precipitato del due percento. La scoperta che in pratica il “command GNP” è cresciuto all’incirca velocemente come il GNP reale spinge a dire che eventi come il caso ipotetico della nota sono senza pratica importanza.
4)“valore aggiunto” ha un significato preciso, standard, nella contabilità del reddito nazionale: il valore aggiunto di una ditta è il valore in dollari delle sue vendite, meno il valore in dollari dei contributi che acquista dalle altre ditte, e come tale è misurato facilmente. Alcune persone che usano il termine, probabilmente ignorano questa definizione e semplicemente usano “alto valore aggiunto” come sinonimo di “desiderabile.” (Fonte)
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