Dal 21 marzo il decreto lavoro della coppia Renzi - Poletti
è in vigore. E c'è davvero poco di cui gioire
Come vi abbiamo raccontato, la rivoluzione di Matteo Renzi
sul mondo del lavoro per il momento si è fermata ad un decreto che ha provocato
un vero e proprio terremoto di reazioni. Già, perché nell’attesa di vedere nero
su bianco il testo completo dell’ormai “leggendario” Jobs Act (che Renzi aveva anticipato quando a
Palazzo Chigi ancora soggiornava Letta, riproponendolo poi alla Camere durante
il dibattito sulla fiducia e promettendo poi di presentarlo
in tempo per l’incontro con la Merkel), quello che abbiamo è il decreto frutto
della collaborazione con il ministro del lavoro Poletti. Un decreto che propone
alcune innovazioni e cambiamenti ai contratti a progetto, lascia immutata la
“giungla dei contratti”, non contiene aperture al fantomatico “contratto unico
a tutele crescenti” (su cui sembrava in un primo tempo orientato Renzi),
ripercorre alcune controverse misure di Elsa Fornero e prova a fare ordine
sulla dibattutissima questione dell’apprendistato. Sempre nell’attesa di capire
cosa combinerà il Governo con la legge delega per la riforma degli
ammortizzatori sociali (questione almeno di pari importanza), a sorprendere è
il modo in cui è stato accolto il provvedimento della coppia Renzi – Poletti.
Al di là delle valutazioni di merito (che rimandano ad esigenze /
ruoli / impostazioni ideologiche differenti), gli analisti sono tutti concordi:
nel bene o nel male, questo è un decreto che alimenta la precarietà del lavoro
e, per dirla con Pini – Romano (la cui analisi su Micromega merita
di essere letta fino in fondo), determina una situazione per la quale “il
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato cessa di essere il
contratto preminente, e deve misurarsi con i contratti a termine di durata
triennale (a tempo determinato standard e somministrazione), liberati da
qualsiasi motivazione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”.
Il punto è che l’obiettivo indicato è quello di contribuire alla ripresa
occupazionale, garantendo alle aziende “semplificazione” e flessibilità: dunque
si possono liquidare come “effetti collaterali” di bassa rilevanza ad esempio
la “crescita dell’instabilità del rapporto di lavoro, la svalorizzazione del
lavoro come realizzazione personale, la crescita della dispersione salariale e
via discorrendo”.
Per capire quanto gli analisti siano concordi nel sostenere la
tesi della “precarietà per decreto e per sempre” (per citare l’analisi di Alleva sul
Manifesto), si prenda ad esempio la raccolta di opinioni che gli
stessi Pini e Romano in parte fanno (l’abbiamo arricchita di ulteriori
citazioni):
- Tito Boeri e Pietro Garibaldi su LaVoce: “Una norma
di questo tipo di fatto introduce un periodo di prova di 3 anni in cui il
datore può licenziare senza pagare un’indennità, senza dare un minimo di
preavviso e senza neanche motivazione. Un periodo di prova così lungo spiazza
qualsiasi altra tipologia contrattuale nel periodo di inserimento”
- Piergiovanni Alleva: “Dal punto di vista del lavoratore
significa cercare ogni tre anni un diverso datore di lavoro, e ciò
all’infinito, concedendo a Dio la dignità, e rassegnandosi ad una totale sottomissione
a ricatti di ogni tipo, sperando di essere confermato a tempo indeterminato
una volta o l’altra. È evidente che così, lo stesso datore di lavoro nel suo
complesso diventerà una sorta di favola non traducibile in realtà”.
- Chiara Saraceno su Ingenere: “Se
questo è il modo di investire sui giovani, di offrire loro un orizzonte di vita
meno incerto dell’attuale, mi sembra che non ci siamo proprio. Perché sono loro
i primi cui si applicherà questa doppia estensione della precarietà, fatta di
contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre
anni di rinnovi (se va bene). Sono loro i primi a rischiare di entrare in una
porta girevole all’infinito”.
- Brancaccio su L’Espresso:
“Sarà un buco nell’acqua, perché è già dimostrato che più precarizzazione non
vuol dire più occupazione”.
- Tiraboschi su Formiche: “Alla
fine di tutto, insomma, anche su mercato del lavoro noi siamo il frutto delle
nostre scelte e ancora una volta, il rinvio dei nodi critici e le
scorciatoie prese sulla flessibilità e la costruzione di un vero sistema di
apprendistato come leva della produttività delle imprese ci porta a ritenere
che, al di là delle dubbie coperture finanziare, la svolta culturale non c’è
stata e si è scelto di non scegliere in attesa di tempi migliori”.
(Fonte)
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