Un sunto cronologico della triste vicenda dei due fucilieri del San Marco trattenuti in India dal 18 febbraio 2012 (la cronologia arriva fino al febbraio 2014) preceduto da presenze italiane in India e interessi. Saranno mica questi ultimi ad aver condizionato ben 3 governi e il Presidente Napolitano nella "faccenda"?
Presenza italiana in India
Si
può stimare un numero totale di oltre 400 entità legali e stabilimenti
italiani in India, presenti in diverse forme, raggruppabili in tre
categorie principali: sussidiarie possedute al 100% dalla casa madre italiana,
Joint Ventures (soluzione preferita dalle PMI) o uffici commerciali di
rappresentanza.
Le
realtà aziendali italiane in India danno lavoro ad oltre 44.000 persone,
prevalentemente indiane, e sono principalmente concentrate nei due maggiori
poli industriali del Paese: la Capital Belt di Delhi-Gurgaon-Noida e
l’area di Mumbai-Pune (entrambe ben oltre le 100 presenze). Il
terzo e quarto polo di concentrazione fanno riferimento rispettivamente alla
città di Chennai in Tamil Nadu e alla città di Bangalore in
Karnataka (entrambe sotto le 50 presenze). Di rilievo minore la città di
Calcutta e dintorni (appena una dozzina di imprese italiane, ma si segnala il
recente nuovo investimento della società chimica Endura).
In
prospettiva stanno tuttavia emergendo nuove destinazioni strategiche, tra le
quali in particolare lo Stato del Gujarat e quello del Rajasthan, ove
cominciano a registrarsi i primi stabilimenti italiani. Fiat e Piaggio sono
state le prime società italiane ad entrare nel mercato indiano, rispettivamente
negli anni 50 e 60.
La prima
vera ondata di investimenti italiani si è tuttavia avuta solo negli anni
Novanta, come diretta conseguenza della stagione di liberalizzazioni
economiche attuata dall’allora Governo indiano. Da allora le imprese
italiane hanno continuato a guardare con estremo interesse al mercato indiano,
anche se la loro presenza rimane ancora al di sotto delle potenzialità. Il
settore dell’automotive (compresa la componentistica) rappresenta
dunque uno dei segmenti con maggiore presenza di imprese italiane in India.
Tutti
i nostri principali players nazionali sono presenti (es. Fiat,
Piaggio, Magneti Marelli, Brembo, Oerlikon-Graziano con stabilimenti produttivi
mentre Pirelli ha solo un ufficio commerciale), ma anche l’indotto italiano del
settore, composto principalmente da PMI, ha trovato buone opportunità di
inserimento su questo mercato. Simile il discorso per il segmento dei macchinari
agricoli, dove si rilevano le significative presenze di Carraro, New
Holland, Maschio Gaspardo e altre di minori dimensioni.
Tra
gli altri settori di importante presenza italiana si segnalano quello dell’ingegneria,
custruzioni ed infrastrutture (es. Salini-Impregilo, CMC di Ravenna,
Maccaferri, Italcementi Saipem, Maire Tecnimont, Techint, Tecnip, Mapei, ecc.
mentre forte è l’interesse manifestato per l’India anche dal Gruppo Ferrovie
dello Stato), dei prodotti alimentari (Bauli, Ferrero,
Lavazza, Perfetti Van Melle, ecc), dell’energia comprese le fonti
rinnovabili (es. ENI, Ansaldo Energia, Solesa, Nidec Ansaldo Sistemi
Industriali, Ravano Green Power, Leitner, ecc), della meccanica e
impianti/componentistica industriale in senso ampio (es. Bonfiglioli,
Danieli, Magaldi, Boldrocchi, Ansaldo Caldaie, ecc), del tessile (Gruppo
Coin, Benetton, Tessitura Monti, Savio e diverse PMI che fanno “sourcing” e
controllo qualità per grandi case di moda), del design d’interni e
segmento lusso (Artemide, Poltrona Frau, Natuzzi, Damiani, Ermenegildo
Zegna, Armani e numerosi marchi della moda italiana, se pure presenti con un
numero di punti vendita ancora limitato ecc).
Tra
gli altri players italiani di rilievo si segnalano Prysmian e
ST Microelectronics nel segmento ITC e Artsana/Chicco e Luxottica in quello dei
consumer goods. Essendo l’India il primo importatore mondiale di armamenti
militari sono particolarmente attente a questo mercato le aziende del settore difesa,
dal gruppo Finmeccanica, a Beretta, da Elettronica a
Fincantieri. Quanto al segmento finanziario, oltre al
Gruppo Assicurazioni Generali, sono presenti in India, principalmente nel polo
finanziario di Mumbai, una dozzina di banche italiane, unicamente con uffici di
rappresentanza (solo BNL- BNP Paribas ha anche filiali commerciali).
Nonostante la
difficile congiuntura internazionale ed il rallentamento della
crescita in India dell’ultimo biennio, nel corso del 2013 si è assistito ad
espansioni produttive da parte di importanti players italiani quali Carraro,
Danieli, Case New Holland, Magneti Marelli; al contempo, dai costanti contatti
della nostra Ambasciata con le aziende italiane colà stabilite, emerge come
molte abbiano ulteriori piani di investimento per gli anni a venire,
al fine di cogliere le opportunità offerte nel medio-lungo periodo dall'immenso
mercato indiano.
Sul
fronte delle principali difficoltà affrontate dalle aziende italiane,
l’ostacolo principale è rappresentato dalle carenze infrastrutturali e
dalla lentezza e farraginosità delle procedure burocratiche (ottenimento
di permessi e licenze, difficoltà nell’acquisizione di terreni, scarsa certezza
giuridica e trasparenza della normativa). Il mercato indiano continua tuttavia
ad essere percepito come altamente promettente: tra i fattori di attrazione vi
sono la disponibilità di una forza lavoro a basso costo, ma tendenzialmente
qualificata e ben preparata, l’ampiezza di un mercato di 1,2 miliardi di
persone unita al dinamismo di una classe media di potenziali consumatori in
continua crescita (già stimata in oltre 200 milioni di persone), l’eccellenza
di alcuni segmenti del terziario (ad es. nel settore IT), le basse tensioni
sociali nella forza lavoro.
Caso AgustaWestland
È
recentissima la cancellazione da parte indiana del contratto da 556 milioni di
Euro con AgustaWestland per la fornitura al Ministero della Difesa
indiano di 12 elicotteri VVIP AW-101.
Come
noto, Agusta-Westland si era aggiudicata nel febbraio 2010 una gara del Governo
indiano per l’acquisizione di 12 elicotteri da trasporto
passeggeri da destinare alle esigenze delle alte cariche del paese.
Il valore della commessa era di 560 milioni di Euro. L’azienda
incassò al tempo un acconto pari al 30% della commessa contro la consegna dei
primi tre elicotteri. All’indomani delle note vicende giudiziarie del Gruppo,
il Governo indiano dichiarò di ritenere fondate le accuse rivolte
all’azienda minacciando la cancellazione del contratto.
Da
allora, tale vicenda ha assunto sviluppi procedurali e legali confusi e
contrastanti, andando spesso a sovrapporsi con la questione dei nostri due
Fucilieri di Marina, sino all’epilogo del 2 gennaio u.s. che ha visto, per
l’appunto, la cancellazione del contratto. Ad oggi, le parti in causa, di
comune accordo, hanno rimesso ad un arbitrato internazionale la risoluzione del
contenzioso.
Relazioni culturali,
scientifiche e tecnologiche
Le
relazioni culturali sono regolate dall'Accordo Culturale del 2004 e
i successivi protocolli esecutivi. E’ in corso il negoziato per il
rinnovo del protocollo esecutivo triennale 2012-2014. Come tutti gli
accordi, anche questo contiene la clausola del “limite delle risorse
disponibili” (sarà la legge di ratifica ad assegnare eventualmente le risorse
necessarie).
La
cooperazione scientifica e tecnologica italo-indiana è regolata dall’Accordo firmato nel
luglio 2003. Così come la cooperazione culturale, anche quella scientifica e
tecnologica si articola in Programmi esecutivi pluriennali finalizzati in
ambito Commissione Mista bilaterale. Il 19 gennaio 2012 è stato firmato a Nuova
Delhi il Programma Esecutivo per il 2012 -2014 che include il 6 progetti di
ricerca congiunti di particolare rilevanza e lo scambio di 12 ricercatori.
Cooperazione in materia
ambientale
L’India
è Parte firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti
Climatici ed ha aderito al Protocollo di Kyoto. Nel dicembre 2005, il Ministero
dell’Ambiente italiano e quello indiano hanno firmato un MoU per la
cooperazione nell’area dei cambiamenti climatici e per l’attuazione congiunta di
progetti nell’ambito del “Clean Development Mechanism” del Protocollo di Kyoto,
creando così la cornice istituzionale entro cui attuare progetti ed iniziative
comuni.
Nel
febbraio 2007 è stato firmato un Memorandum d’Intesa tra
il Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) ed
il Ministero delle Energie Rinnovabili (MNRE) del Governo
indiano. Il Memorandum d’Intesa ha istituito un gruppo di lavoro congiunto per
discutere sulle attività di cooperazione indo-italiane nel settore delle
energie rinnovabili.
Cooperazione allo
Sviluppo
Le
attività della Cooperazione Italiana allo sviluppo in India hanno subito una
graduale diminuzione negli ultimi anni, all'indomani della chiusura
dell'UTL di Nuova Delhi e, contestualmente, alla riorganizzazione dell'azione
della Cooperazione Italiana, nel cui ambito l'India non figura più come paese
prioritario di intervento.
E’
attualmente in sospeso un solo progetto a credito d'aiuto del valore di
25.822.844,96 Euro (somma depositata presso Artigiancassa) per il miglioramento
dell'approvvigionamento idrico e risanamento in 16 municipalità del Bengala
Occidentale. Dopo gli studi preliminari effettuati dal Consorzio italiano
Hydea, che si è aggiudicato la componente in affidamento per la progettazione
ed espletamento delle gare di appalto, il progetto è di fatto entrato in una
fase di stallo, a causa delle divergenze tra le autorità locali ed il consorzio
italiano in merito ai costi, estensione del progetto e programma delle
attività. Al momento, anche la vicenda che coinvolge i nostri Fucilieri di
Marina, contribuisce allo stallo del suddetto progetto.
Partecipazione India a
EXPO 2015
La
partecipazione indiana a Expo presenta uno stallo operativo ormai prolungatosi
da oltre un anno. Malgrado la tempestiva e positiva reazione in merito
all’adesione ad Expo, comunicata nel febbraio 2011, la Autorità di Nuova Delhi
hanno di fatto interrotto ogni contatto propedeutico alla partecipazione:
l’ultimo incontro tecnico risale al dicembre 2012. Sebbene la Società
organizzatrice e la nostra Ambasciata abbiano esercitato ogni possibile
pressione, non è stato finora possibile riaprire alcun canale di comunicazione,
anche a livello tecnico, confermando l’impressione che non sia ancora maturo il
necessario avallo politico per poter procedere alla negoziazione del contratto
di partecipazione.
La
prospettiva è resa ancor più complessa dal previsto svolgimento delle elezioni
politiche nel corso dei prossimi mesi. Stante la tempistica necessaria per
la predisposizione delle procedure per la realizzazione dei Padiglioni
individuali, è a questo punto reale il rischio che il Paese non partecipi
all’Esposizione. In assenza di sviluppi, la Società sta concretamente valutando
la possibilità di riassegnare ad altro Paese l’ampio lotto di terreno destinato
all’India (nei propositi originari, addirittura superiore a 4.100 mq,
successivamente ridotto a circa 3.000).
Le rispettive comunità
La comunità
italiana in India ammonta a 1103 residenti registrati all’AIRE. La
comunità è composta prevalentemente da rappresentanti o tecnici di aziende, qui
residenti con famiglie al seguito, operai specializzati che operano in
cantieri, e religiosi, non genera problematiche di rilievo. Numerosi sono i
casi di connazionali che rimangono privi di documenti e di mezzi di sostentamento,
o con problemi dovuti al consumo di sostanze stupefacenti.
La
comunità indiana in Italia ammonta a circa 120.000 residenti (di cui circa 20.000
irregolari). Si tratta del settimo gruppo di popolazione straniera residente in
Italia e della prima comunità indiana dell’area Schengen per volume
complessivo; la comunità proviene soprattutto dal Punjab (per oltre l’80%) ed è
prevalentemente occupata nell’agro-industria, specie nel Centro-Nord
(Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio).
La comunità Sikh in Italia ed alcuni viaggiatori di confessione
Sikh hanno lamentato le procedure di controllo alle frontiere aeroportuali
italiane, definendole discriminatorie (alcuni cittadini Sikh sarebbero stati
sottoposti a controlli ancora prima di passare sotto il metal detector o
comunque anche quando il metal detector non suonava al loro passaggio) ed
offensive per il loro credo religioso (in quanto – in rari casi – sarebbe stato
chiesto di togliere il turbante in pubblico). La questione ha anche fatto oggetto
di scambi di lettere tra i due Ministri degli Esteri sia nel
corso del 2011 che all’inizio del 2012. Il Ministero dell’Interno italiano è
stato positivamente sensibilizzato in proposito. Sono state emanate direttive
per sensibilizzare gli addetti ai controlli aeroportuali. Poiché l’inasprimento
generalizzato dei controlli aeroportuali era anche la conseguenza della nuova
normativa europea del 2010, l’Italia è intervenuta in ambito UE affinché
tutti gli aeroporti della UE fossero sensibilizzati al riguardo. La questione è
stata discussa in occasione del Vertice UE-India del 10 febbraio.
La vicenda dei due fucilieri di marina
I
NUCLEI MILITARI DI PROTEZIONE DELLA MARINA: IL QUADRO NORMATIVO
Il clamoroso rinascere della pirateria – inizialmente soprattutto al largo delle coste
del Corno d’Africa, e in particolare della Somalia avvolta nella spirale di una
crisi politica ed economico-sociale di proporzioni inaudite – convinceva la
Comunità internazionale a reagire: in questo quadrol’Unione europea varava nel dicembre
2008 la missione ATALANTA, nell'ambito della politica europea di
sicurezza e di difesa comune (PSDC) e in conformità con le pertinenti
risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in risposta ai
crescenti livelli di pirateria nel occidentale dell'Oceano Indiano.
Obiettivi principali della missione erano:
- la protezione delle navi del Programma alimentare mondiale (PAM )
impegnate nella consegna di aiuti alimentari alle popolazioni sfollate in
Somalia, nonché la tutela dei trasporti marittimi collegati alla missione
dell'Unione Africana in Somalia (AMISOM);
- la dissuasione, la prevenzione e la
repressione degli atti di pirateria al - largo della Somalia ;
- il monitoraggio delle attività di pesca al largo delle coste della
Somalia.
Tipicamente , EU NAVFOR - Atalanta si compone di 4-7 navi da combattimento di
superficie , 1-2 navi ausiliarie e 2-3 aerei di pattugliamento, schierati in
una zona operativa che copre circa la dimensione dell'Unione europea :
comprende il sud del Mar Rosso , il Golfo di Aden e l'Oceano indiano
occidentale , incluse le Seychelles. L'attuale mandato è stato rinnovato il 23
marzo 2012 e si estende fino al dicembre 2014. Nell'ambito della stessa
decisione, l'area operativa di EUNAVFOR - Atalanta è stata estesa per includere
aree costiere somale e acque interne.
Da marzo ad agosto 2009 la NATO lanciava intanto l'Operazione Allied
Protector, per migliorare la sicurezza delle rotte marittime
commerciali e della navigazione internazionale al largo del Corno d' Africa. La
forza multinazionale, assicurata da gruppi navali permanenti della NATO, ha
condotto compiti di sorveglianza e ha fornito protezione per scoraggiare e
reprimere la pirateria e gli atti di rapina armati. Ad Allies Protector succedeva
il 17 agosto 2009 l’operazione Ocean
Shield, caratterizzata dall'adozione di un approccio più globale alle
iniziative di contrasto alla pirateria. L'obiettivo principale è quello di
condurre operazioni di contrasto alla pirateria in mare ed allo stesso tempo di
assistere gli Stati regionali che ne fanno richiesta a sviluppare capacità di
contrasto alla pirateria.
Nonostante i successi delle missioni internazionali, emergeva
progressivamente la possibilità di potenziare ulteriormente la difesa del
naviglio commerciale apprestando a bordo dei natanti apposite installazioni a
supporto dell’azione di contrasto agli attacchi dei pirati affidata a nuclei
armati di guardie private.
Anche in Italia il dibattito si orientava in tal senso: il 22
giugno 2011 la Commissione Difesa del Senato concludeva l’esame di un
documento sul possibile impiego di personale militare a bordo del naviglio
mercantile e da diporto che transita in acque internazionali colpite dal
fenomeno della pirateria.
La risoluzione approvata impegnava tra l’altro il Governo ad “individuare urgentemente
soluzioni legislative che consentano di superare le problematiche di natura
giuridica connesse alla creazione di un'adeguata strategia di autodifesa, al
fine di tutelare nel modo più ampio possibile il naviglio mercantile e da
diporto battente bandiera italiana che transita in acque internazionali ad alto
rischio pirateria, oggi esposto ad insostenibili e sempre crescenti rischi
umani, economici e sociali” e conseguentemente “a predisporre, mediante lo
strumento della decretazione d'urgenza, a partire dal prossimo atto di
rifinanziamento delle missioni internazionali un provvedimento che configuri
- quale soluzione funzionale ma non esclusiva - la
possibilità di impiegare a bordo delle navi battenti bandiera italiana team armati
della Marina militare, il cui derivante onere finanziario sia a totale
carico degli armatori che ne faranno richiesta. La risoluzione lasciava altresì
aperta la porta all’impiego di team di guardie private a bordo
delle navi.
Si giungeva così, nell’ambito del decreto di rifinanziamento delle missioni
internazionali per il secondo semestre del 2011 – D.L. 107/2011, art. 5 – alla
formulazione di una normativa volta a consentire l’impiego di nuclei militari,
ovvero di guardie private, allo scopo di prevenire ed eventualmente respingere
attacchi di pirati al naviglio nazionale.
In particolare, il comma 1 dell'articolo in oggetto
prevede che il Ministero della difesa possa stipulare con l'armatoria privata
italiana e con altri soggetti aventi analogo potere di rappresentanza,
convenzioni per la protezione delle navi battenti bandiera italiana che debbano
attraversare spazi marittimi internazionali a rischio di episodi di pirateria,
mediante l'imbarco a titolo oneroso e a richiesta degli armatori, di Nuclei
militari di protezione (NMP) della Marina, composti eventualmente anche di personale
delle altre Forze armate, dotati di armamento previsto per l'espletamento del
servizio. Il medesimo comma specifica inoltre come l'individuazione degli spazi
marittimi internazionali a rischio di pirateria avvenga tramite decreto del
Ministero della difesa sentiti i Ministri degli affari esteri e delle
infrastrutture e dei trasporti, valutate le indicazioni periodiche
dell'International Maritime Organization (IMO).
Il comma 2 precisa che al comandante di ciascun N.M.P. ed
al personale della marina militare da esso dipendente, siano attribuite in
relazione ai reati di pirateria di cui agli artt. 1135 e 1136 del codice della
navigazione (RD n. 327/1942) ed a quelli ad essi connessi ex art. 12 c.p.p. –
rispettivamente - le funzioni di ufficiale e di agente di polizia giudiziaria.
Si ricorda che l'art. 1135 cod. nav. punisce il reato di pirateria sanzionando
con la reclusione da 10 a 20 anni il comandante o l'ufficiale di nave nazionale
o straniera, che commetta atti di depredazione a danno di una imbarcazione
nazionale o straniera o del relativo carico, ovvero a scopo di depredazione
commetta violenze a danno di persone imbarcate.
L'art. 1136 cod. nav. (nave sospetta di pirateria) punisce con la
reclusione da 5 a 10 anni il comandante o l'ufficiale di nave nazionale o
straniera, fornita abusivamente di armi, che navighi senza essere munita delle
carte di bordo.
Per entrambi i reati la pena è diminuita di 1/3 per gli altri componenti
dell'equipaggio e della metà per gli estranei presenti a bordo.
Il comma 2 estende, inoltre, l’applicazione al citato personale militare:
- dell’art. 5 comma 1, del DL 209/2008, ovvero la disciplina del codice
penale militare di pace; la competenza territoriale, a fini
processuali, del tribunale militare di Roma; l’arresto obbligatorio
in flagranza per una serie specifica di reati militari prevista dallo
stesso codice nonché le condizioni di efficacia dell’arresto e le modalità
dell’interrogatorio del militare;
- dell’articolo 4, commi 1-sexies e 1-septies, del D.L. 152/2009 cioè
l’applicazione della scriminante (causa di non punibilità) a
favore del militare che, nel corso delle missioni internazionali, in
conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini
legittimamente impartiti, faccia uso ovvero ordini di fare uso delle armi,
della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle
operazioni militari; è fatta, tuttavia, fatta salva l'applicabilità delle
disposizioni sui delitti colposi ove si eccedano per colpa i limiti posti dalla
legge, dalle regole di ingaggio o dagli ordini ricevuti.
Il comma 3 dispone che, per la fruizione dei servizi di
protezione mediante i Nuclei militari di protezione, gli armatori provvedano al
ristoro dei relativi oneri, comprensivi delle spese per il personale di cui al
comma precedente e di quelle necessarie per le convenzioni stipulate ai sensi
del comma 1. Le somme devono essere corrisposte mediante versamenti all'entrata
del bilancio dello Stato, riassegnati entro sessanta giorni ai relativi
capitoli di previsione della spesa del Ministero della difesa, in deroga a
quanto previsto dalla legge finanziaria 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244,
articolo 2, commi 615, 616 e 617) in materia di iscrizioni di stanziamenti
negli stati di previsione dei Ministeri.
Il comma 4 stabilisce che nell'ambito delle attività
internazionali di contrasto della pirateria e della partecipazione di personale
militare alle operazioni di cui all'articolo 4, comma 13, del presente decreto,
nei casi in cui non sono previsti i servizi di protezione di cui al precedente
comma 1, l'impiego di guardie giurate a bordo delle navi mercantili battenti
bandiera italiana che transitano in acque internazionali individuate con il
decreto di cui al comma 1, a protezione delle stesse e nei limiti di cui ai
successivi commi 5, 5-bis e 5-ter.
Ai sensi del successivo comma 5, il suddetto impiego è
consentito esclusivamente a bordo delle navi predisposte per la difesa da atti
di pirateria, mediante l'attuazione di almeno una delle vigenti tipologie
ricomprese nelle "best management practices" di autoprotezione
del naviglio definite dall'International Maritime Organization (IMO),
nonché autorizzate alla detenzione delle armi ai sensi del comma 5-bis,
attraverso il ricorso a guardie giurate individuate tra quelle che abbiano
prestato servizio nelle Forze armate, anche come volontari, con esclusione dei
militari di leva, e che abbiano superato i corsi teorico-pratici previsti ex
lege. Successive modifiche legislative hanno previsto che “fino al 30
giugno 2014 possono essere impiegate anche le guardie giurate che non abbiano
ancora frequentato i predetti corsi teorico-pratici, a condizione che abbiano
partecipato per un periodo di almeno sei mesi, quali appartenenti alle Forze
armate, alle missioni internazionali in incarichi operativi e che tale
condizione sia attestata dal Ministero della difesa”.
Il comma 5-bis stabilisce che Il personale di cui
al comma 4, nell'espletamento delle attività di contrasto alla pirateria entro
i limiti territoriali delle acque internazionali a rischio, può utilizzare le
armi comuni da sparo, nonché le armi in dotazione delle navi, appositamente
predisposte per la loro custodia, detenute previa autorizzazione del Ministro
dell'interno rilasciata all'armatore ai sensi dell'articolo 28 del T.U.L.P.S.,
rilasciata anche per l'acquisto, il trasporto e la cessione in comodato al
medesimo personale di cui al comma 4. Successive modifiche legislative
hanno previsto che “con le medesime autorizzazioni possono essere autorizzati
anche l'imbarco e lo sbarco delle armi a bordo delle navi di cui al comma 5,
nei porti degli Stati le cui acque territoriali sono confinanti con le aree a
rischio di pirateria individuate con il decreto del Ministro della difesa, di
cui al comma 1.”
Il comma 5-ter rinvia ad un successivo
decreto del Ministro dell'interno, da adottare entro il 31 marzo 2012 di
concerto con i Ministri della difesa e delle infrastrutture e dei trasporti, la
definizione delle modalità attuative dei commi 5 e 5-bis, comprese quelle
relative all'imbarco e allo sbarco delle armi, al porto e al trasporto delle
stesse e del relativo munizionamento, alla quantità di armi detenute a bordo
della nave e la loro tipologia, nonché ai rapporti tra il personale di cui al
comma 4 ed il comandante della nave durante l'espletamento dei compiti di cui
al medesimo comma.
Infine, il comma 6-bis novella l’articolo 111 del
Codice dell’ordinamento militare, estendendo anche al contrasto alla pirateria
i compiti della Marina Militare a tutela degli interessi nazionali al di là del
limite esterno del mare territoriale..
CRONOLOGIA
DEGLI AVVENIMENTI
Il 15 febbraio 2012, al largo delle coste indiane del Kerala
(Stato sud-occidentale dell’Unione Indiana), nel Mar Arabico, la petroliera
italiana Enrica Lexie ha incrociato un’imbarcazione non
identificata, che procedeva nella sua direzione senza rispettare l’alt intimato
dai segnali luminosi del mercantile italiano, che rappresentano un codice di
comunicazione tra navi, necessario per identificarsi a distanza in quelle acque
ad alto rischio pirateria.
L’area rientra infatti in una delle zone ad alto rischio pirateria,
individuata già nel 2011 dall‘International Transport Workers Federation (ITF)
nel tratto che va dalle coste somale verso est, sino al meridiano 76 e verso
sud al parallelo 16, e quindi in acque internazionali direttamente
confinanti con le acque territoriali indiane. Nelle aree ad alto rischio
pirateria: i mercantili sono invitati ad adottare le misure di autoprotezione
raccomandate dall’Organizzazione marittima internazionale (IMO); i
marittimi imbarcati percepiscono un raddoppio delle indennità giornaliere e gli
armatori pagano premi di assicurazione maggiorati.
Nel corso dell’episodio i fucilieri di marina del reggimento San
Marco imbarcati sulla Enrica Lexie, con compiti anti
– pirateria, hanno esploso alcuni colpi di avvertimento per mettere in fuga
l’imbarcazione sospetta.
Successivamente il peschereccio indiano St. Anthony, con
undici uomini di equipaggio, rientrava nel porto di Kochi (sulla medesima costa
del Kerala), con due marittimi uccisi da diversi colpi di arma da fuoco.
Le autorità del Kerala invitavano, con un pretesto, la Enrica Lexie a
rientrare a Kochi e procedevano all’arresto di due marò del
reggimento San Marco, il sergente Salvatore Girone ed il capo di
prima classe Massimiliano Latorre, accusandoli di aver ucciso i due
pescatori.
L’avvio delle trattative
diplomatiche
La linea sostenuta sin dall’origine dal Governo italiano è che l’episodio
incriminato sia avvenuto in acque internazionali (dove vige il
diritto dello Stato la cui nave batte bandiera) e che i due marò in quel
momento stessero esercitando funzioni di militari in missione
all’estero e che dunque agissero per conto dello Stato italiano; in
tale veste essi pertanto godono dell’immunità della giurisdizione
rispetto agli Stati stranieri.
D’altra parte, lo Stato del Kerala ha da subito
considerato il fatto di propria competenza, in quanto i due pescatori uccisi
erano di nazionalità indiana; il Governo centrale indiano ha
avuto pertanto, all’inizio, uno strettissimo margine di manovra, a causa della
autonomia delle autorità locali e dell’indipendenza della magistratura rispetto
al potere politico.
Il sottosegretario agli Affari esteri pro tempore Staffan
De Mistura ha garantito una continua presenza in loco ed
è stato impegnato in lunghe trattative con le autorità indiane ogni volta che
si presentavano nuovi sviluppi sulla vicenda.
Il 5 marzo, tre
settimane dopo la morte dei due pescatori, Massimiliano Latorre e
Salvatore Girone sono stati trasferiti dal carcere di Trivandrum alla
Borstal School di Kochi. Il sottosegretario De Mistura si è opposto
con forza alla reclusione dei due militari italiani in un centro di detenzione
per detenuti comuni, trattando con il direttore del carcere per ottenere una
soluzione più adeguata.
Tre settimane dopo il fermo della Enrica Lexie nel porto
di Kochi, anche l’Unione europea, nella figura dell’Alto Rappresentante per la
politica estera, si è decisa a schierarsi a supporto dell’Italia nella sua
azione diplomatica per giungere, secondo le parole di Catherine Ashton,
“ad una soluzione soddisfacente”.
Il G8 che si è svolto
a Washington nell’aprile 2012 (due mesi dopo la morte dei due
pescatori indiani) ha poi riaffermato, nel suo documento finale, il principio
che attribuisce alla bandiera delle navi il diritto di giurisdizione in caso di
incidente in acque internazionali: un endorsement formale alla
posizione sostenuta dall’Italia nel negoziato con l’India, correlato dalla
firma degli otto ministri degli esteri.
A fine aprile 2012, il ministro degli esteri Terzi dichiarava
di aver ottenuto l’appoggio di una ventina di paesi di ogni parte del mondo,
che erano intervenuti presso l’India per favorire una soluzione del braccio di
ferro diplomatico.
L’azione diplomatica dell’Italia ha registrato un momento di tensione
quando, nel giugno 2012, sono state formalizzate le accuse
per i due marò da parte delle autorità del Kerala: omicidio, tentato
omicidio, associazione a delinquere e danneggiamento. A seguito dei gravi capi
di imputazione, l’Italia ha adottato la linea dura (secondo alcuni voluta da
Staffan De Mistura), ovvero richiamare in patria per “consultazioni”
l’ambasciatore italiano in India Giacomo Sanfelice.
La diplomazia italiana ha poi ripreso la strategia collaborativa
conseguendo un primo risultato positivo, quando il 30 maggio 2012,
dopo 82 giorni di detenzione, i due militari italiani sono stati
rilasciati su cauzione.
Le prime iniziative
internazionali promosse dall’Italia
Alla fine di ottobre, il ministro Terzi ha preso contatti con
il nuovo ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid (musulmano
di 59 anni, esponente del Partito del Congresso), sottolineando l’urgenza di
una soluzione positiva del caso che vede coinvolti i due fucilieri della Marina
militare.
L’Italia ha portato il caso anche all’attenzione del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu, a margine della riunione delle Nazioni Unite per
l’accordo sull’estensione del protocollo di Kyoto, che si è svolta nel dicembre
2012 a Doha.
Nel frattempo sono arrivati due segnali distensivi da Nuova Delhi: il primo
è che, il 20 dicembre 2012, il tribunale di Kollam ha
nuovamente rinviato il processo, in attesa del verdetto della Corte
Suprema di Nuova Delhi sulla giurisdizione del caso, ed ha
concesso una licenza di due settimane per Natale, su cauzione e con
dichiarazione giurata, per i due marò, che hanno così potuto
trascorrere le festività in patria con le loro famiglie (sono rientrati in
India il 3 gennaio).
Il secondo è stato la pronuncia della Corte suprema indiana del 19
gennaio 2013, che ha negato la giurisdizione alla Corte del Kerala sul
caso, e ha disposto la creazione di un tribunale speciale, costituito in
coordinamento dal governo e dalla stessa Corte suprema, a Nuova Delhi, per esaminare
la questione della giurisdizione (indiana o italiana).
I giudici hanno stabilito l'incompetenza dello Stato del Kerala che "non aveva
giurisdizione" per intervenire, dato che "il fatto non era
avvenuto nelle acque territoriali indiane", anche se la Corte ha
ribadito che, nel loro servizio sulla Enrica Lexie, "i marò non
godevano di quella immunità sovrana" che avrebbe determinato
automaticamente la giurisdizione italiana.
Il risultato della “de-keralizzazione” è stato significativo poiché in
quello Stato si era venuta a creare una certa pressione mediatica e
dell’opinione pubblica nei confronti dei marò, che avrebbe potuto influenzare
in maniera negativa lo svolgimento del processo.
Il 22 febbraio 2013, ai due marò viene
concesso nuovamente, dalla Corte suprema indiana, un permesso di
quattro settimane per tornare in Italia in occasione delle elezioni
politiche svoltesi il 24 e 25 febbraio 2013 e per poter trascorrere un periodo
di tempo con i loro familiari.
I fucilieri vengono in quei giorni interrogati dalla Procura
militare di Roma e indagati per i reati di violata consegna aggravata
e dispersione di oggetti di armamento militare in relazione ai fatti che nel
febbraio del 2012.
L’apertura della
controversia internazionale e lo svolgimento delle indagini in India
Il successivo 11 marzo, l'ambasciatore italiano a Nuova
Delhi Daniele Mancini dichiara che i due fucilieri di marina non
sarebbero tornati in India alla scadenza del permesso loro concesso,
sulla base di un decisione assunta d'intesa con i ministeri della Difesa e
della Giustizia e in coordinamento con la presidenza del Consiglio dei
ministri. La decisione è confermata dal Ministro degli Esteri Giulio Terzi.
Si apre quindi una controversia internazionale con l'India, poichè, come
riportato nella nota verbale della nostra Ambasciata, "l'Italia ha
sempre ritenuto che la condotta delle Autorità indiane violasse gli obblighi di
diritto internazionale gravanti sull'India in virtù del diritto consuetudinario
e pattizio, in particolare il principio dell'immunità dalla giurisdizione degli
organi dello Stato straniero e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite
sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982''.
Il 13 marzo il premier indiano Manmohan Singh minacciava
"seri provvedimenti", mentre il governo indiano annunciava
provvedimenti restrittivi della libertà di movimento dell’ambasciatore italiano
Mancini, negandogli la piena immunità e vietandogli di lasciare l’India.
La decisione italiana viene modificata pochi giorni dopo:
il 21 marzo 2013, infatti, il Governo decide di far ritornare i due
sottufficiali italiani in India dopo aver ottenuto garanzie sulla
tutela degli stessi, che saranno giudicati da un tribunale speciale indiano.
I due fucilieri di marina rientrano in India il 22 marzo,
accompagnati dal sottosegretario Staffan de Mistura, e vengono ospitati
nell'Ambasciata italiana a Delhi, con obbligo di firma settimanale in un
posto di polizia della capitale.
De Mistura dichiara di avere avuto la garanzia che non sarà applicata la
pena di morte, come confermato anche dal Ministro degli esteri indiano, ma
il Governo indiano precisa che non è stata data alcuna garanzia sulla sentenza;
il Sottosegretario ribadisce di avere un'assicurazione scritta del governo
indiano sulla non applicabilità della pena di morte nei confronti dei due
fucilieri.
Il 25 marzo i due militari rivolgono un appello alle forze
politiche, con una lettera aperta che chiede di unire le forze per risolvere
questo gravissimo caso internazionale.
In seguito alla decisione di far tornare in India i due marò, il 26
marzo, durante il dibattito parlamentare sulla questione svoltosi presso la
Camera dei deputati, il Ministro degli Esteri Giulio Terzi annuncia le
sue dimissioni, opponendosi alla decisione assunta dal Governo di
riconsegnare i due militari all’India.
Il Presidente del Consiglio Monti assume l’interim del
dicastero degli esteri il 27 marzo.
Il 30 marzo il Governo indiano annuncia l’affidamento
di nuove indagini all'Agenzia nazionale di investigazione (Nia), la polizia
federale indiana specializzata nei reati contro la sicurezza nazionale. I
legali dei due marò presentano ricorso contro la decisione, ma la Corte suprema
indiana non lo accoglie.
Il successivo 10 aprile il premier Singh
garantisce che il caso dei due fucilieri non rientra fra quelli che possono
comportare la pena capitale.
Il 3 maggio 2013 Staffan De Mistura viene nominato
inviato speciale presso il governo indiano per il caso dei marò da
parte del Governo Letta.
Il 9 agosto 2013 i due marò rifiutano di rilasciare
dichiarazioni alla NIA; il 16 settembre le autorità indiana
chiedono di poter interrogare gli altri quattro fucilieri presenti
all'incidente. Si apre un contenzioso tra il Governo italiano e quello indiano:
l’Italia si rifiuta di inviare i quattro militari e propone che l’eventuale
interrogatorio possa svolgersi in territorio italiano. La soluzione trovata è
quella di consentire l’interrogatorio in videoconferenza presso l’ambasciata
indiana a Roma, che avviene l’11 novembre, quando i
quattro militari vengono interrogati separatamente alla presenza di un
traduttore e di un team della NIA.
Gli sviluppi recenti
Il 13 novembre presso le Commissioni congiunte Esteri e
Difesa dei due rami del Parlamento si è svolta l’audizione del Commissario
straordinario del Governo per la questione dei due fucilieri «marò», dottor
Staffan de Mistura.
Il 30 novembre fonti della NIA affermano che l’Agenzia
avrebbe suggerito al Ministero dell'Interno di procedere all' incriminazione
di Latorre e Girone in base all'articolo 3 del SUA Act (The
Suppression of Unlawful Acts against Safety of Marittime Navigation
and Fixed Platforms on Continental Shelf Act, la legge adottata dal
legislatore federale indiano il 20 dicembre 2002 per dare esecuzione ad
un’omonima Convenzione internazionale firmata a Roma il 10 marzo 1988 dopo il
dirottamento della nave Achille Lauro), che prevede l’applicazione
della pena capitale.
L’ 8 gennaio 2014 l’Italia ottiene il rinvio al 30 gennaio
dell'udienza, in quanto la polizia indiana non ha ancora depositato il rapporto
frutto delle indagini svolte dallo scorso aprile.
Dal 10 gennaio si rincorrono voci sulla possibile applicazione della pena
capitale da parte delle autorità giudiziarie indiane.
Il 14 gennaio l'Italia decide di ricorrere alla Corte
suprema indiana per denunciare i gravi ritardi
nell'inchiesta e per contestare l’applicabilità del SUA Act che,
essendo uno strumento normativo di repressione del terrorismo
internazionale, è per ciò stesso totalmente inapplicabile al personale
militare italiano imbarcato in funzioni di lotta alla pirateria.
La protezione delle navi
commerciali dalla pirateria
La pirateria marittima è un vecchio crimine internazionale, che ha avuto improvvisamente una
recrudescenza a causa dell’instabilità politica di taluni Stati costieri e
specialmente della Somalia, il cui territorio è teatro di lotte intestine e di
una guerra civile prolungata.
Il principio fondamentale è comunemente rappresentato dal
detto “la terra domina il mare”, nel senso che se in terraferma
esiste un governo che fa rispettare la legge e l’ordine, altrettanto avviene
nelle acque prospicienti le sue coste, mediante la vigilanza della guardia
costiera che svolge un’adeguata opera di prevenzione e impedisce che bande
armate si dedichino a imprese piratesche.
La protezione della navigazione è innanzitutto affidata alle navi da guerra, che hanno il potere di esercitare la
polizia dell’alto mare e all’occorrenza catturare una nave pirata, sequestrarla
e consegnare i pirati alla propria autorità giudiziaria o a quella di un terzo
Stato.
La lotta alla pirateria può essere condotta da singole marine da guerra o
anche da flotte multinazionali. Ne costituiscono un esempio le operazioni
dell’Unione Europea (Operazione Atalanta), della Nato (Ocean
Shield) e altre come la Combined Task Force 151 a guida
USA di stanza a Bahrain. Altre marine da guerra operano singolarmente in Oceano
indiano, incluse le marine russe e cinese.
Una nave militare non può entrare nelle acque territoriali altrui senza il
consenso dello Stato costiero o l’autorizzazione del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Il Cds ha adottato numerose
risoluzioni che hanno autorizzato l’intervento nelle acque territoriali somale,
e in tal modo hanno supplito alla mancanza di effettività del governo
transitorio somalo, che aveva dato il consenso alle operazioni marittime.
La protezione del naviglio commerciale può essere effettuata anche da
personale armato a bordo della nave. La differenza fondamentale rispetto alla protezione affidata alle
navi da guerra consiste nel fatto che solo le navi da guerra possono dare la
caccia ai pirati.Il personale armato a bordo dei mercantili può solo
esercitare il diritto di legittima difesa per far fronte ad un attacco
piratesco. L’imbarco di personale armato a bordo di navi commerciali, in un
primo tempo visto con sfavore dall’Organizzazione marittima internazionale
(IMO), ha finito per essere accettato anche su pressione delle associazioni
armatoriali. Il calo degli incidenti pirateschi è dovuto non solo alla presenza
di flotte multinazionali, ma anche al ruolo svolto dal personale armato a bordo
dei mercantili.
Il personale può appartenere a due categorie: personale civile (guardie armate o contractor) e
personale militare. La scelta dipende dalla legislazione dello Stato della
bandiera. Taluni Stati consentono solo l’imbarco di personale civile, altri di
personale militare. Esistono sistemi duali, come quello italiano che consente
l’imbarco di personale militare e, in mancanza, di personale civile.
Lo sforzo congiunto ha portato alla diminuzione degli attacchi pirateschi:
dai 406 verificatisi nel 2009 sono scesi a circa 206 nel 2013.
La localizzazione
dell’incidente e lo svolgimento del processo
L’incidente della Enrica Lexie (E.L.) si è verificato al
largo delle coste indiane del Kerala il 15 febbraio 2012 . La nave battente
bandiera italiana, proveniente da Singapore, era diretta a Gibuti ed aveva a
bordo un team di sei fucilieri di marina (Marò appartenenti al Battaglione San
Marco).
Secondo la versione italiana dell’incidente, un’imbarcazione non
identificata si stava avvicinando alla E.L. nonostante i segnali visivi con
ripetuti flash. Dalla E.L. sono state mostrate le armi e quindi sparate
raffiche di avvertimento, non con l’intenzione di colpire la nave, ma in acqua.
Quella che era stata scambiata per una nave pirata era in realtà una nave da
pesca, il St Anthony, che si allontanava dopo i tiri partiti dalla
E.L. Due pescatori rimanevano uccisi, fatto ignorato dall’equipaggio della E.L.
A quanto sembra nella zona incrociavano altre navi, trattandosi di una rotta
affollata e, sempre da parte italiana, è stato ingenerato il dubbio che i colpi
letali fossero partiti da un’altra nave.
L’India ha istituito sia una Zona contigua (ZC) sia
una Zona economica esclusiva (ZEE). Al momento dell’incidente
la E.L. si trovava a 22.5 miglia marine dalla costa dell’India.
Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos,
nell’acronimo inglese), che ripete sul punto la Convenzione di Ginevra sul mare
territoriale e il diritto internazionale consuetudinario, lo Stato
costiero esercita sulla zona contigua adiacente al proprio mare territoriale
solo poteri funzionali per prevenire e reprimere violazioni alle proprie leggi
in materia doganale, fiscale, sanitaria e d’immigrazione. A tutti gli altri
effetti, e quindi anche per quanto riguarda la lotta alla pirateria, la
Zona contigua è una zona di alto mare.
La E.L. fu attirata nel porto indiano di Kochi con una “smart move”
(versione indiana), essendo stata richiesta di identificare pirati catturati
dalla guardia costiera indiana. I due fucilieri di marina sottoposti a processo
in India (Massimiliano Latorre e Salvatore Girone) facevano parte di unteam di
sei militari, di cui quattro sono rientrati in Italia, dopo che alla nave,
su ricorso dell’armatore, era stato consentito di rientrare in Italia in
seguito ad una sentenza della Corte Suprema indiana del 2 maggio 2012, di
annullamento di una decisione contraria dell’Alta Corte del Kerala.
Per ottenere la liberazione dei due marò, il Governo italiano aveva fatto
ricorso all’ Alta Corte del Kerala, che nella sentenza del 29
maggio 2012 rigetta l’istanza, volta a contestare la giurisdizione indiana sul
caso. Contro la sentenza dell’Alta Corte del Kerala, il governo presenta un
ricorso alla Corte suprema di Nuova Delhi, che emette la sentenza il
18 gennaio 2013.
La decisione è sfavorevole alle tesi italiane, ma si registra un parziale
successo nella rimozione del processo dai tribunali del Kerala. La Corte Suprema afferma che nelle acque
in cui è avvenuto l’incidente (ZC e ZEE) lo Stato del Kerala non ha
giurisdizione, potendo essa essere esercitata fino al limite della acque
territoriali (cioè sino al limite delle 12 miglia), mentre secondo la Corte
Suprema l’incidente è avvenuto a 20,5 miglia dalla costa. Oltre le acque
territoriali, la giurisdizione appartiene all’Unione Indiana e non ad un suo
Stato componente. Viene pertanto statuito che il procedimento penale in corso
presso il Tribunale di Kollam (Stato del Kerala) nei confronti
dei Marò deve terminare e che dovrà essere istituita una Corte
speciale per giudicare il caso, presso cui potrà
essere risollevata la questione della giurisdizione.
La sentenza della Corte
suprema indiana
La difesa italiana, sostenuta davanti all’Alta Corte del Kerala e
successivamente riproposta davanti alla Corte Suprema dell’India a Nuova Delhi,
è fondata su due argomenti principali: 1) l’immunità funzionale dei
militari imbarcati sulla E.L., in quanto organi dello Stato; 2) la
localizzazione in alto mare dell’evento che avrebbe causato la morte
dei pescatori indiani, a supporre che effettivamente la morte sia imputabile ai
due Marò, come sostenuto dall’accusa.
Quanto al primo punto, si è prospettata la tesi secondo cui i due militari italiani,
essendo organi dello Stato italiano cui la legge attribuisce funzioni di
ufficiali di polizia, godono di immunità funzionale, svolgendo
un’attività pubblica, incentrata sulla lotta alla pirateria, in conformità alle
risoluzioni delle Nazioni Unite.
Quanto al secondo, la tesi italiana è che si sarebbe trattato di un “incidente della
navigazione” occorso in alto mare, incidente che ricade sotto la giurisdizione
dello Stato della bandiera della nave che lo ha provocato (art. 97
Unclos). È stato anche precisato che l’ingresso della nave italiana nel
porto di Kochi è avvenuto con l’inganno, essendo stato il comandante della
nave richiesto di identificare il naviglio dei pirati che si trovava nel luogo
dell’incidente.
Da parte indiana si è invece argomentato che la nave italiana era una nave
commerciale e non una nave da guerra o adibita a servizio pubblico. Inoltre i Marò prestavano servizio a
favore dell’armatore, tanto che il soldo era a suo carico (mentre in realtà
l’armatore corrisponde le spese direttamente al Ministero della difesa).
Essi pertanto, sempre secondo l’India, non avrebbero potuto godere di immunità
alcuna. Si è inoltre affermato che l’incidente è avvenuto fuori delle acque
territoriali, ma pur sempre nella Zona contigua indiana, che si estende per
ulteriori 12 miglia oltre il limite esterno delle acque territoriali. Sarebbe
stato quindi inapplicabile l’art. 97 della Convenzione del diritto del mare,
che riguarda l’alto mare stricto sensu.
Le criticità della sentenza della Corte suprema
L’art. 97 Unclos assoggetta alla giurisdizione dello Stato della bandiera
le collisioni e qualunque altro incidente della navigazione avvenuto in alto
mare. Si può anche contestare che il caso della Lexie, che
chiaramente non è un caso di collisione, non sia ricompreso tra “ogni altro
incidente della navigazione”, ma non si può certamente dire che l’art.
97 non sia applicabile nella zona contigua, essendo questa una zona di alto
mare a tutti gli effetti, tranne che per gli speciali poteri attribuiti
allo Stato costiero, tra i quali, come si è visto, non rientrano quelli
esercitabili in occasione di incidenti del genere della E.L..
Tra l’altro è stata proposta in dottrina una interpretazione evolutiva
dell’art. 97, secondo cui per incidente della navigazione potrebbe intendersi
anche un incidente causato dalla difesa contro supposti attacchi pirateschi.
La questione dell’immunità non è stata adeguatamente esaminata dai giudici
della Corte Suprema, che hanno elegantemente schivato la questione, limitandosi a riassumere
le argomentazioni sull’immunità prospettate dai difensori dell’Italia e dei due
marò e le controdeduzioni degli avvocati dell’Unione indiana e del
Kerala. Hanno solo rimarcato l’applicabilità del codice penale indiano alla
fattispecie, affermando peraltro anche l’applicabilità dell’art. 100 UNCLOS,
senza aggiungere alcuna precisa delucidazione sulla portata della disposizione
sul caso in esame.
L’immunità funzionale
E’ bene precisare in cosa consistano natura e fondamento dell’immunità
funzionale, poiché si fa spesso
confusione tra immunità funzionale, immunità personale e immunità dello Stato
estero dalla giurisdizione. Prova ne sia l’intervento dell’avvocato dell’Unione
indiana dinanzi alla Corte suprema, così come riassunto da uno dei giudici, che
ha citato la Convenzione di Vienna sulle immunità diplomatiche, quella delle Nazioni
Unite sull’immunità giurisdizionale dello Stato ed il caso Pinochet.
La distinzione tra immunità personale e immunità funzionale è nozione
acquisita in diritto internazionale. La prima appartiene ad una determinata categoria di persone, come i Capi
di Stato, di Governo, e i Ministri degli Affari Esteri Un’altra
categoria di persone che gode di immunità personale è costituita dai capi della
missione diplomatica. L’immunità personale copre gli atti compiuti nella
capacità personale, cioè al di fuori dell’esercizio delle funzioni dell’organo,
e dura solo per il periodo in cui l’individuo è investito di quella particolare
carica.
Al contrario l’immunità funzionale deriva dal principio secondo cui l’atto
è compiuto dall’organo per conto dello Stato per cui esercita le funzioni. Il disconoscimento dell’immunità
funzionale comporta la violazione della sovranità e indipendenza dello Stato
estero. Se l’atto compiuto dall’organo equivale alla commissione di un
illecito internazionale, solo lo Stato per cui l’organo agisce è responsabile.
Nel qual caso viene in considerazione il principio dell’immunità dello Stato
dalla giurisdizione, qualora lo Stato sia convenuto in giudizio di fronte ai
tribunali di uno Stato estero.
Lo Stato sarà immune dalla giurisdizione locale solo se l’attività in
questione possa essere qualificata come atto iure imperii (cioè manifestazione della sovranità dello
Stato). In questo caso, la responsabilità dello Stato potrà essere fatta valere
secondo i normali principi del diritto della responsabilità internazionale e lo
Stato il cui cittadino sia stato danneggiato potrà intervenire a suo favore
(c.d. protezione diplomatica). La distinzione tra immunità personale,
immunità funzionale e immunità dello Stato estero dalla giurisdizione è dunque
ben articolata in diritto internazionale.
Il punto, che potrebbe sembrare ostico, dovrà essere adeguatamente ribadito
e illustrato dalla difesa italiana non appena il processo sarà riassunto
davanti alla Corte speciale. Tra l’altro, della questione si stanno occupando le Nazioni Unite, a
livello del suo massimo organo codificatorio: la Commissione del diritto
internazionale.
Inoltre, a supporre che sia accettabile il ragionamento dell’India, secondo
cui l’immunità non spetterebbe a organi stranieri non ammessi in territorio
indiano con il suo consenso, tale ragionamento risulterebbe inapplicabile nel
caso concreto poiché l’incidente non è avvenuto in territorio indiano, ma nella zona contigua che, ai nostri
fini, deve essere considerata una zona di alto mare.
Il prof. Rüdiger Wolfrum, che è anche giudice
presso il Tribunale internazionale del diritto del mare, in un
recente rapporto, pubblicato anche sotto forma di articolo scientifico, ha
affermato che i militari imbarcati su navi commerciali in servizio
antipirateria, godono di immunità funzionale in alto mare.
Il problema
dell’applicazione del SUA Act
L’India, al pari dell’Italia, è parte della Convenzione per la
soppressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione
marittima (SUA, nell’acronimo inglese), conclusa a Roma nel 1988 sotto
gli auspici dell’IMO.
Secondo la Convenzione, le parti sono obbligate ad adottare una
legislazione volta a considerare come reati gli atti illeciti previsti dalle
sue disposizioni e a stabilire le relative pene. Gli atti illeciti condannati dalla SUA
sono stati inclusi tra i reati del codice penale indiano e per quelli più gravi
è prevista la pena di morte. La Convenzione si applica alle navi che navigano
oltre il limite delle acque territoriali di un solo Stato, o nei limiti
laterali del mare territoriale di uno Stato con gli Stati adiacenti.
Uno Stato può stabilire la propria giurisdizione per reati commessi contro
una propria nave o contro persone a bordo della nave. I reati previsti
includono gli atti di violenza contro persone a bordo della nave, qualora
l’atto di violenza metta in pericolo la sicurezza della navigazione o ferisca o
uccida una persona, e presenti una connessione con gli atti illeciti previsti
dalla Convenzione.
L’Alta Corte del Kerala ha ritenuto la SUA applicabile all’incidente della
E.L. e dallo stesso presupposto sono partite le autorità indiane che, dopo la
sentenza della Corte Suprema, hanno affidato le indagini alla NIA (National Investigation Agency),
che è la polizia speciale cui competono le indagini antiterrorismo.
Tuttavia la SUA non è applicabile al caso in esame, quantunque talune
risoluzioni del Consiglio di sicurezza sulla lotta alla pirateria in Somalia
richiamino gli obblighi derivanti dalla SUA. I lavori preparatori ed il preambolo della
Convenzione attestano infatti che lo strumento convenzionale fu concluso per
combattere il terrorismo internazionale.
La SUA trae origine dall’incidente dell’Achille Lauro, il transatlantico
dirottato in Mediterraneo da un commando di terroristi palestinesi (1985), ed
appartiene al novero delle convenzioni internazionali settoriali antiterrorismo.
Fino ad allora erano state stipulate convenzioni contro il terrorismo aereo e
dopo l’Achille Lauro si volle redigere una convenzione anche contro il
terrorismo marittimo. I negoziatori avevano ben chiaro che la Convenzione non
era diretta a disciplinare la pirateria né ogni altro atto connesso con questo
crimine.
Indipendentemente dal considerare la SUA applicabile a reati commessi
quando si interviene contro atti di pirateria, l’altro punto da considerare è
se la Convenzione trovi applicazione nel caso in cui l’atto sia stato commesso
da un organo dello Stato. La SUA non si applica alle navi da guerra e assimilate (art. 2), ma
niente è detto a proposito di organi statali a bordo di altre categorie di
navi. Il punto è ora chiarito dall’art. 3 del Protocollo addizionale
alla SUA del 2005, che espressamente esclude dall’applicazione della SUA “the
activities undertaken by military forces of a State in the exercise of their
official duties, inasmuch as they are governed by other rules of international
law”.
Il Patto
internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 9)
Tanto l’Italia quanto l’India hanno ratificato il Patto internazionale sui
diritti civili e politici del 1966, il cui art. 9, par. 3, contiene un preciso obbligo in materia di processo
penale. Tale paragrafo così recita :
“Chiunque sia arrestato o detenuto in base ad un'accusa di carattere
penale deve essere tradotto al più presto dinanzi a un giudice o ad altra
autorità competente per legge ad esercitare funzioni giudiziarie, e ha diritto
ad essere giudicato entro un termine ragionevole, o rilasciato”.
Nel General Comment No 8 adottato dal Comitato dei diritti
dell’uomo il 30 giugno 1982 si legge:
“Paragraph 3 of article 9 requires that in criminal
cases any person arrested or detained has to be brought ‘promptly’ before a
judge or other officer authorized by law to exercise judicial power. More
precise time limits are fixed by law in most States parties and, in the view of
the Committee, delays must not exceed a few days”.
L’India è chiaramente in violazione della disposizione. E’ ormai trascorso
oltre un anno dalla sentenza della Corte Suprema e i capi d’imputazione non
sono stati ancora formulati, con la conseguenza che il processo davanti alla
Corte speciale non ha potuto avere inizio. La formulazione dei capi
d’imputazione e la traduzione davanti all’autorità giudiziaria è una questione
di “pochi giorni” secondo l’interpretazione del Comitato, premessa necessaria
affinché il processo possa concludersi entro termini ragionevoli; altrimenti il
preteso reo deve essere rilasciato.
Il Trattato Italia-India
sul trasferimento delle persone condannate
Tra Italia e India è stato concluso il 10 agosto 2012 un Trattato sul
trasferimento delle persone condannate, entrato in vigore il 1° aprile 2013. Il Trattato Italia-India è uno dei tanti conclusi dall’Italia sia in
ambito multilaterale (ad es. Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983
adottata nel quadro del Consiglio d’Europa) sia in ambito bilaterale. Ci sono
in India 18 italiani detenuti a fronte di 108 cittadini indiani che debbono
scontare la pena in Italia.
Ma una spinta alla conclusione dell’accordo è stata la questione dei due
fucilieri di marina ed il timore che la magistratura indiana decidesse, come
poi in fatto è avvenuto, che l’incidente della E.L. ricadesse sotto la
giurisdizione indiana. Una sorta di assicurazione per i due fucilieri
di marina trattenuti in India, come è stato detto durante il dibattito
parlamentare di autorizzazione alla ratifica, quando ancora non era stato
ventilato lo spettro della pena di morte.
In effetti il Trattato prevede il trasferimento del condannato allo
Stato richiedente, sempre che il condannato non abbia manifestato una
volontà contraria. Lo Stato ricevente deve continuare l’esecuzione della
condanna inflitta dallo Stato trasferente, ma può adeguare la pena a quella
prevista per lo stesso reato nell’ordinamento dello Stato ricevente.
L’art. 11 consente anche provvedimenti di clemenza, poiché ciascun Stato
contraente può accordare la grazia, l’amnistia o l’indulto conformemente alle
proprie leggi. Vi sino però due condizioni per il trasferimento del
condannato. La sentenza che lo riguarda deve essere definitiva e quindi può
accadere che una volta condannato in primo grado il reo non possa essere
trasferito se questi o l’accusa proponga appello. Inoltre (e si tratta di
condizione di non poco momento) il trasferimento è subordinato
all’accordo in tal senso tra Stato trasferente e Stato ricevente (art.
4). In ogni caso il detenuto non può essere trasferito nelle more del
giudizio.
Il ricorso ad una
giurisdizione internazionale
Il ricorso ad una giurisdizione internazionale comporta naturalmente dei
margini di rischio, poiché non è facile anticipare l’esito del procedimento. Nel momento più
acuto della crisi Italia-India, il governo italiano, tramite
una nota del MAE, aveva proposto di risolvere la
controversia mediante un procedimento giudiziale o arbitrale.
Ma tale opzione non è stata più riproposta e l’Italia ha preferito
contestare la giurisdizione indiana nel giudizio dinanzi alla Corte Suprema.
Tattica processuale che seguirà anche dinanzi al Tribunale speciale. La strada della giurisdizione
internazionale è irta di ostacoli e presenta problemi tecnici che non
è possibile affrontare in questa nota.
In breve le opzioni sono tre: Corte internazionale di giustizia dell’Aja, Tribunale
internazionale del diritto del mare (Amburgo), Arbitrato ad
hoc. L’attivazione di una delle tre corti dipende, nel caso concreto,
da un compromesso arbitrale, che determini l’oggetto della controversia su cui
la corte o tribunale deve giudicare.
Il punto è importante. Infatti la corte o tribunale dovrebbe giudicare su tutte le questioni di
diritto internazionale che il caso dell’E. L. solleva, inclusa quella
dell’immunità funzionale, che, a nostro parere, costituisce uno dei più solidi
argomenti a favore delle ragioni italiane.
Ad es. se la controversia fosse portata dinanzi al Tribunale del diritto
del mare, si potrebbe correre il rischio che il Tribunale si dichiarasse
competente per dirimere la questione della giurisdizione dello Stato della
bandiera in alto mare, ma incompetente per quanto riguarda la questione
dell’immunità funzionale. Resta il problema di non poco conto della
Convenzione SUA, la quale prevede il ricorso ad un arbitrato ad hoc e,
in caso di disaccordo sull’organizzazione dell’arbitrato, l’attivazione della
Corte internazionale di giustizia (art. 16). Ma l’India, al momento del
deposito della ratifica, ha formulato una riserva a tale disposizione.
Le opzioni attualmente
aperte
L’Italia ha finora seguito due strade: una a livello dei tribunali indiani,
l’altra a livello diplomatico. Occorre rafforzare le difese messe in
campo, qualora s’intenda proseguire sul percorso finora tracciato.
a) Il livello giurisdizionale indiano
L’Italia ha deciso di difendersi nel processo e non dal processo. Qualora s’intenda proseguire su questa
strada occorre:
1) Affermare
l’incompetenza dei tribunali indiani, poiché i due Marò godono dell’immunità dalla giurisdizione (immunità
funzionale). Il punto non è stato adeguatamente considerato dalla Corte Suprema
indiana, anche perché non rappresentato con sufficiente chiarezza e dovizia di
argomentazioni;
2) Rappresentare
la violazione dell’art. 9 del Patto sui diritti civili e politici del 1966, poiché le accuse non sono state ancora
formulate e la Corte speciale non ha ancora iniziato il
procedimento, nonostante sia trascorso un anno dalla Sentenza della Corte
Suprema;
3) Affermare
l’inapplicabilità della Convenzione SUA e di conseguenza della
legge di esecuzione indiana (SUA Act), poiché la Convenzione
disciplina il fenomeno “terrorismo marittimo”. Dato il rapporto organico che
lega i due Marò allo Stato italiano, applicare la SUA significherebbe accusare
l’Italia di atti di terrorismo marittimo, poiché gli atti dei due
Marò, anche se esorbitanti dall’esercizio delle loro funzioni (cioè ultra
vires), sono imputabili all’Italia;
4) Rappresentare
chiaramente che immunità funzionale non significa impunità. Qualora
ritenuti responsabili, i due Marò potrebbero essere giudicati in Italia dalla
magistratura ordinaria e da quella militare;
5) L’atto
dei due Marò è internazionalmente imputabile all’Italia. Essa ha
provveduto, sia pure ex gratia, a risarcire in modo cospicuo i
familiari delle vittime.
b) Sul piano diplomatico l’azione deve
continuare a livello sia bilaterale che multilaterale.
A livello bilaterale
Talune delle argomentazioni prospettate sub a) possono
essere riproposte anche a livello bilaterale. Esse dovrebbero essere
riaffermate al più alto livello governativo, anche insistendo sui doveri che
discendono dall’art. 100 dell’Unclos, che obbliga gli Stati ad esercitare la
massima collaborazione nella repressione della pirateria. L’imbarco di
personale armato a bordo dei mercantili si è rivelato un mezzo di contrasto
efficace e la vicenda dei due marò potrebbe indurre taluni Stati e gli
armatori a riconsiderare la questione, con un danno enorme per la lotta alla
pirateria.
A livello multilaterale
Occorre intensificare l’azione sia con i nostri alleati sia nei fori
multilaterali in cui l’Italia è presente, incluso l’UNODC (United
Nations Office on Drugs and Crime), che si occupa anche di
pirateria. Occorre ribadire i doveri derivanti dall’art. 100 Unclos e
l’inapplicabilità della Convenzione SUA, che praticamente porterebbero
all’assurda conclusione di accusare l’Italia di atti di terrorismo marittimo,
come si è poc’anzi precisato. Nei fori multilaterali finora le tesi italiane
hanno avuto scarso successo.
Nel dibattito in seno al Cds sulla pirateria nel novembre del 2012 solo
il Rappresentante dell’Unione europea si è espresso a favore delle tesi
italiane, posizione che tuttavia non è stata adeguatamente ripresa
successivamente all’interno dell’UE.
Occorre quindi rappresentare in seno alle Nazioni Unite che uno Stato come
l’India, che aspira ad un seggio permanente in seno al Cds nella riforma delle
Nazioni Unite, non può ostacolare gli Stati che, come l’Italia, hanno dato e
stanno dando un contributo fondamentale alla lotta alla pirateria. Un’azione che può essere perseguita,
quantunque l’Italia, nei lavori per la riforma del Cds, si trovi su posizioni
opposte a quelle indiane.
E’ necessario anche chiedere un intervento del Segretario Generale delle Nazioni
Unite, che può essere
decisivo per dipanare la matassa. Una menzione particolare merita l’Unione
europea. E’ essenziale che lady Ashton e gli altri organi competenti
dell’Unione prendano un’iniziativa incisiva e smettano di trincerarsi dietro la
scusa che la questione dei marò è un affare bilaterale Italia-India.
Il proposito di bloccare le trattative in corso per un accordo di libero
scambio tra UE e India potrebbe essere una strada da percorrere, a condizione che la trattativa sia di
reale interesse per l’India. Ma l’iniziativa deve essere presa e
perseguita al più alto livello governativo, palesando chiaramente che
l’Italia si opporrà al perfezionamento dell’accordo quando questo approderà al
tavolo del Consiglio dell’Unione, qualora non venga risolta la questione dei
Marò. Negli ultimi giorni qualche passo è stato finalmente fatto in questa
direzione. Si prosegua con decisione su questa strada.
LA
POSIZIONE DEL GOVERNO ITALIANO SUL PIANO GIUDIZIARIO
A brevissima distanza temporale dall’arresto (19 febbraio 2012) dei due
militari, il Governo decise di rivolgersi all’Avvocatura dello Stato per
un affiancamento, anche con funzione di coordinamento, al team legale indiano
in modo da garantire iniziative giudiziarie comunque coerenti con l’azione del
Governo.
Sin dal giorno 8 marzo 2012 (giorno di inizio della prima missione in
India) l’Avvocatura dello Stato affidò il caso a un proprio team (allo
stato composto da tre Avvocati) coordinato dall’Avvocato dello Stato Carlo
Sica.
I rapporti tra i due team sono stati sempre, e sono tuttora, molto
collaborativi e positivi: le scelte di merito sono frutto di confronto costruttivo;
mentre, le scelte processuali sono, per evidenti ragioni di conoscenza
professionale, sostanzialmente demandate al team indiano.
Sul piano giudiziario, la posizione del Governo è stata quella
di:
1) negare la giurisdizione territoriale in ragione del
fatto che l’evento contestato è (sarebbe) accaduto alla distanza di 22,5 miglia
dalla costa indiana;
2) rivendicare l’immunità funzionale, sulla base della c.d.
“legge dello zaino”;
3) affermare la piena correttezza dell’operato dei due militari,
che – comunque – avrebbero agito nel pieno rispetto delle regole d’ingaggio;
4) processualmente, la scelta consigliata dal team indiano
è stata quella di non fare rendere dichiarazioni da parte dei due militari
all’autorità che conduceva le indagini (in India, le indagini sono condotte
dalla polizia – od organismo similare – senza intervento del giudice e senza
alcun diritto a favore della difesa. Ad es., la perizia balistica non ha visto
partecipare effettivamente i nostri esperti)
5) si è, altresì, ritenuto che:
a) il ricorso alla Corte internazionale di Giustizia avrebbe
richiesto un consenso ad hoc dell’India, che si è ritenuto
impensabile ottenere (anche l’Italia sinora non ha accettato la giurisdizione
obbligatoria della Corte);
b) alla medesima conclusione si è pervenuti per l’attivazione di
una procedura arbitrale volontaria di carattere generale;
c) il ricorso all’arbitrato di carattere obbligatorio previsto
dalla parte XV e dall’allegato VII dell’UNCLOS non è stato praticato sia per la
sua prevedibile lungaggine (non meno di 4 anni) sia per la sua natura
d’interpretazione della Convenzione senza possibilità di esame del caso
pratico.
In ragione della scelta di cui al punto 4, i due militari, nel rendere
dichiarazioni all’organo investigativo, si sono limitati a negare la
giurisdizione indiana senza rispondere ad alcuna domanda di merito.
Come noto, dopo la conclusione delle indagini da parte della Polizia del Kerala (che
aveva contestato il reato di omicidio volontario) e nel mentre si
era riusciti a rimuovere lo stato di detenzione in carcere per ottenere (dopo
un periodo di detenzione domiciliare) lo stato (tuttora vigente) di libertà
vigilata (i due militari non possono oltrepassare i confini della città di
Delhi; una volta a settimana devono presentarsi al posto di polizia; sono stati
privati del passaporto), in data 18 gennaio 2013 la Corte Suprema indiana ha
dichiarato la giurisdizione territoriale dell’Unione indiana, ma
non del Kerala con conseguente annullamento di tutte le indagini svolte (ad
eccezione della perizia balistica, perché effettuata da un organismo
nazionale).
La Corte ha, altresì, ordinato all’Unione indiana di individuare un nuovo
organismo per le indagini e ha individuato la Corte speciale per il giudizio di
merito: in un giudice monocratico metropolitano in caso di
contestazione di reato punito con pena inferiore nel massimo ai 7 anni; in un giudice
monocratico sovrametropolitano in caso di reato punito con pena
superiore nel massimo a i 7 anni.
La Corte ha, anche, precisato che il procedimento si sarebbe dovuto
concludere rapidamente, ribadendo questo input in un
successivo provvedimento dell’aprile 2013, reso in esito a un ricorso proposto
per lamentare che le indagini non erano ancora cominciate.
In esito, il Ministero dell’Interno indiano ha individuato l’organo
investigativo nella National Investigation Agency - NIA (organismo
nazionale deputato al perseguimento dei reati di terrorismo), che avrebbe
dovuto concludere le indagini a cavallo dell’estate 2013.
In realtà e nonostante le iniziative processuali e paraprocessuali
intraprese dal team legale indiano, le indagini – come
noto – non sono ancora concluse.
Con l’ultima iniziativa processuale si è tornati a lamentare
alla Corte suprema che:
a) nonostante il provvedimento della medesima Corte dell’aprile 2013, le
indagini non si erano ancora concluse;
b) nell’ipotesi (realistica) che la NIA intendesse contestare violazioni
del SUA ACT (sotto specie di reato di attentato alla navigazione), ciò non era
consentito perché, nelle sue precedenti pronunce, la Corte Suprema non aveva
ricompreso dette violazioni nei reati che potevano e dovevano essere oggetto
d’indagine;
c) ove, conseguentemente, la NIA non possa contestare dette violazioni,
nessun altro organismo indiano ha la possibilità di condurre indagini per fatti
commessi oltre le 20 miglia marine dalla costa indiana, onde il
procedimento va archiviato;
d) in ogni caso, in attesa degli sviluppi della vicenda, i due militari
devono poter ritornare in Italia con l’impegno di rientrare in India all’inizio
dell’eventuale processo.
Questo procedimento dinanzi la Corte Suprema è, allo stato, rinviato
all’udienza del 3 febbraio 2014 per le controdeduzioni
del General Attorney indiano.
(tratto da: Fonte)
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