Il bubbone Ilva è oramai esploso in tutta la sua virulenza. Una vicenda grottesca, complessa e drammatica, ma sintomatica del precario stato del nostro Paese, dove perdura uno Stato di illegalità. Stato con la esse maiuscola poiché è lo Stato stesso che alimenta l’illegalità.
L’Ilva
è stata a lungo l’Italsider pubblica, ossia una delle maggiori aziende
siderurgiche italiane del XX secolo e alla fine degli anni ottanta è
avvenuta la cessione a privati. Ha rappresentato la grande industria di
Stato e ne ha testimoniato dunque tutte le contraddizioni, atteso che la
scelta di favorire l’industria e l’occupazione, sacrificando l’ambiente e la salute
(in periodi in cui si aveva già la percezione della ricaduta negativa),
ha caratterizzato un certo socialismo produttivo. Questo percorso è
certo avvenuto in quasi tutti i paesi occidentali. Ma in molti di essi
si è posto rimedio già nei decenni passati quando lo sviluppo delle
tecnologie e della scienza ha saputo indicare i rimedi. Alla fine è
stata solo una mera scelta di costi, di prevenzione, di priorità e di
valutazione costi-benefici. Tanto più si era illuminati, tanto prima
tali valutazioni sono intervenute. Il cammino del progresso è stato costellato da migliaia di vittime ma la lungimiranza dell’uomo ha poi posto freno a tali sacrifici.
In
Italia si ha invece l’impressione che la grande industria inquinante
(pubblica e privata) abbia continuato imperterrita ad inquinare (dagli
anni dello sviluppo industriale sino ad oggi) con la compiacenza dello Stato legislatore (che spesso è intervenuto in ritardo rispetto alle direttive comunitarie, ovvero intervenendo all’italiana) e dei controllori,
per salvaguardare un generale interesse alla produttività. Il primo
legiferava in ritardo e male, il secondo controllava male o faceva finta
di controllare. Il primo veniva costantemente sanzionato dalla Comunità
europea, il secondo veniva depotenziato o scelto oculatamente per non
nuocere (l’Arpa, fragile ed evanescente).
Tutto ciò ha
creato nel tempo un sistema di dubbia legalità, sormontato da un velo di
ipocrisia che formalmente ha reso legali condotte che sostanzialmente
sono illegali. In breve, lo Stato ha donato un’aurea di legalità a
condotte palesemente illegali, in materia ambientale e di salubrità
ambientale, che altrove non sarebbero state consentite.
Questo
velo di illegalità (formalmente legale) è stato squarciato nel caso di
Taranto dalla Procura e saltuariamente in altre fattispecie da altre
Procure (si pensi ai Petrolchimici). Giova ricordare come non vi sia
alcun conflitto di poteri posto che in materia di salubrità ambientale
(e non) la Procura conserva il potere di intervenire dinanzi alla consumazione di reati. Così come conservano tale potere di intervento pure il giudice ordinario civile (inibendo le immissioni) e il giudice amministrativo
(rimuovendo gli atti illegittimi). Tali percorsi sono tuttavia
complessi e faticosi (ancorché percorribili e in molti casi
indispensabili) e attestano come la patologia non sia stata curata dallo
Stato, e anzi che in molti casi abbia svolto un ruolo concausale.
Il
grande polo siderurgico di Taranto ne è l’emblema. Passato nel 1995 al
Gruppo Riva, certamente già in condizioni di disastro ambientale, il
gruppo avrebbe comunque dovuto approntare le migliori tecnologie
disponibili per non inquinare. Se lo ha acquistato, immaginiamo dopo una
due diligence, è perché avrà avuto rassicurazioni che non
sarebbe stata disturbata più di tanto negli anni a seguire. Il pacioso
incantesimo si è interrotto solo grazie alla Procura.
La
gravissima situazione, palesata grazie al prezioso lavoro della Procura
tarantina offre un malmostoso groviglio tra irresponsabili negligenze
private e pubbliche, una commistione tra controllori e controllati, un
fitto familismo, un sistema di corruttela diffuso. Prevale in tutto ciò
solo la logica del profitto, ipocriticamente sostenuta dall’interesse
all’occupazione e alla siderurgia, in danno delle centinaia di morti (e
ammalati) che hanno pagato il prezzo più alto.
Taranto è al 107° posto per qualità della vita in Italia, ossia l’ultimo.
L’ipocrisia e l’irresponsabilità sono state ben alimentate: dal ministro Clini
– il socialista ministro dell’Ambiente per chissà quali meriti -, molto
attento a preservare il lavoro e l’interesse della grande industria; il
sottosegretario Catricalà che invocava ricorsi alla
Consulta (mai visti prima) paventando un esercizio eccessivo della
potestà giudiziaria da parte del Gip, tali da ledere il “diritto alla
libertà d’impresa”; dalla Guardasigilli Severino che anticipava imminenti ispezioni; dal ministro Passera, il pluridemocristiano moderato pronto all’uso; dal presidente della Regione Vendola, che scopriva il grave problema riposto nel suo seno da soli 7 anni e invece pare, dagli atti, ben orchestrato.
E’ il momento delle grandi scelte e di puntare verso un autentico sistema di legalità.
(Fonte)
Nessun commento:
Posta un commento