Ho visto un meraviglioso striscione tra i tanti che stanno sfilando in
queste ore nelle piazze italiane, e nelle videogallery dei quotidiani
online. Lo reggevano cinque o sei ragazzi, di 16 o 17 anni. Liceali, con
ogni probabilità. Dietro lo striscione, una lunghissima fila di
studenti. Su quel lenzuolo bianco, con lettere un po’ sbilenche e non
molto allineate, c’era scritto uno di quegli slogan che spesso vengono
utilizzati durante manifestazioni o cortei, né più bello né più brutto
di molti altri simili. Ma che, nonostante l’abuso tipico di ogni slogan,
nel momento in cui l’ho visto, mi è sembrato, appunto, meraviglioso: “Non ci avrete mai come volete voi”.
Ecco, appunto, come ci vogliono? Io credo che prima di tutto ci vogliono ignoranti.
E sappiamo perché. Rassegnati. E sappiamo perché. Disillusi. E anche in
questo caso, sappiamo perché. Dunque la manifestazione di oggi, apparentemente, va contro i loro progetti. E quello slogan era solo apparentemente un’affermazione coraggiosa e prepotente della volontà di autodeterminare il nostro presente.
Perché dico apparentemente? Perché secondo me chi detiene il potere,
che poi è un agglomerato di poteri transnazionali, oggi ci vuole anche arrabbiati, bruti, violenti.
Ci vuole esattamente come oggi stiamo dimostrando di essere. La
protesta di piazza, in fondo, agli occhi di chi governa è un atto
auspicabile: è una valvola di sfogo, il rientro dei livelli di guardia
della frustrazione e dell’indignazione. Il fatto che lo si faccia
sfasciando le vetrine di una banca, incendiando un cassonetto oppure
organizzando una sassaiola non ha alcuna importanza. Quello che conta è
che da domani ce ne torniamo tutti, calmi ed estenuati, alle nostre
quotidiane occupazioni, sereni per aver fatto il nostro dovere: aver
protestato.
So bene qual è il significato di uno sciopero così imponente come
quello di oggi. Aver ribadito, da un lato, la voglia di far sentire la
propria voce, l’orgoglio di affermare tutto il significato della propria
esistenza non solo di cittadini, ma di individui; in secondo luogo, lo
sciopero significa mettere in crisi il sistema produttivo, bloccare le
attività commerciali, ridurre i profitti dei padroni. Tutto vero, in
teoria. In pratica, negli ultimi anni la voce di chi protesta non solo
non viene ascoltata, ma spesso non viene neppure percepita. Essa
sprofonda in mezzo alla confusione, alle urla, alle sirene, e nessuno
riesce a decifrarla. Ma tutti sanno bene come strumentalizzarla. Quanto
poi a mettere in crisi il sistema produttivo, nutro seri dubbi circa la
reale efficacia di queste manifestazioni. Domani ci saranno vetrine
spaccate da risistemare, sampietrini divelti da reinserire sul selciato
dei viali, auto incendiate da ricomprare. Magari il piccolo commerciante
o l’operaio subiranno danni gravissimi, ma il “Sistema”, come molti lo
chiamano, finirà per guadagnarci. La protesta è, in generale, un atto
meraviglioso, ma il modo di esercitarla è ormai fallimentare. Lo abbiamo
ereditato dalle generazioni precedenti e lo trasmettiamo a quelle
successive, senza rinnovarlo. Come un’abitudine, una tradizione. Credo
che non solo tra le dinamiche, ma direi anche tra gli slogan degli
scioperanti di fine ottocento cannoneggiati da Bava Beccaris e quelli
degli studenti di oggi manganellati dai celerini non ci sia alcuna
differenza. E questo è terribile, perché nel frattempo i “Savoia” si sono evoluti.
Ci sono casi, come in Val Susa, dove il sopruso necessita ancora di
un avanzamento fisico, fatto di ruspe e di trivelle. E allora ben
vengano gli assalti ai cantieri, la costruzione delle baite, i consorzi
di valligiani per acquistare i terreni. Ma in tutti gli altri casi, dove
l’affermazione del potere non ha nulla di fisico – il Fiscal Compact o
il MES non sono, purtroppo, ruspe e trivelle – opporsi fisicamente serve
ancora a qualcosa? L’unica utilità è per il Potere, che manda
carabinieri e poliziotti a pestare a sangue i ragazzini, in una guerra
tra poveri che non ha alcun senso. Perché tanto, alla fine, vince sempre
chi si trova in sala regia, a dirigere pattuglie e manifestanti come
fossero pedine su un grande gioco dell'oca.
Qual è l’obiettivo? Costringere alla ritirata un blindato? Ne
arriverà un altro. Conquistare una piazza? Verrà liberata. Negli ultimi
anni i manifestanti arrivano con i caschi, con le maschere antigas, si
dispongono a mo’ di testuggine romana, con materassini o assi di
plexiglass. E’ proprio quello che il Palazzo vuole: avere come spalla
manifestanti organizzati, minacciosi e armati di tutto punto. Che
facciano il maggior numero possibile di danni, che mettano a ferro e
fuoco, a soqquadro la città. Che ingaggino tafferugli con le forze
dell’ordine usando tecniche da guerriglia urbana. Magari che ci scappi
il morto, così che si possa invocare la parola magica, "repressione",
e si possano dare ampi poteri alle forze armate, nel consenso generale
dell’opinione pubblica, magari dichiarando lo stato d’assedio.
È il caso di ripensare la protesta. Di esprimere la rabbia e
l’indignazione in forme diverse, più costruttive, più pericolose per il
Potere. Si potrebbe cominciare, ad esempio, ad occupare le sedi locali e
nazionali dei giornali e della RAI. Farebbe molto più rumore un TG
interrotto dall’arrivo di manifestanti che si impossessano di microfoni e
telecamere, che non un liceo autogestito a oltranza dagli studenti che
si barricano dentro l’aula magna finché non arriva la Digos a
sgomberarli. E poi, visto che tutti la definiscono la dittatura delle
banche, si potrebbe provare a colpirla ritirando i soldi dai conti
correnti e mettendoli sotto al materasso, almeno finché le banche non
torneranno ad assumere il loro ruolo originario, quello vicino ai
risparmiatori.
Si potrebbe addirittura tornare a ristrutturare il vecchio casale in campagna, avuto in eredità dal nonno [ndr: ad avercelo!],
e coltivare la terra. Oggi raccogliere un pomodoro che si è seminato è
qualcosa di infinitamente più rivoluzionario che raccogliere un sasso
per tirarlo contro un celerino. O, infine, gli studenti potrebbero
ribellarsi a questo potere reagendo nella maniera che è, tra tutte,
sicuramente la più pericolosa: studiare. Essere molto più colti e preparati di chi comanda è l’atto anarco-insurrezionalista più antico ed efficace di sempre.
(Fonte)
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