giovedì 20 febbraio 2014

Caso marò - Ricette per uscire dal tunnel indiano

A fronte del “consueto rinvio” della Corte Suprema dell’India sul caso dei due marò, si manifestano puntualmente reazioni roboanti del tipo “ora basta”, la “misura è colma”. Ma a parte le schermaglie diplomatiche, con tanto di convocazioni di ambasciatori, cosa è possibile fare? Esaminiamo di seguito alcune opzioni.

Immagine creata per il tweetstorm del 19.02.2014


Restare in ambasciata
La prima potrebbe essere quella di tenere i due fucilieri di marina nella nostra ambasciata di New Delhi, in modo che essi non si presentino più all’appuntamento settimanale con la polizia indiana per apporre la firma sul registro. La motivazione è semplice: l’India non ha giurisdizione sul caso e l’Italia afferma la propria sovranità.

Ovviamente si creerebbe un incidente diplomatico. Non credo che l’India si comporterebbe come l’Iran nel 1979 nei confronti degli Stati Uniti, consentendo l’invasione della nostra ambasciata. Potrebbe però arrivare alla rottura delle relazioni diplomatiche con conseguente intimazione al nostro personale diplomatico di lasciare il territorio. In caso contrario, i due fucilieri resterebbero nella missione fino a quando la questione non venisse risolta. La prassi diplomatica è ricca di episodi simili.

Arbitrato Internazionale
La seconda opzione è quella di attivare l’arbitrato internazionale, come da qualche tempo si sta ventilando. Qui bisogna essere chiari. Le condizioni per attivare l’arbitrato sono due: l’esistenza di una controversia internazionale e la volontà di sottoporre la questione ad un’istanza arbitrale, volontà che può essere manifestata prima della nascita della controversia mediante una clausola compromissoria o altro strumento, oppure successivamente, sempre che le parti siano d’accordo. 



La Convenzione contro il terrorismo marittimo, che l’India vorrebbe applicare al caso in esame, contiene una clausola che permette di deferire, a richiesta di parte, ogni controversia circa la sua applicazione o interpretazione ad arbitrato o alla Corte internazionale di giustizia. Ma l’India, come consentito dalla Convenzione , ha apposto una riserva e non è vincolata dalla clausola. Resta la via della procedura arbitrale contenuta nell’Annesso VII alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare che, a quanto sembra, è possibile attivare unilateralmente.

Qui vedo i seguenti ostacoli. Il primo è il fattore tempo. Come dimostrano i precedenti, occorrono 3-4 anni per terminare la procedura arbitrale. Il Tribunale ovviamente deciderebbe sulla controversia tra i due Stati, il cui oggetto riguarda l’esercizio della giurisdizione, ma non potrebbe giudicare dell’eventuale responsabilità penale dei due marò.

Nelle more il Tribunale potrebbe disporre come misura provvisoria il ritorno dei marò in Italia o il loro affidamento a un terzo Stato (quale e fino a quando?). Il ritorno in Italia lo trovo poco credibile, dopo il pasticcio della licenza elettorale e la non esecuzione dell’impegno a far ritornare in India gli altri quattro marò che componevano la squadra a bordo della Enrica Lexie, impegno che era stato assunto per consentire alla nave di ripartire.

Vi sono poi le motivazioni di merito. Il punto forte della difesa italiana è costituito dall’immunità funzionale dei militari e non dal fatto che l’incidente è accaduto in alto mare. Il Tribunale arbitrale, dovendo giudicare in base alla Convenzione sul diritto del mare, potrebbe lasciare da parte la questione dell’immunità funzionale che, è bene ricordarlo, è una costruzione dottrinale (cui il sottoscritto crede), ma non è oggetto di una convenzione internazionale ad hoc. Infine l’India potrebbe opporsi, anche come tattica dilatoria, alla procedura arbitrale, affermando che non esiste una controversia internazionale e che l’Italia ha rinunciato a coltivarla, intervenendo nel processo di fronte ai tribunali indiani.

Difesa nel processo
La terza opzione è quella finora seguita: difendersi nel processo e non dal processo per dimostrare ai tribunali indiani che non è applicabile la legge antiterrorismo, che l’India non ha giurisdizione e così via. In caso di condanna, e una volta che la sentenza sia divenuta definitiva, è possibile attivare il Trattato Italia-India sul trasferimento delle persone condannate e chiedere che i marò siano traferiti in Italia. Richiesta che peraltro non è di automatica esecuzione, ma resta subordinata a un accordo ad hoc tra i due paesi. Peccato che in questo caso non si realizzerebbe una delle condizioni di cui si sente tanto parlare e cioè che i marò tornino in Italia con onore!

Iniziativa internazionale
La quarta opzione - quella che si sta seguendo in questi giorni insieme alla precedente, ma che si è tentato di coltivare senza successo anche in passato - è quella di una forte iniziativa diplomatica, volta ad un’efficace opera di sostegno dei nostri alleati.

Beninteso la questione non deve essere impostata come un problema di diritti umani, ma di sovranità e difesa di coloro che si dedicano alle missioni antipirateria. Qualcosa si è mosso in ambito Unione Europea e Nato. L’idea di far intervenire il Segretario generale delle Nazioni Unite va perseguita, quantunque finora non abbia trovato il riscontro sperato. Peccato che gli Stati Uniti, che avrebbero molte carte da giocare nei confronti dell’India, si siano mostrati finora latitanti: eppure, come qualcuno ha ricordato, siamo stati al loro fianco in Afghanistan ed Iraq.

Verso una nuova convenzione
La scelta della via migliore da perseguire è una scelta politica che dovrà essere messa di nuovo a fuoco dal prossimo governo. Non è detto che esista un metodo unico, ma ci può essere una combinazione dei vari metodi. Per rendere più credibile la sua azione presso le competenti istituzioni internazionali, l’Italia potrebbe intanto proporre una convenzione internazionale volta a disciplinare il personale armato (militari e contractor) imbarcati su navi mercantili a difesa degli attacchi pirateschi.

La convenzione dovrebbe stabilire che, in caso di incidente, la giurisdizione penale spetti esclusivamente allo stato della bandiera su cui è imbarcato il personale armato. Il caso della Enrica Lexie sarebbe l’occasione per una nuova codificazione internazionale, come lo fu l’incidente del Lotus negli anni venti (una collisione tra una nave francese ed una turca in Mediterraneo) per disciplinare in senso favorevole allo Stato della bandiera l’urto tra navi ed altri incidenti della navigazione.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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