mercoledì 26 ottobre 2011

La protesta non basta, mettiamo in campo le idee


Sto assistendo ad un fenomeno veramente deprecabile e allarmante. Non è da oggi che lo contesto, nei miei interventi su youtube, con articoli sul sito e nelle omelie in chiesa. Sì, anche in chiesa, perché non vedo che male ci sia nel trattare il degrado di una società che da sola non riesce proprio a trovare l’uscita dal tunnel, nella speranza che il cristianesimo ci apra uno spiraglio di luce.
Veniamo subito al dunque, e non vorrei filosofeggiare, ma toccare la realtà esistenziale. Sembra ormai una prassi costante, ma è imperdonabile che ancora oggi si continui a praticarla. Che cosa succede? Dopo ogni guerra o una crisi economica, sembra che tutto cominci di nuovo, e si dà fiato alle speranze per un mondo diverso. Ma purtroppo questa Utopia dura poco. Appena si tocca un po’ di benessere, più materiale che spirituale, la speranza per un mondo nuovo man mano si attenua nella conquista di qualcosa che toglie un po’ di respiro all’Utopia. Un qualcosa che si fa pane quotidiano, un lavoro redditizio, una bella casa, una posizione sociale rassicurante.
Il desiderio sempre più intenso anticipa – come desiderio - un di più che s’ingrossa, man mano se ne gusta qualcosa. E tutto promette bene. L’economia carbura sempre in meglio. Il lavoro anche. Il divario tra il riccone e il poveraccio di un tempo via via sembra diminuire a vista d’occhio,  e aumenta di pari passo l’illusione di poter equilibrare finalmente le ingiustizie, gustando anche la rivincita, che ha il sapore di vendetta. Ed è qui che per me scatta il pericolo, un rischio fatale, ma al momento ben pochi se ne accorgono, immersi fradici nell’illusione.
Qui sarei tentato di aprire una parentesi, per parlare di quel fenomeno che da tempo sta caratterizzando la nostra epoca: ciò che Zygmunt Bauman nei suoi libri chiama “società liquida”. Non c’è più nulla di consistente, per cui ci si aggrega al gruppo per non sentirsi esclusi, e il gruppo è quello di chi consuma. Da protagonisti si è passati a consumatori: bisogna adeguarsi al gruppo dei condizionati o drogati dal dover consumare. Ci si sente esclusi dalla società moderna non quando si rimane estranei al sistema produttivo o al fatto di non poter comperare l’essenziale, ma di non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il "povero", nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi "come gli altri", cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. Chiusa parentesi.
In pochi anni succede - non è solo una mia constazione - che ci si faccia prendere dalla droga del superfluo, dell’inutile, dell’effimero, arrivando al punto di perdere per strada il valore dell’essenziale, dando perciò importanza a quel di più che schiaccia il nostro essere. E l’essere - forse bisognerebbe ricordarlo - va oltre la contingenza, e la materialità che trasforma il ben-essere in un mal-essere. Ma la droga dell’avere che ancora momentaneamente ci rimane da godere condiziona un tale ritmo di evasioni da non lasciarci neppure la possibilità di scelta. Ed ecco il patatrac, che è inevitabile per chi conosce la storia, ma non è messo nel conto da chi è ossessionato dall’attimo fuggente. Arriva il momento della ricaduta. L’economia non tira più, entra in affanno, la macchina del mercato si arresta, il lavoro si ferma, i soldi calano, e si rimane soli con l’angoscia di tornare poveri, e con quel falso pudore - parola strana! - di mostrare le proprie vergogne (termine biblico per indicare il proprio sesso, ovvero, tradotto nell’oggi, la propria nudità).
Eppure, la nudità prima del peccato cosiddetto originale era la qualità del proprio essere. Adamo ed Eva erano nudi, ma non se ne vergognavano. Il fatto di essere nudi era il loro stato d’animo, l’essenza della loro libertà. Oggi tornare nudi significa vergogna, comporta paura, stress, ossessione, anche suicidio. Tornassimo nudi di ogni ben del dio superfluo!
E inizia per alcuni la reazione che si fa via via lotta, contestazione, ribellione: già per il fatto di spingere migliaia e migliaia di prostrati alla riscossa, ci si fa prendere da un’altra illusione: poter imboccare una via d’uscita. E è qui che s’inserisce la mia rabbia.
Ci si muove, si partecipa alle manifestazioni di massa, alle proteste collettive, solo quando ci si sente nudi di cose. E la parola cosa andrebbe stampata su ogni muro, su ogni parete, su ogni facciata di chiesa: come slogan, come richiamo, come esame di coscienza, come condanna.
Ci tolgono un euro, ed ecco che protestiamo. Ci tolgono un hobby, e protestiamo. Ci tolgono un piacere, e protestiamo. E anche se protestiamo perché ci tolgono un posto di lavoro o la sicurezza del domani, mi chiedo se sia giusto aspettare di sentirsi nudi di un qualcosa per alzare la propria voce. Prima, quando le cose giravano per il loro verso giusto, dandoci l’illusione di vivere, perché tacevamo? Perché tacevamo quando la società dell’effimero copriva un cumulo di ingiustizie che, per il fatto di essere lontane dalla nostra vita apparente, neppure in forza della nostra fede nell’Umanità riusciva a smuoverci dal nostro goduto perbenismo? Un perbenismo tale da isolarci in un mondo tutto nostro, tanto nostro da essere solo “mio”, unicamente “mio”? Già smascherare questa pseudo- solidarietà è il primo passo per capire fin dove può arrivare l’illusione di protestare “insieme”, compatti come una squadra affiata, in favore di una causa che in realtà, nel concreto, tocca solo il mio io, il mio contingente interesse. Si è in gruppo a protestare - magari milioni persone - ma ciascuno è un’isola: un sé distinto, separato.
Certo, non è solo questione di tempi persi, di occasioni mancate, di risvegli sull’orlo del precipizio, di spaccare tutto pur di farsi sentire, ma è questione di capire che quel tutto che vorremmo ora spaccare l’abbiamo costruito noi, l’abbiamo favorito noi, l’abbiamo difeso noi, anche solo con il nostro silenzio, la nostra indifferenza. Ma c’è di più. Ogni giorno ci siamo costruiti la nostra fossa, e quando ci sentiamo con un piede già dentro, allora gridiamo il dies irae: il giorno di quale vendetta?
Tutto perso, dunque? Nessuna speranza? Tutto inutile per tentare almeno una salvezza in extremis? No, non è tutto inutile. Si può ancora sperare. Ma, prima cosa: prendere coscienza di ciò che ora si vorrebbe fare. Prendercela sempre e solo con i nostri fallimenti, scaricandoli però su tutto e su tutti, tranne che su di noi? Resteremmo in tal caso sempre in un circolo vizioso. Seconda cosa: fare tabula rasa di tutto ciò che finora ha costituito la logica dell’avere perverso, e iniziare a pensare ad una alternativa. Ma non basta. Terza cosa: per uscire dal coma non ci resta che pensare in grande. E per fare questo non bisogna perdere altre occasioni per trasformare la piazza da luogo di manifestazioni inutili e illusorie in una grande scuola di idee. I raduni oceanici di un giorno non servono, e si prestano a violenze d’ogni tipo. Più giorni, magari mesi, per avere così la possibilità di sfornare nuove idee, e scoraggiare i teppisti o i buontemponi che non amano certo le scuole, ma preferiscono disertarle. Quarta cosa: quali idee? le solite opinioni? le solite discussioni da bar? oppure, viceversa, lo sfoggio di cultura sinistrossa, versione opportunistica, che preferisce accarezzare i dotti, disprezzando il popolo? No di tutto questo. Quando parlo di idee, non intendo sfornare più idee possibili: ne basta una, quella Idea-forza che illumina il mondo intero. Esiste già: si tratta di scoprirla o di avere il coraggio di proporla. L’Idea-forza è patrimonio dell’Umanità, non è invenzione monopolistica di qualche “illuminato” speciale. E le piazze si devono riempire dei riflessi di questa Idea-forza, soprattutto quando tutto sembra scorrere liscio come l’olio, quando il mercato è alle stelle, quando il ben-avere è alla portata di mano. Qui l’Idea-forza può, deve svelare l’Inganno.
Ecco perché è deprimente, deleterio e pericoloso suonare il campanello d’allarme quando tutto va male, non solo perché è troppo tardi, non solo perché ci siamo ormai tirati la zappa sui piedi, ma perché non saremo ancora disposti ad aprire gli occhi pronti a tornare al punto di partenza: il solito balletto di speranze e di desideri nel circolo vizioso di un avere che consuma lo spirito.
Lo spirito! Qui sarei tentato di continuare, ma l’argomento merita più tempo, e le cose dette sono già abbastanza per riflettere a lungo. Riprenderò l’argomento in un prossimo video. 
(dal sito di don Giorgio de Capitani del 25 ottobre 2011)
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