giovedì 6 ottobre 2011

Il berlusconismo e il collasso della democrazia italiana: Intervista a Luigi Ferrajoli


Nato a Firenze nel 1940, Luigi Ferrajoli è forse oggi il maggiore teorico del diritto italiano. Dopo aver fatto il magistrato e aver contribuito a fondare Magistratura democratica, è stato professore di Filosofia del diritto, prima a Camerino e poi a Roma 3.

(Stralcio dell'intervista a Luigi Ferrajoli)

Venendo all’Italia, sono passati decenni dalle discussioni sull’uso alternativo del diritto ma siamo ancora al conflitto politica-magistratura; da anni tu diffidi di qualsiasi supplenza da parte dei giudici e ribadisci che anche in una democrazia costituzionale il ruolo decisivo spetta al Parlamento. Il problema è però che fare, se il Parlamento ormai serve solo a ratificare le decisioni di un governo che fa tutto tranne che governare.
L’uso alternativo del diritto fu solo il titolo di un convegno di giuristi di sinistra svoltosi a Catania nel maggio 1972 e dei due volumi, curati da Pietro Barcellona, che ne raccolsero gli atti. Con quella formula, e più esattamente con l’espressione «giurisprudenza alternativa» – caricate in seguito di tanti significati politici, accomunati dalla strana idea di un diritto alternativo a quello vigente –, intendevo in quegli anni, insieme ad altri, solo una pratica giuridica vincolata, nella legislazione, nella giurisdizione e nell’amministrazione, a quel suo «dover essere» giuridico, vigente e positivo, che è espresso dalle norme costituzionali e che allora era largamente ignorato da politica, dottrina e giurisprudenza. La divaricazione normativa, in certa misura fisiologica ma oltre tale misura patologica, fra «il diritto che è» e il «diritto che deve essere» dettato dalle Costituzioni è rimasto per me un tema centrale di riflessione teorica.
 
Quanto al rapporto tra potere politico e potere giudiziario, penso che la loro separazione sia un corollario della diversità delle loro fonti di legittimazione democratica: la rappresentatività politica del primo e l’applicazione della legge per il secondo. Infatti, la giurisdizione può consistere nell’imparziale applicazione della legge prodotta dalla rappresentanza parlamentare solo se l’accertamento della verità processuale non è condizionato da impropri rapporti di dipendenza. La legislazione può vincolare il giudice solo in quanto le leggi siano formulate in termini quanto più possibile tassativi, tali da ridurre al massimo discrezionalità e supplenza giudiziaria. Si tratta, ovviamente, di un modello-limite, di un ideale regolativo, la cui attuazione richiede un sistema complesso di garanzie che anche nelle democrazie più avanzate resta ben lontano dall’effettiva pratica legislativa e giurisdizionale.
 
Ciò che sta accadendo in Italia, tuttavia, va ben oltre qualsiasi fisiologica ineffettività del modello. La deriva populista espressa dall’autoidentificazione del capo della maggioranza con il popolo intero, lo scontro istituzionale a base di insulti da lui aperto con i magistrati chiamati a giudicarlo, e per altro verso il primato dei suoi interessi privati su quelli pubblici, stanno dissestando la rappresentanza politica e lo stato di diritto. Il fenomeno è in atto da oltre un quindicennio, ma in questa legislatura ha assunto un’accelerazione distruttiva. Lo spettacolo avvilente offerto in questi mesi dal nostro Parlamento, costretto dal presidente del Consiglio a votare in tempi forzati, nel pieno di una drammatica crisi internazionale che si aggiunge alla grave crisi economica e sociale, assurdi conflitti di potere con la magistratura e leggi esplicitamente in proprio favore, equivale alla messa in scena dello sfascio della democrazia italiana. Il nostro Parlamento è stato infatti ridotto a una specie di ufficio legale del presidente del Consiglio, impegnato al completo, inclusi i ministri, su di una sola, vera emergenza: l’edificazione di un corposo Corpus iuris ad personam diretto a paralizzare i processi penali a carico del capo.
I limiti della decenza sono stati superati. Non si era mai visto un Parlamento trasformato in un mercato nel quale si comprano voti in cambio di posti di governo o di altri benefici. Non si era mai vista una maggioranza parlamentare a tal punto asservita agli interessi personali del leader da votare compattamente provvedimenti disastrosi come quello diretto a far prescrivere, insieme a uno dei processi a suo carico, altre migliaia di processi, oppure una palese menzogna come quella posta a base del conflitto tra poteri. Il principio costituzionale del divieto del mandato imperativo previsto dall’art. 67 della Costituzione, sul quale si fonda la democrazia rappresentativa, è stato così sostituito dal rigido mandato dall’alto della difesa degli interessi personali del premier, assunti come principi non negoziabili e non derogabili, vera Grundnorm dell’attuale sistema politico.
(da: Tlaxcala: 26/07/2011)    Qui l'intervista completa
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