martedì 25 ottobre 2011

Quel patto sul cadavere di Donatoni dietro il nonnismo nella caserma dei Nocs

Dalla vicenda delle sevizie alle “reclute” e dello spietato “sottocomando” che governava la struttura dei corpi speciali, emerge una vecchia storia. Il gruppo dei prevaricatori unito dalla partecipazione al conflitto a fuoco (Riofreddo, 17 ottobre 1997) tra i rapitori dell’imprenditore Soffiantini e gli uomini dei corpi speciali nei quali morì un agente colpito da “fuoco amico”. In questa storia anche un altro morto (uno dei banditi, forse “giustiziato”), un suicidio e un fascicolo insabbiato.

Quei morti, un suicidio, un pestaggio e un fascicolo insabbiato. Non erano solo nonnismo i morsi nella caserma dei Nocs denunciati da Repubblica a inizio settembre. Dietro quelle violenze c’era qualcosa di più. C’era la prova tangibile di una sorta di patto di sangue che secondo diverse fonti fu stretto tra una manciata di agenti speciali e i loro dirigenti in una notte di ottobre di 14 anni fa: quella in cui morì l’agente speciale Samuele Donatoni durante un blitz per liberare l’imprenditore Giuseppe Soffiantini dai suoi sequestratori.

Quella notte, tra i pruni e le ginestre insaguinate sul ciglio dell’autostrada Roma-Pescara, vicino a Riofreddo, prima dell’arrivo dei soccorsi e della polizia “ordinaria”, con il rumore degli spari ancora nelle orecchie e il loro collega a terra agonizzante, quegli agenti si guardarono in faccia per qualche interminabile secondo, poi decisero che mai nessuno avrebbe raccontato cosa era successo. Nemmeno ai magistrati, a cui avrebbero offerto una versione preconfezionata. Un accordo di ferro, che negli anni è degenerato, lasciando nella mani di “chi sa” un potere abnorme all’interno dei Nocs: e così oggi quegli uomini sono ancora tutti lì, nel reparto d’eccellenza della Polizia di Stato, dove dettano, indisturbati, la propria assurda legge. 
Cosa accadde quella notte 
Il 17 ottobre del 1997, nel pieno del sequestro Soffiantini, la Polizia tenta un blitz per la cattura dei rapitori attraverso un finto pagamento del riscatto. L’operazione fallisce. Uno dei banditi, Mario Moro, al momento di prendere le valigie con i soldi, sente un fruscio, almeno così racconterà, ed esplode una raffica di kalashnikov, alla cieca. I Nocs rispondono al fuoco ma i sequestratori gettano le armi e fuggono. A terra rimane l’agente Samuele Donatoni; morirà dissanguato in pochi minuti.
Per quel fatto, oggi, esistono due verità. La prima è quella arrivata al termine del processo istruito dal pm di Roma, Franco Ionta, che nel 2000 condannò i 19 sequestratori di Soffiantini anche per l’omicidio (concorso morale) di Donatoni: il colpo mortale, secondo quel processo, sarebbe stato esploso dal kalashnikov di uno dei banditi.
La seconda sentenza è quella con cui la quarta corte d’assise di Roma, presieduta dal giudice Mario Almerighi, nel 2005, ha assolto dallo stesso reato il ventesimo bandito (arrestato più tardi a Sidney e quindi processato separatamente). In quel processo si stabilì in via definitiva che il proiettile che uccise l’agente Donatoni era stato sparato a bruciapelo e da dietro. Non da Moro, ma da qualcun altro (ancora oggi sconosciuto) che stava dalla parte dei Nocs. Fuoco amico. Questa seconda sentenza che, nonostante l’impugnazione del pm Ionta, venne confermata sia in Appello sia in Cassazione, arrivava anche all’inquietante conclusione che le forze dell’ordine operarono una sconsiderata attività di inquinamento probatorio. Chi depistò le indagini sulla morte di Donatoni? Con quali appoggi? 
Chi c’era?
Domande che andrebbero girate in blocco a “quelli del morso“, cioè al “sottocomando” che da anni, con violenze fisiche e psicologiche detta legge all’interno della caserma dei Nocs. Perché, adesso che la notizia di quelle violenze è pubblica, adesso che la Procura e la Polizia hanno avviato le proprie indagini, si è scoperto che tutti i “membri” del “sottocomando”, quella notte erano a Riofrreddo. C’era, ad esempio, l’agente Nello Simone, l’autore della fotografia con cui Repubblica ha documentato i morsi nella caserma. Fu proprio lui, dopo il conflitto a fuoco, a ritrovare il kalashnikov di Moro e fu proprio lui, secondo la quarta corte d’assise di Roma, uno dei depistatori del primo processo, uno di quelli che dichiarò il falso in tribunale, smentito dall’unico testimone considerato attendibile: l’allora dirigente della Criminalpol Nicola Calipari (ucciso nel 2005 in Iraq durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, anche lui per mano del fuoco amico).
Insieme a Nello Simone sull’autostrada, c’era poi l’agente Roberto Miscali: l’uomo che, nel momento cruciale del blitz, si trovava più vicino a Donatoni. Anche lui, oggi, è uno del gruppetto fuori controllo. Secondo molti testimoni (ci sarebbe anche un video) Miscali è il protagonista di uno degli episodi più surreali della banda del morso: quello in cui alcuni Nocs hanno pestato a sangue un agente ricoverato in ospedale, perché non aveva reso onore al nome del reparto; era interveuto per sedare una rissa in discoteca e aveva rimediato una coltellata.
E ancora, quella notte di quattordici anni fa, sulla strada per Riofredo, c’erano l’ispettore Vittorio Filipponi, anche lui vicino al “sottocomando” e, a bordo dell’automedica pronto a intervenire, c’era persino il dottor Gianluca Magliani, il medico che ha dato un solo giorno di prognosi all’agente che, pestato dal gruppo nel 2009, ha denunciato a Repubblica le violenze interne alla caserma (e che, visitato da un altro medico venne giudicato guaribile in 108 giorni).
(di F. ANGELI e M. MENSURATI da ADG News del 25/10/2011)
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