domenica 27 novembre 2011

La battaglia dell’Europa

Da qualche tempo a questa parte su giornali e blog vari si discute molto dell’Europa dei banchieri. Visti come i veri padroni del vapore, costoro imporrebbero agli stati misure restrittive secondo uno schema ideologico di ferro che farebbe il gioco di pochi eletti a svantaggio della gente comune. 

Le critiche vanno dalle denunce alle politiche liberiste, a confusionarie teorie complottistiche sul signoraggio, per arrivare alla perdita di sovranità degli stati europei nei confronti di non ben specificati centri di potere sovranazionale. Sebbene contengano molte cose giuste, questo genere di critiche sono troppo generiche per cogliere nel segno ma soprattutto non sciolgono un’ambiguità di fondo: che genere di entità è l’Europa oggi? Per capirci qualche cosa di più, proverò a chiarire a me stesso, e spero anche a chi legge, il campo di gioco. Innanzi tutto va detto che oggi l’Europa non è un’entità politica, quello è rimasto un progetto sulla carta ancora molto distante dall’essere realizzato, ma monetaria. Il simbolo e il valore che la definisce si chiama Euro, una moneta, non una politica, nemmeno una visione politica ne tantomeno un’identità culturale.

Prima di aderire all’unione monetaria, siamo all’inizio degli anni novanta, i singoli paesi stilarono i criteri di convergenza necessari per entrare nell’Eurozona (intesa come la zona dove l’Euro avrebbe avuto corso sostituendo le valute nazionali, non la nazione europea). Questi criteri dovevano soddisfare quattro parametri: 1) finanza pubblica (deficit di bilancio sotto controllo), 2) andamento dei prezzi (tasso d’inflazione sotto un certo livello), 3) tasso di cambio (quando c’erano ancora le monete nazionali), 4) tassi di interesse a lungo termine. Per ognuno di questi parametri fu fissata una soglia tassativa, superata la quale non si poteva entrare nell’Euro. Erano i famosi parametri di Maastricht. I parametri non costituivano solo una soglia di entrata ma un limite continuo che ogni paese era tenuto a rispettare se voleva rimanere all’interno della zona Euro. Si trattava, e si tratta, di parametri rigorosi, che rispecchiano una gestione molto sobria dei bilanci statali, imposti principalmente dai paesi nord europei, in particolare dalla Germania che temeva i bilanci ballerini dei paesi latini, altrimenti detti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). L’obiettivo principale del primo governo Prodi (1996-99) fu proprio quello di condurre con successo l’Italia nella zona Euro riformando i conti pubblici dopo la disastrosa crisi del 1992. Da quel momento la Banca Centrale Europea è diventata il cane da guardia delle economie nazionali.

Infatti è stata la Bce a sovraintendere al processo d’integrazione monetaria, valutando i parametri dei singoli paesi. Aderendo all’Eurozona i singoli Stati hanno rinunciato alla loro sovranità monetaria, rappresentata dalle diverse monete nazionali emesse dalle rispettive banche centrali (da noi la Banca d’Italia) e hanno accettato la BCE come unica autorità monetaria, riconoscendone scopo e missione costitutiva: la stabilità dei prezzi e la difesa del valore della moneta. Inutile aggiungere che una missione di questo tipo implichi politiche monetarie restrittive che possono anche andare bene in una situazione economica normale, ma che diventano una palla al piede in caso di forti recessioni.

Il capitale della Banca Europea è costituito dalle banche centrali dei paesi aderenti e il suo consiglio direttivo è presieduto dai governatori delle banche centrali. Va aggiunto che, provenendo i membri del consiglio direttivo dalle banche centrali dei rispettivi paesi, essi non sono eletti ma seguono un percorso di carriera relativamente autonomo rispetto alla classe politica. Per questo fatto la BCE si dichiara indipendente rispetto ai governi e al parlamento europeo, che comunque per le questioni economiche conta meno di zero. Se, però, gli Stati non hanno nessuna influenza sulla BCE, la BCE ne ha, e molta, sugli Stati in quanto è lei che gestisce la politica monetaria e sovraintende al rispetto dei parametri di adesione all’Eurozona. Naturalmente è chiaro che se un paese si chiama Germania e non ha nessun problema a rispettare i parametri, la sua idea di politica monetaria s’identificherà completamente con la politica attuata dalla BCE; gli intenti tra quel paese e la Banca nella maggior parte dei casi convergeranno. Se però il paese si chiama Italia, o Spagna, o perché no Francia, la cosa diventa più complicata.

A questo punto occorre fare un passo indietro e tornare alla fine degli anni novanta, gli anni dell’entusiasmo europeo, quando la parola Europa unita era sulla bocca di tutti, politici e non. Allora non furono pochi quelli che misero in guardia di fronte a un rischio reale: se infatti all’unione monetaria non fossero seguite in tempi rapidi, prima l’unione delle politiche fiscali ed economiche e poi l’unione politica tout court (con un ministero degli esteri e della difesa europeo ad esempio), si sarebbe creato un ibrido tecnico che avrebbe rischiato di venire giù al primo scrollone deciso della storia. Con l’istituzione della BCE gli Stati perdevano uno strumento importante, l’autonomia monetaria, senza che fossero previste delle contromisure per bilanciare tale perdita. A queste critiche fu risposto affermando che l’Europa andava costruita per gradi e che comunque i singoli paesi dovevano innanzi tutto dimostrare la loro buona volontà, adeguandosi alla rigorosa gestione monetaria della BCE. Il resto sarebbe venuto in automatico. Di fondo c’era il timore, condiviso da molti paesi del nord Europa, di mettersi in casa potenziali destabilizzatori (i PIGS), che con la loro cultura della mazzetta e dello spreco di denaro pubblico,avrebbero potuto provocare il fallimento immediato del progetto europeo. La cura BCE doveva servire innanzitutto a questi paesi, per consentirgli gradualmente di mutare le loro strutture adeguandole a quelle dei paesi più virtuosi.

L’entrata in crisi del sistema greco, sebbene abbia creato delle ansietà, non ha mutato l’atteggiamento di fondo della BCE, qualcosa in più invece è successo quando l’Italia ha dato segni di cedimento, rischiando di trascinarsi dietro altri paesi. Inizialmente la BCE ha sostenuto i titoli di stato italiani con operazioni di mercato aperto, dopodiché la palla è stata ributtata nel nostro cortile chiedendo all’Italia interventi strutturali per rientrare nei parametri europei.

Oggi, però, c’è un fatto nuovo che può cambiare le cose: la crisi ha iniziato a mordere le economie virtuose. Pochi giorni fa l’asta dei Bund tedeschi è andata vuota per il 35%, un fatto clamoroso per l’economia tedesca abituata a guardare gli altri dall’alto in basso. La Francia, seguita timidamente dall’Italia, ha colto immediatamente la palla al balzo per rilanciare l’idea degli Eurobond, i titoli di stato europei che di fatto limerebbero l’autonomia della Banca Europea, ma la cancelleria tedesca ha parato il colpo opponendo un deciso nein e rilanciando invece l’integrazione fiscale, primo passo per un’integrazione politica. La proposta tedesca non deve stupire, la Germania è uno dei paesi che ha guadagnato di più dall’integrazione monetaria, il modesto boom economico che ha vissuto negli ultimi anni è dovuto principalmente alle esportazioni nell’Eurozona. Altri paesi come la Francia, per non parlare dell’Italia, invece si sono indeboliti. Dopo averla frenata per anni, Berlino rilancia dunque l’integrazione europea a tutti i livelli, ricordando a tutti che l’Euro era solo una tappa, la prima, delle molte previste.

La posizione tedesca non è dettata esclusivamente da interessi campanilistici, sarebbe riduttivo vederla così. A Berlino c’è probabilmente la convinzione che questa crisi possa provocare un terremoto mai visto e che l’unico modo per impedire che le scosse telluriche mandino in frantumi l’Eurozona, consista nel completare in fretta il processo d’integrazione, arrivando a uno Stato Europeo con poteri sovranazionali in materia di fisco, politica economica, politica estera ecc ecc. Insomma l’Europa unita di cui tanto si vagheggiava vent’anni fa.

Questa volta però, a tirare il freno a mano sono i paesi meno virtuosi capitanati dalla Francia, che non vuole nemmeno sentire parlare di perdita di sovranità. Secondo Parigi per salvare la baracca basterebbe piegare la Bce alle esigenze degli Stati, intervenendo sui parametri di Maastricht e lanciando gli Eurobonds, che allontanerebbero il rischio default dai paesi deboli (e in prospettiva anche dalla Francia).

Fatta la tara agli interessi di parte la sensazione è che i tedeschi, forse perché non si sentono più al riparo da brutte sorprese, abbiano compreso meglio e più a fondo il potenziale rivoluzionario della crisi economica in atto e tentino di reagire proponendo una trasformazione politica, e non solo economica, del progetto europeo. Quello che nessuno sembra voler mettere in discussione invece, sono i principi neoliberisti che regolano l’economia capitalista. Eppure è da questi principi che la crisi ha preso corpo.
(da www.lineadipartenza.it di Edoardo Laudisi
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