Marò: un anno di inerzia, silenzi e gaffe internazionali
Esattamente un anno fa i due fucilieri di Marina del Battaglione San
Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, venivano sequestrati
dalle autorità indiane, su mandato del tribunale del Kerala, con
l'accusa di aver ucciso a colpi di fucile due pescatori dal ponte della
petroliera italiana Enrica Lexie, sulla quale erano imbarcati con il
compito di fare da scorta antipirateria. Nell'anniversario del loro
imprigionamento pesa il silenzio assordante tanto dei media quanto della
politica, entrambi impegnati a raccontare la campagna elettorale e, nei
ritagli di tempo, il Festival di San Remo.
Solo l'opinione pubblica dibatte ancora, tra colpevolisti e
innocentisti, accomunati unicamente dalla condivisa sensazione che da
parte delle autorità italiane sulla vicenda sia stato fatto troppo poco,
e per giunta male.
Eppure, nonostante la sicumera degli opinionisti di una parte e
dell'altra, di domande senza risposta ne restano molte. Troppe, per
affidarsi acriticamente alle ricostruzioni diffuse finora dalle autorità
indiane, e spesso prese per buone sentra tanti complimenti. Troppe
anche per sbilanciarsi a priori in condanne o assoluzioni in mancanza di
una seria inchiesta giudiziaria. Anche perché sulle spalle dei
pescatori uccisi e dei loro presunti assassini si gioca una
delicatissima partita diplomatica che va ben oltre la sparatoria del 15
febbraio 2012. A cominciare dagli appalti multimilionari in ballo tra le
aziende italiane e nel settore della difesa e della cantieristica e il
governo indiano.
Una situazione peraltro aggravata dai recenti sviluppi dell'ultimo affaire Finmeccanica,
sulla quale indagano i magistrati del Tribunale di Busto Arsizio, con
l'accusa per i vertici del colosso italiano della difesa di aver
allungato ai referenti indiani mazzette per oltre 50 milioni di euro al
fine di mandare in porto senza intoppi la vendita di uno stock di
elicotteri militari che ne valeva 500mila. Commessa ghiotta, e già
prontamente cancellata in toto dalle autorità di Nuova Delhi.
Per finire con le pesanti implicazioni politiche per un paese come
l’India, in cui una parte consistente dell’opinione pubblica considera
qualunque tipo di concessione all’Italia un regalo a Sonia Gandhi,
presidente del Partito del Congresso Indiano, accusata dagli avversari
di “favoritismi” verso il suo paese d’origine.
Su tutto questo pesa in primis il nodo della giurisdizione. A chi
compete giudicare i fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone?
Il comandante della petroliera Enrica Lexie, l’equipaggio e lo stesso
armatore hanno sempre sostenuto che al momento dei fatti la nave si
trovava in acque internazionali, ad oltre 30 miglia dalle coste del
Kerala. Per le autorità dello stato indiano, invece, questa si trovava
invece nella cosiddetta “zona contigua”, all’interno della quale lo
stato ha ancora diritto di far valere la propria giurisdizione. In ogni
caso, l’India non ha titolo per trattenere i due militari italiani:
secondo la convenzione di Montego Bay del 1982, infatti, «uno stato non
può fermare o abbordare navi battenti bandiera straniera». Inoltre, in
forza del Codice Militare di Pace e della legge 131/11, i due marò del
San Marco sono a tutti gli effetti organi dello stato italiano, e
pertanto intoccabili dalla giurisdizione straniera.
Il 18 gennaio scorso la Corte Suprema dell’India ha riconosciuto le
motivazioni del ricorso del governo italiano contro la detenzione due
marò, che hanno potuto così lasciare lo Stato del Kerala e recarsi nella
capitale. L’Alta Corte ha riconosciuto che i fatti sono avvenuti in
acque internazionali, e che la giurisdizione non competeva dunque alla
magistratura locale del Kerala, dando ragione alle tesi della difesa. Il
pronunciamento della Corte Suprema, però, non pone ancora la parola
fine alla vicenda. Così come non l'ha posta il breve "permesso premio"
di 15 giorni dei quali sono stati "omaggiati" Latorre e Girone per
trascorrere in famiglia le ultime festività natalizie.
Ma non basta: come riportato dal giornalista Fausto Biloslavo, la
stessa cattura della petroliera italiana e dei militari imbarcati
sarebbe frutto di un tranello. S.P.S. Basra, comandante della Guardia
Costiera dell’India occidentale, si è pubblicamente vantato di aver
attuato «una tattica ingegnosa», per attirare la Enrica Lexie nel porto
di Kochi: «Eravamo nel buio più completo riguardo a chi avesse potuto
sparare ai pescatori. Grazie ai sistemi radar abbiamo localizzato
quattro navi che si trovavano in un raggio fra 40 e 60 miglia nautiche
dal luogo dell’incidente», ha spiegato l’alto ufficiale. Gli indiani,
riporta Biloslavo, avrebbero dapprima chiesto via radio se qualcuno
«avesse respinto per caso un attacco dei pirati», domanda alla quale
solo gli italiani hanno rispondono positivamente. «Quello che Basra non
dice - spiega il giornalista - è l’inganno comunicato via radio:
“Tornate in porto per riconoscere i pirati”».
Enormi contraddizioni emergono poi dalla ricostruzione dei fatti. Come raccontato proprio su Linkiesta dal professor Arduino Paniccia,
professore di Studi Strategici all’Università di Trieste, «i verbali
della polizia e della Guardia Costiera di Kochi riportano che il
peschereccio St. Antony con le due vittime a bordo è rientrato in porto
alle 18:20. A quell’ora il sole a Kochi era ancora abbastanza alto,
essendo tramontato alle 19:47. Dunque, secondo le autorità il mesto
ritorno del peschereccio sarebbe avvenuto alla luce del sole. Peccato
che i filmati delle televisioni locali che registravano l’evento siano
stati girati alle 22:30, in piena notte, come attestato dagli stessi
reporter indiani e riscontrabile su YouTube».
Grosse incongruenze anche sul numero di colpi sparati. Per l’India, sul
peschereccio (poi affondato in un incidente poco chiaro nelle settimane
successive alla sparatoria, rendendo quindi impossibile ogni successivo
rilievo) si sarebbero trovati i fori di 16 proiettili, oltre ai quattro
che hanno ucciso i due pescatori, su un totale di oltre 60 colpi che
sarebbero stati sparati dai militari italiani. Latorre e Girone, però,
hanno esploso complessivamente 20 colpi a scopo di avvertimento, in aria
e in acqua, a distanze di 500, 300 e 100 metri, così come prevede il
protocollo di ingaggio in caso di sospetto attacco pirata. Il numero dei
colpi esplosi è confermato dalle registrazioni di bordo e dalle
successive verifiche sul munizionamento. E risulta alquanto improbabile
che due militari d’esperienza perfettamente addestrati possano aver
colpito accidentalmente il natante sospetto con tutti e 20 i colpi
esplosi in aria e in acqua.
Le autorità indiane, inoltre, si sono rifiutate di mostrare i corpi
pescatori, poi cremati dopo breve tempo in ossequio alle usanze locali.
Dubbi anche sugli esiti dell’autopsia commissionata dal tribunale, che
riporta il rinvenimento di un proiettile di un calibro riferibile al
7,62 x 54, di fabbricazione sovietica, totalmente diverso dunque dal
5,56 x 45 adottato dalle forze armate della Nato, Italia compresa.
Eppure, la perizia conclusiva depositata in tribunale fa
inspiegabilmente riferimento al nuovissimo fucile d’assalto Arx 160, in
dotazione sperimentale alle forze speciali italiane, ma non ai fucilieri
del San Marco, armati invece con i più vecchi Ar 70/90. Curioso anche
il fatto che ai maggiori dell’Arma dei Carabinieri Paolo Fratini e Luca
Flebus, periti balistici di parte italiana, sia stato concesso di
assistere solo ai test di tiro sulle armi prelevate a bordo dell’Enrica
Lexie.
Dieci indizi non fanno una prova, ma l’atteggiamento delle autorità
indiane dovrebbe far sorgere più di un dubbio circa l’effettiva buona
fede. E imporre una linea più ferma di quella adottata finora, che ha
fruttato solo dilazioni e figuracce.
Invece a sfavore dei due marò ha giocato anche l’atteggiamento
remissivo della diplomazia italiana, che nell’intento di mostrarsi
collaborativa nei confronti delle autorità del Kerala ha finito per
rivelarsi autolesionista. Come nel caso dei 10 milioni di rupie versati
alle famiglie dei pescatori uccisi: «Un atto di generosità», come ha
spiegato il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, interpretato però
dai media indiani come una palese ammissione di colpa. O come per il
“riscatto” di 30 milioni di rupie per il rientro in patria della Enrica
Lexie. Un errore anche non presentare una controperizia, avallando
pedissequamente quella dell’accusa, forse nel goffo tentativo di
apparire concilianti e affrettare così lo scioglimento del nodo
giurisdizionale. Senza contare l’autogol diplomatico di affidare la
trattativa al sottosegretario di stato Staffan De Mistura, considerato
dall’India un “amico del Pakistan”, acerrimo rivale di Nuova Delhi.
Gravissimo, poi, non aver esercitato poi la giusta pressione in sede
europea, alle Nazioni Unite, o con gli Stati Uniti, usando la leva
politica della partecipazione alle missioni internazionali per
richiedere un supporto fattivo contro le palesi violazioni del Diritto
Internazionale da parte indiana. Proverbiale in proposito la gaffe della
baronessa Catherine Ashton, capo della diplomazia di Bruxelles,
talmente disinformata sui fatti da definire i due marò «contractors».
Così, a dispetto della contraddittorietà dell’impianto accusatorio,
la traballante tesi indiana continua ad essere l’unica contemplata tanto
dalla diplomazia quanto dai media. Sempre che se ne parli ancora,
ovviamente.
Anche se qualcuno, come il giornalista Biloslavo, ha provato a
percorrere la pista cingalese. Dal 1980 ad oggi, infatti, sono stati 530
i pescatori indiani uccisi dalla marina dello Sri Lanka in una guerra
mai dichiarata per il controllo delle zone di pesca, tra odio etnico,
interessi economici, ragioni strategiche e realpolitik. E l’insistenza
indiana nel dissimulare questa crisi perseguendo i due marò anche a
fronte dell’inconsistenza delle accuse, avrebbe dovuto per lo meno
suscitare qualche perplessità.
(Di Luca Pautasso - Fonte)
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