Il “Pocket World In Figures 2013” dell’Economist è un libricino di
classifiche. I campi in cui l'Italia fa molto peggio degli altri sono
tanti, dalle tecnologie alla competitività. Temi centrali, di cui non
sentirete parlare in campagna elettorale e che mettono un dubbio: ma
davvero le tasse sono il problema più grave?
Nella campagna elettorale in corso si parla di tasse (troppe) e di
posti di lavoro (pochi). Lo slogan che va per la maggiore è che, se le
prime calassero, i secondi salirebbero. Non tutti la pensano esattamente
così, naturalmente, ma la discussione va avanti su questo binario, come
se nient’altro (o poco altro) avesse importanza. C’è una cosa di cui si
parla poco: l’Italia.
C’è un librino appena uscito che suggerisce quali sono i problemi del nostro Paese con l’arida forza delle cifre. È il “Pocket World In Figures 2013” (il mondo in cifre) dell’Economist.
È un librino arido, 250 paginette di classifiche che mettono a
confronto i diversi Paesi del mondo nei settori più disparati:
l’economia, la finanza, il turismo, l’industria, le tecnologie, la
demografia e chi più ne ha, più ne metta. L’Italia non fa una gran bella
figura. Basta sfogliarlo per capire che forse le tasse non sono il
problema più grave del nostro paese.
Cominciamo dal Global Innovation Index. Si tratta di un indice, creato con la collaborazione di un’agenzia dell’Onu (World Intellectual Property Organization),
calcolato tenendo conto: le istituzioni e le infrastrutture, il
capitale umano e la ricerca, il livello di sofisticazione del mercato e
dell’ambiente in cui si svolge il business. In questa classifica siamo
trentaseiesimi. Prima di noi figurano (citiamo a caso) Paesi come
Portogallo e Malesia, Ungheria e Latvia.
In tutti i settori che hanno a che fare con la ricerca e la tecnologia abbiamo accumulato un ritardo storico rispetto agli altri paesi avanzati. Nella technological readiness
(cioè nella prontezza ad adottare le nuove tecnologie), siamo al
49esimo posto, staccati non solo dalla Spagna (19esima) e dal Portogallo
(22esimo), ma anche da paesi come Malesia, Sudafrica, Tailandia e
Messico.
Persino la Giamaica fa meglio di noi. Significa che
siamo lenti a innovare, facciamo resistenza al cambiamento, siamo restii
ad accettare il fatto che le tecnologie rendano più efficiente il
nostro lavoro e la nostra vita.
D’altra parte nella diffusione della rete Internet a banda larga
siamo solo 32esimi (dopo Estonia, Spagna e Slovenia). In quella dei
computer 25esimi: Canada, Olanda e Svizzera hanno un numero di pc ogni
cento persone che è più del doppio del nostro. Nella percentuale di
utenti Internet siamo oltre il 60esimo posto. E, ciliegina sulla torta,
nella ricerca siamo il fanalino di coda: spendiamo l’uno per cento del
pil, tra un terzo e un quarto di paesi come Israele (4,4%), Finlandia
(3,9), Sud Corea (3,7), Svezia (3,4).
Passiamo al “Business Environment”. Si tratta di un indice, calcolato dalla Intelligence Unit dell’Economist,
creato per misurare la qualità dell’ambiente in cui si fa business.
Questo modello prende in considerazione i criteri adottati dalle aziende
internazionali per decidere in quali Paesi investire, sulla base delle
previsioni per i prossimi cinque anni. Ebbene, in questa classifica
l’Italia si piazza al 73esimo posto (su 82 paesi). Le aziende trovano
più attraente investire non solo in Turchia e Romania, ma persino ad
Antigua, nell’isola di Tonga, in Botswana, in Montenegro e in Rwanda.
Avete letto bene: in Rwanda.
Facciamo una pausa. Molti italiani rifiutano con spocchia queste classifiche.
Si chiedono perché mai dovremmo farci “misurare” da istituzioni
internazionali. E certo queste statistiche non sono oro colato. Può
darsi che in alcuni casi semplifichino troppo la realtà. Può darsi. Un
indizio non è una prova, ma mille indizi dovrebbero almeno impensierire.
È curioso che l’Italia prenda brutti voti quasi in tutte le materie.
Per esempio nella “competitività globale”.
Di che cosa si tratta? È un indice calcolato dall’americana Heritage Foundation
(un think tank conservatore) che valuta lo stato delle istituzioni e
delle infrastrutture di un paese, della sanità, dell’istruzione,
dell’efficienza del mercato e altro. In pratica è la sintesi di una
molteplicità di altri indici, alcuni dei quali abbiamo già incontrato.
In questa classifica l’Italia è 40esima. Meglio di noi fanno paesi come
Spagna e Turchia, Messico e Kazakhstan. Il quarantunesimo è il Perù.
Date queste premesse diventa più chiaro perché,
ormai da oltre un decennio, l’economia italiana sia andata a picco.
Nella classifica della crescita, negli ultimi dieci anni (2001-2011)
l’Italia risulta il terz’ultimo Paese al mondo (190 paesi): è cresciuta
solo dello 0,2% in dieci anni, come dire che è rimasta ferma. Hanno
fatto peggio di noi solo lo Zimbabwe (-5,1%) e Haiti (+0,1%), il primo
devastato da Mugabe, il secondo da un catastrofico terremoto. Nella
classifica della crescita dei servizi stiamo appena meglio: siamo
quart’ultimi, prima di Zimbabwe, Guinea e Haiti.
Come è potuto accadere? Perché l’ottava economia del mondo
(non siamo più settimi, il Brasile ci ha superato negli ultimi anni)
non riesce più a volare? Evidentemente è accaduto qualcosa di profondo
(che l’alta tassazione non riesce a spiegare) se da un decennio (da
quando gli effetti della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica
hanno cominciato a mostrarsi in modo sempre più palese e crudele) il
paese sembra paralizzato. Certo la sinistra ha ragioni da vendere quando
sostiene che negli ultimi dieci anni di egemonia berlusconiana il paese
non è stato governato. Ma in quali programmi elettorali sono indicate
le soluzioni concrete per uscire dal tunnel? In fondo basterebbe andare a
vedere quello che hanno fatto nello scorso decennio la Germania e i
paesi del Nord Europa (Finlandia, Svezia, Olanda e Norvegia) per capire
quali riforme si dovrebbero attuare per migliorare la pubblica
amministrazione, rendere più efficiente il mercato, attirare gli
investimenti, migliorare lo stato dell’istruzione. Tra l’altro, nella
classifica delle tasse, siamo quarti al mondo, ma i primi tre
(Danimarca, Svezia e Belgio), sono paesi in discreta salute, segno che
un’alta tassazione (e un ottimo welfare) potrebbero risultare
sostenibili in presenza di riforme adeguate. Ma quali riforme? Qualcuno
ne ha sentito parlare?
Eppure il declino è evidente in una molteplicità di settori. Persino
nel turismo continuiamo a scendere in graduatoria. Nel 2010 (ultimo
dato disponibile) siamo il sesto paese al mondo, con 45 milioni di
turisti. Sopra di noi non ci sono solo Francia (77), Indonesia (68)
Stati Uniti (54), ma anche la Cina e la Spagna, entrambe con 52 milioni
di turisti.
Nell’industria andiamo male: nell’output industriale siamo ottavi
nella classifica della bassa crescita: ci fanno compagnia paesi come
Namibia, Grenada, Malta, Moldova e, ancora Zimbabwe. Qualcuno se la
prende con l’economia sommersa, che certo è un problema serio. Ma non
siamo certo gli unici ad avere questo problema. Nella classifica del
sommerso siamo tredicesimi: davanti a noi figurano paesi come Malta,
Polonia, Grecia, Ungheria, Portogallo, Spagna e Belgio.
Siamo un Paese di automobilisti: il sesto al mondo,
per la precisione, con 631 automobili ogni mille abitanti (dopo Brunei,
Portorico, Islanda, Lussemburgo e Nuova Zelanda). Compriamo molte auto
(oltre due milioni) ma ne produciamo poche (790 mila), la metà rispetto
alla Gran Bretagna (un milione 460 mila) e un terzo rispetto alla Spagna
(due milioni 253 mila). Ma perché paesi che non hanno marchi nazionali
nel settore devono vantare una produzione due, tre maggiore rispetto
alla patria della Fiat e dell’Alfa Romeo? In questo caso le tasse hanno
probabilmente un peso, ma bastano a spiegare una simile anomalia?
Qualche partito ha una vaga idea di come invertire la rotta e attrarre
produttori stranieri? Non se ne vede traccia.
Si potrebbe andare avanti a lungo nella descrizione del declino del Paese.
In Borsa, siamo ventesimi al mondo come capitalizzazione di mercato (la
metà della Spagna, che è decima). Siamo trentaduesimi per numero di
aziende quotate, trentasettesimi per i profitti sul mercato azionario
globale.
Ci sono alcuni settori della nostra vita pubblica
che dall’estero vengono osservati con raccapriccio e di cui in Italia
non si discute quasi. Prendiamo la classifica globale sulla libertà di
stampa (Global Press Freedom), che ogni anni viene stilata
dall’associazione indipendente Freedom House. Ormai da diversi anni
l’Italia è stata inserita nell’elenco dei “paesi parzialmente liberi”.
Nell’ultima edizione siamo gli unici (assieme alla Turchia) tra i 25
paesi occidentali a comparire in questo elenco. A livello internazionale
figuriamo al settantesimo posto (a pari merito con Guyana e Hong Kong),
dopo Paesi (anch’essi parzialmente liberi) come Cile, Namibia e Corea
del Sud. In cima alla classifica, ancora una volta, da paesi come
Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Belgio.
Qualche partito ha presentato proposte per migliorare lo stato della libertà di stampa
nel nostro Paese e la nostra visibilità internazionale? Non risulta. Le
classifiche vengono snobbate nel nostro Paese. La competizione non
piace. Le nostre università compaiono oltre quota duecento nelle
classifiche internazionali utilizzate dai migliori studenti al mondo per
orientarsi nella scelta della propria sede. Eppure nessun partito ha
presentato un serio progetto per il rilancio dell’università italiana
che vada oltre generiche dichiarazioni di principio. Ognuno dice che
bisognerebbe investire di più. Ma per fare cosa?
Per concludere: nel Corruption Perception Index
(la percezione della corruzione) siamo al 72esimo posto al mondo
assieme alla Bosnia Erzegovina (primi della classe sono i danesi). Che
ci sia un legame? L’immagine dell’Italia che rimbalza dall’estero è
quella di un paese di scarsa qualità che rifiuta di cambiare. E i
partiti, che dovrebbero fare cultura oltre che occupare il potere,
dovrebbero fornite precise ricette per uscire dalla palude. Ma non lo
fanno.
(Di: Enrico Pedemonte - Fonte)
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