Pensate a una persona ricca che ha una bella villa in un immenso parco
nazionale con uno spettacolare panorama. E pensate che questa persona,
invece di essere felice per la bellezza che la circonda, si concentri
solo sull’estensione del suo piccolo possedimento e sul confronto tra
questo e le proprietà di altri con i quali è solito paragonarsi. Emerge
così una delle tante dimensioni di povertà, quella nella quale – come
mi piace dire – «povero è colui che non sa godere di ciò che non
possiede». L’implicazione di quest’affermazione è che la nostra
ricchezza è la somma dei nostri averi personali più la quota ben
superiore dei beni comuni di cui possiamo godere. Un giovane che gira
l’Europa con il biglietto ferroviario Interrail sa benissimo di che
cosa parlo e, pur non essendo percettore di reddito, è "ricco" e sa
godere dell’immensa ricchezza che il mondo gli mette a disposizione.
Per questo stesso motivo un "povero" che vive sul lungomare di Rio è
certamente più "ricco" di un povero che vive in un sobborgo degradato
di una grande metropoli che non possiede quell’incredibile bene
naturalistico a disposizione di tutti che invece ha la città
brasiliana.
Ciò di cui stiamo parlando non è speculazione
filosofica ma piuttosto qualcosa che dovrebbe essere ben presente nelle
menti dei nostri politici e nelle loro agende. Com’è noto esiste una
tendenza naturale al degrado, per la quale un mercato senza regole
tende a deteriorare i beni comuni e i beni pubblici a sostituirli
progressivamente con beni privati. Nel gergo tecnico, gli economisti
sanno che la fragilità dei beni comuni sta nell’impossibilità di
escluderne la fruizione e nel rischio che tale fruizione porti a un
eccesso di sfruttamento e, dunque, a un deterioramento degli stessi.
La
nostra "civiltà" nel corso degli ultimi decenni ha progressivamente
depauperato il valore di beni pubblici e/o comuni fondamentali come i
legami relazionali (sopratutto quelli familiari e comunitari), il
patrimonio naturalistico, storico e archeologico. La perdita di beni
comuni legati alle relazioni è stata compensata da una crescita di beni
privati surrogati "sostituti" (spese per la protezione e la sicurezza,
attività di tempo libero o virtuali, ecc.). Ancora oggi, nonostante i
progressi scientifici sul tema della misurazione del benessere e il
consenso internazionale sull’esigenza di ridefinizione della ricchezza
delle nazioni, leggiamo analisi vecchie che considerano l’imperativo
della crescita senza essere capaci di distinguere tra crescita
sostenibile e crescita "impoverente" e senza seriamente preoccuparsi
degli effetti esterni – sociali e ambientali – dei diversi sentieri di
crescita. Eppure politici e aziende dovrebbero aver imparato ormai
molto bene che il disinteresse per le conseguenze sociali e ambientali
dei sentieri di sviluppo prescelti è miope, perché prima o poi i nodi
vengono al pettine, distruggendo lavoro. Se l’Ilva, come tante aziende
ormai fanno, avesse investito nell’innovazione ambientale come risorsa
competitiva (invece che disperdere risorse per evitare di dover pagare
le conseguenze dei suoi mancati investimenti) non si troverebbe oggi
nella situazione in cui si trova.
C’è da chiedersi se i candidati alle prossime elezioni si rendano conto che la nuova "mappa del benessere" disegnata da Istat e Cnel ascoltando gli italiani mette beni comuni, beni pubblici e beni intangibili (come paesaggio, patrimonio culturale, sicurezza) ai primi posti della classifica assieme al benessere economico. E che quindi è anche su questi indicatori che si giocherà il consenso nei loro confronti. C’è da chiedersi se si rendano conto che sta qui il fattore chiave per generare un vantaggio competitivo (e non delocalizzabile all’estero) che consente di creare valore in numerosi settori privati come il turismo, la produzione enogastronomica e molti altri.
Al momento, ciò che risulta agli atti è purtroppo una prevalente e desolante incapacità di andare oltre il disco rotto di un mero obiettivo quantitativo per valutare il rapporto tra crescita e felicità (socialmente e ambientalmente sostenibile) dei cittadini. Questa povera incapacità di capire, vedere e valutare i beni che ci fanno davvero ricchi è un lusso che non avremmo dovuto concederci e che non possiamo più permetterci.
(Fonte)
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