martedì 3 dicembre 2013

Euroscettici, il partito che miete sempre più consensi. E se avanzano così

Oltre i populisti tv, la mappa politico-culturale (non banale) degli euroscettici in doppiopetto. 



«La disoccupazione giovanile? Si risolve agendo contro l’euro. Se si svaluta del 20-30 per cento, il lavoro ritorna perché l’Europa diventa competitiva. Ci sono due strade: o si agisce sulla moneta o si tagliano ancora di più i salari. Vogliamo portarli a duecento euro al mese? C’è qualcuno che pensa di farcela?».

«Essendo politicamente improponibile fare sopravvivere le economie più deboli con trasferimenti dal nord, bisognerà fare quello che la teoria economica dice che si deve fare quando delle economie non hanno i requisiti per stare insieme: semplicemente separarle».

Sono due affermazioni simmetriche, ma provengono da persone che più diverse non si può, quanto a profili professionali e posizioni politiche. La prima sembra l’analisi di un keynesiano di sinistra, la seconda di un ortodosso della scuola germanica. Entrambe cantano il de profundis alla grande scommessa: creare una moneta senza sovrano e approfondire l’unione tra Paesi e popoli cominciando in qualche modo dalla fine. Ebbene, una frase è di Alberto Bagnai, professore associato all’università di Pescara diventato un araldo, brusco e ciarliero, degli anti-euro italiani. L’altra è di Marine Le Pen che macina successi in Francia chiedendo libertà di manovra per gli stati nazionali e tutto il potere ai francesi (ma per il momento non diciamo per il momento chi ha detto che cosa).

Sinistra e destra unite nella lotta di qua e di là dalle Alpi? Colpa della crisi economica che non finisce mai di finire. Colpa di una moneta che anziché unire divide. Colpa di una fase storica nella quale, uscito di scena il Grande Nemico (comunista) si è persa la necessità e l’urgenza di formare una identità, un popolo, uno stato europeo. Certo è che in vista delle elezioni del maggio prossimo, in tutti i Paesi una pluralità di forze politiche e culturali sta maturando una sorta di piattaforma trasversale che ha per comune denominatore il ritorno alla moneta e alla sovranità nazionale.

È una novità. Ed è una novità nella novità che l’Italia, già considerata un po’ per ignoranza un po’ per pigrizia mentale il più europeista dei Paesi, entra di gran carriera nella pattuglia degli anti-euro.

Le ragioni di questo cambiamento sono molte, alcune del tutto evidenti. Più tempo passa più si capisce che il Paese non ce la fa a tenere il passo: la moneta è troppo forte, il debito troppo alto e la classe dirigente troppo debole. La politica neo-mercantilista della Germania, i giudizi intrisi di luoghi comuni della sua stampa, le apparizioni televisive di corrispondenti tedeschi con il ditino alzato e l’aria da maestrini saputelli, autentici sgarbi e sgambetti (come quelli dei quali è stata vittima Unicredit che ha la colpa di aver osato comperare la Hypovereinsbank che prima nessuno voleva e adesso in molti ambiscono di riavere), e via via continuando; tutto ciò ha favorito questo rovesciamento del mood nazionale in chiave non solo germanofobica, ma decisamente eurofobica.

La Malfa è un critico d’antan (nel lontano 2000 ha pubblicato un libro sui limiti, gli errori e i pericoli di una unità monetaria senza unità politica). La sua polemica sul piano economico è di impronta post-keynesiana, echeggiando le posizioni del proprio maestro Franco Modigliani. Sul terreno politico resta erede di quegli intellettuali che, dal manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli in poi, si erano attribuiti la primogenitura dell’europeismo italiano (il padre Ugo non ha mai cessato di considerare l’aggancio all’Europa il migliore antidoto al rischio che l’Italia finisse sommersa nel Mediterraneo). Tuttavia oggi riconosce che siamo vittime di un azzardo rivelatosi perdente: «Tagliare i ponti per costringere gli europei a unirsi si è rivelato fatale, infatti i benefici dell’euro non si sono visti perché avrebbero avuto bisogno di un cammino spedito verso uno stato federale compiuto. Prospettiva più lontana di un tempo, anche per colpa dell’euro».

Paolo Savona ha sviluppato una serie di critiche puntuali alla Banca centrale europea, al fiscal compact, al rifiuto di mettere in comune i debiti, insomma alle più gravi debolezze della euro-costruzione e ha presentato anche un vero e proprio manifesto per riformare le istituzioni e le politiche dell’Unione. Savona è in sintonia con diversi economisti che provengono dalla Banca d’Italia e non hanno condiviso la linea Ciampi-Paoda Schioppa prevalsa in Italia gli anni ’90.

È vero, fu Guido Carli (del quale Savona è stato a lungo il braccio destro) a firmare il Trattato di Maastricht, ma è toccato a Carlo Azeglio Ciampi negoziare l’ingresso nella moneta unica, il tasso di conversione della lira, i tempi e i modi. Proprio allora si è aperta una ferita mai ricomposta. Di recente, commemorando Paolo Baffi, molti portavano ad esempio il modo in cui l’allora governatore negoziò l’adesione della lira al sistema monetario europeo nel 1978, ottenendo il massimo di flessibilità per la valuta italiana. Anche se non fa parte dello stesso circolo intellettuale, su un fronte simile si ritrova Antonio Fazio che da governatore gestì con abilità e lealtà la politica monetaria abbattendo l’inflazione e creando le condizioni per l’adesione, ma non cessava di mettere in guardia dalla troppa fretta: l’Italia a suo avviso non era pronta. Una posizione condivisa, tra gli altri, da Cesare Romiti e da Giuseppe De Rita.

Nella schiera degli anti-euro in doppiopetto vanno inseriti a pieno titolo i monetaristi di scuola americana come Antonio Martino il quale ricorda sempre quando Martin Feldstein scriveva che la moneta unica non avrebbe retto alla prima seria crisi, in sintonia con un keynesiano duro e puro come Paul Krugman. Sembra un paradosso, ma negli Sati Uniti è difficile concepire una moneta senza la piena disponibilità di usarla per tamponare la congiuntura sfavorevole, contenere l’inflazione, aumentare l’occupazione, finanziare le imprese e le famiglie. O far fronte alle obbligazioni dei governi. È vero, a differenza di una certa vulgata, anche negli Usa, dalla metà dell’Ottocento, in seguito a una catena impressionante di default, i singoli stati sono obbligati al pareggio annuo del bilancio. Dunque, non è la banca centrale a farsi carico della loro incapacità di finanziare le spese con le entrate. Tuttavia esiste un governo federale che eroga i trasferimenti ai cittadini. I contadini del Midwest non possono sopravvivere senza i sussidi della politica agricola decisa a Washington. Ciò vale anche per i disoccupati o chi tira avanti con il welfare.

Gli europei, invece, sono lacerati dal dilemma della sovranità: se non esiste un principe sovranazionale allora è meglio tornare ai principi nazionali, se non si può fare una federazione allora meglio una confederazione di stati dall’Atlantico agli Urali, come diceva il generale de Gaulle e come rilancia oggi Marine Le Pen. Un’alternativa paralizzante, perché nessuno è in grado di compiere il passo decisivo in una direzione o nell’altra, tanto meno Angela Merkel.

La politica tedesca è accusata di egoismo un giorno sì un giorno no dalle colonne diLibero, delGiornale, delFatto quotidiano, dell’Unità. Molte critiche nascondono un mascheramento dell’amara verità: la maggioranza degli italiani non solo non è in grado, ma non vuole ridurre l’assistenzialismo, aumentare gli orari di lavoro e l’efficienza, contenere i privilegi, tagliare le rendite. L’Italia è davvero più ricca della Germania, come dice la Bce, se mettiamo insieme anche il patrimonio immobiliare, ed è altrettanto vecchia; ma è più immobile, perché i tedeschi hanno difeso il loro modello rinnovandolo. Un tasso di disoccupazione tra il 5 e il 6% appena non è frutto solo della modesta crescita, ma anche di un mercato del lavoro più flessibile ed efficiente.

La crisi dell’euro non sta solo negli errori della sua costruzione, ma è anch’essa conseguenza della globalizzazione - hanno sottolineato alcuni interlocutori nel dibattito della Fulm. L’economia sociale di mercato è fondata su un patto per dividere il valore aggiunto tra salari e profitti in modo consensuale e dentro i confini nazionali, con l’intervento protettivo dello stato. È questa la base sulla quale poggia una banca centrale eccentrica rispetto a tutte le altre, a cominciare dalla Federal Reserve e dalla Bank of England, il cui scopo è garantire la stabilità monetaria e sociale, invece dell’instabile sviluppo. Dietro il totem del rigore, insomma, non c’è solo l’ossessione per l’iperinflazione di Weimar, ma la difesa del neocorporativismo nato negli anni ’60-’70. Ebbene, proprio tutto questo sistema viene spiazzato dalla concorrenza dei Paesi in via di sviluppo, dalla mobilità del capitale su scala mondiale e dalla tecnologia. Non sfugge neppure il Modell Deutschland.

Ma dall’euro si può uscire? Alla domanda non ci sono risposte facili. Molti, a cominciare da Bagnai, sostengono che non è poi un gran problema: la nuova lira verrebbe svalutata del 30% e ciò aiuta l’export. Altri stimano che l’aggiustamento sarebbe molto più drastico, almeno il 40 o il 50% secondo i calcoli dell’Ubs. Quanto all’export, rappresenta solo un quinto del prodotto lordo. Il resto verrebbe schiacciato dalla conseguente inflazione e dalla distruzione della ricchezza. Non si può trascurare, infatti, l’effetto sui risparmi denominati in euro; Argentina docet, un’Argentina la cui inflazione ancor oggi resta incalcolabile tanto che sia la Banca Mondiale sia il Fondo Monetario ritengono inaccurata qualsiasi cifra. In più, occorre chiudere le frontiere, istituire un controllo sui movimenti dei capitali e sui cambi, insomma abbandonare anche il mercato unico europeo.

Giorgio La Malfa ammette che il protezionismo diventa un corollario quasi inevitabile. Del resto, le politiche keynesiane sono entrate in crisi quando gli stati nazionali non hanno più potuto manovrare in autonomia il fisco e la moneta. Savona ritiene che bisogna darsi in ogni caso una exit strategy, se non altro per aumentare la propria capacità contrattuale a Bruxelles e a Francoforte. E si chiede: «Ma veramente la Banca d’Italia e il Tesoro non l’hanno preparata sia pure come ipotesi di scuola?». È una domanda cruciale. Perché quel che poi interessa alla gente, al di là delle dispute dottrinarie, è se la fine dell’euro sarà la luce fuori dal tunnel o la porta verso il baratro finale.

I fenomeni monetari, ricordava lo storico Marc Bloch, «a un tempo barometri di movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse, si collocano tra i più degni di attenzione, i più rivelatori, i più carichi di vita». Per questo il dibattito sull’euro è cruciale. Gli anti lo hanno capito meglio dei pro i quali, un po’ per timore di toccare nervi scoperti un po’ per supponenza, hanno evitato di scendere in campo con la stessa passione e la stessa efficacia.

PS. Ogni indovinello che si rispetti deve avere la sua soluzione: la prima frase è di Marine Le Pen, la seconda di Alberto Bagnai.
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