mercoledì 20 agosto 2014

Presenza e interessi italiani in India e il "caso" Marò

Un sunto cronologico della triste vicenda dei due fucilieri del San Marco trattenuti in India dal 18 febbraio 2012 (la cronologia arriva fino al febbraio 2014) preceduto da presenze italiane in India e interessi. Saranno mica questi ultimi ad aver condizionato ben 3 governi e il Presidente Napolitano nella "faccenda"?


Presenza italiana in India

     Si può stimare un numero totale di oltre 400 entità legali e stabilimenti italiani in India, presenti in diverse forme, raggruppabili in tre categorie principali: sussidiarie possedute al 100% dalla casa madre italiana, Joint Ventures (soluzione preferita dalle PMI) o uffici commerciali di rappresentanza.
     Le realtà aziendali italiane in India danno lavoro ad oltre 44.000 persone, prevalentemente indiane, e sono principalmente concentrate nei due maggiori poli industriali del Paese: la Capital Belt di Delhi-Gurgaon-Noida e l’area di Mumbai-Pune (entrambe ben oltre le 100 presenze). Il terzo e quarto polo di concentrazione fanno riferimento rispettivamente alla città di Chennai in Tamil Nadu e alla città di Bangalore in Karnataka (entrambe sotto le 50 presenze). Di rilievo minore la città di Calcutta e dintorni (appena una dozzina di imprese italiane, ma si segnala il recente nuovo investimento della società chimica Endura).
     In prospettiva stanno tuttavia emergendo nuove destinazioni strategiche, tra le quali in particolare lo Stato del Gujarat e quello del Rajasthan, ove cominciano a registrarsi i primi stabilimenti italiani. Fiat e Piaggio sono state le prime società italiane ad entrare nel mercato indiano, rispettivamente negli anni 50 e 60.
     La prima vera ondata di investimenti italiani si è tuttavia avuta solo negli anni Novanta, come diretta conseguenza della stagione di liberalizzazioni economiche attuata dall’allora Governo indiano.  Da allora le imprese italiane hanno continuato a guardare con estremo interesse al mercato indiano, anche se la loro presenza rimane ancora al di sotto delle potenzialità. Il settore dell’automotive (compresa la componentistica) rappresenta dunque uno dei segmenti con maggiore presenza di imprese italiane in India.
     Tutti i nostri principali players nazionali sono presenti (es. Fiat, Piaggio, Magneti Marelli, Brembo, Oerlikon-Graziano con stabilimenti produttivi mentre Pirelli ha solo un ufficio commerciale), ma anche l’indotto italiano del settore, composto principalmente da PMI, ha trovato buone opportunità di inserimento su questo mercato. Simile il discorso per il segmento dei macchinari agricoli, dove si rilevano le significative presenze di Carraro, New Holland, Maschio Gaspardo e altre di minori dimensioni.
     Tra gli altri settori di importante presenza italiana si segnalano quello dell’ingegneria, custruzioni ed infrastrutture (es. Salini-Impregilo, CMC di Ravenna, Maccaferri, Italcementi Saipem, Maire Tecnimont, Techint, Tecnip, Mapei, ecc. mentre forte è l’interesse manifestato per l’India anche dal Gruppo Ferrovie dello Stato), dei prodotti alimentari (Bauli, Ferrero, Lavazza, Perfetti Van Melle, ecc), dell’energia comprese le fonti rinnovabili (es. ENI, Ansaldo Energia, Solesa, Nidec Ansaldo Sistemi Industriali, Ravano Green Power, Leitner, ecc), della meccanica e impianti/componentistica industriale in senso ampio (es. Bonfiglioli, Danieli, Magaldi, Boldrocchi, Ansaldo Caldaie, ecc),  del tessile (Gruppo Coin, Benetton, Tessitura Monti, Savio e diverse PMI che fanno “sourcing” e controllo qualità per grandi case di moda), del design d’interni e segmento lusso (Artemide, Poltrona Frau, Natuzzi, Damiani, Ermenegildo Zegna, Armani e numerosi marchi della moda italiana, se pure presenti con un numero di punti vendita ancora limitato ecc).
     Tra gli altri players italiani di rilievo si segnalano Prysmian e ST Microelectronics nel segmento ITC e Artsana/Chicco e Luxottica in quello dei consumer goods. Essendo l’India il primo importatore mondiale di armamenti militari sono particolarmente attente a questo mercato le aziende del settore difesa, dal gruppo Finmeccanica, a Beretta, da Elettronica a Fincantieri.  Quanto al segmento finanziario, oltre al Gruppo Assicurazioni Generali, sono presenti in India, principalmente nel polo finanziario di Mumbai, una dozzina di banche italiane, unicamente con uffici di rappresentanza (solo BNL- BNP Paribas ha anche filiali commerciali).
     Nonostante la difficile congiuntura internazionale ed il rallentamento della crescita in India dell’ultimo biennio, nel corso del 2013 si è assistito ad espansioni produttive da parte di importanti players italiani quali Carraro, Danieli, Case New Holland, Magneti Marelli; al contempo, dai costanti contatti della nostra Ambasciata con le aziende italiane colà stabilite, emerge come molte abbiano ulteriori piani di investimento per gli anni a venire, al fine di cogliere le opportunità offerte nel medio-lungo periodo dall'immenso mercato indiano.
     Sul fronte delle principali difficoltà affrontate dalle aziende italiane, l’ostacolo principale è rappresentato dalle carenze infrastrutturali e dalla lentezza e farraginosità delle procedure burocratiche (ottenimento di permessi e licenze, difficoltà nell’acquisizione di terreni, scarsa certezza giuridica e trasparenza della normativa). Il mercato indiano continua tuttavia ad essere percepito come altamente promettente: tra i fattori di attrazione vi sono la disponibilità di una forza lavoro a basso costo, ma tendenzialmente qualificata e ben preparata, l’ampiezza di un mercato di 1,2 miliardi di persone unita al dinamismo di una classe media di potenziali consumatori in continua crescita (già stimata in oltre 200 milioni di persone), l’eccellenza di alcuni segmenti del terziario (ad es. nel settore IT), le basse tensioni sociali nella forza lavoro. 
Caso AgustaWestland
     È recentissima la cancellazione da parte indiana del contratto da 556 milioni di Euro con AgustaWestland per la fornitura al Ministero della Difesa indiano di 12 elicotteri VVIP AW-101.
     Come noto, Agusta-Westland si era aggiudicata nel febbraio 2010 una gara del Governo indiano per l’acquisizione di 12 elicotteri da trasporto passeggeri da destinare alle esigenze  delle alte cariche del paese. Il valore della commessa era di 560 milioni di Euro. L’azienda incassò al tempo un acconto pari al 30% della commessa contro la consegna dei primi tre elicotteri. All’indomani delle note vicende giudiziarie del Gruppo, il Governo indiano dichiarò di ritenere fondate le accuse rivolte all’azienda minacciando la cancellazione del contratto.
     Da allora, tale vicenda ha assunto sviluppi procedurali e legali confusi e contrastanti, andando spesso a sovrapporsi con la questione dei nostri due Fucilieri di Marina, sino all’epilogo del 2 gennaio u.s. che ha visto, per l’appunto, la cancellazione del contratto. Ad oggi, le parti in causa, di comune accordo, hanno rimesso ad un arbitrato internazionale la risoluzione del contenzioso. 
Relazioni culturali, scientifiche e tecnologiche
     Le relazioni culturali sono regolate dall'Accordo Culturale del 2004 e i successivi protocolli esecutivi. E’ in corso il negoziato per il rinnovo del protocollo esecutivo triennale 2012-2014. Come tutti gli accordi, anche questo contiene la clausola del “limite delle risorse disponibili” (sarà la legge di ratifica ad assegnare eventualmente le risorse necessarie).
     La cooperazione scientifica e tecnologica italo-indiana è regolata dall’Accordo firmato nel luglio 2003. Così come la cooperazione culturale, anche quella scientifica e tecnologica si articola in Programmi esecutivi pluriennali finalizzati in ambito Commissione Mista bilaterale. Il 19 gennaio 2012 è stato firmato a Nuova Delhi il Programma Esecutivo per il 2012 -2014 che include il 6 progetti di ricerca congiunti di particolare rilevanza e lo scambio di 12 ricercatori. 
Cooperazione in materia ambientale
     L’India è Parte firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici ed ha aderito al Protocollo di Kyoto. Nel dicembre 2005, il Ministero dell’Ambiente italiano e quello indiano hanno firmato un MoU per la cooperazione nell’area dei cambiamenti climatici e per l’attuazione congiunta di progetti nell’ambito del “Clean Development Mechanism” del Protocollo di Kyoto, creando così la cornice istituzionale entro cui attuare progetti ed iniziative comuni.
     Nel febbraio 2007 è stato firmato un Memorandum d’Intesa tra il Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) ed il Ministero delle Energie Rinnovabili (MNRE) del Governo indiano. Il Memorandum d’Intesa ha istituito un gruppo di lavoro congiunto per discutere sulle attività di cooperazione indo-italiane nel settore delle energie rinnovabili. 
Cooperazione allo Sviluppo
     Le attività della Cooperazione Italiana allo sviluppo in India hanno subito una graduale diminuzione  negli ultimi anni, all'indomani della chiusura dell'UTL di Nuova Delhi e, contestualmente, alla riorganizzazione dell'azione della Cooperazione Italiana, nel cui ambito l'India non figura più come paese prioritario di intervento.
     E’ attualmente in sospeso un solo progetto a credito d'aiuto del valore di 25.822.844,96 Euro (somma depositata presso Artigiancassa) per il miglioramento dell'approvvigionamento idrico e risanamento in 16 municipalità del Bengala Occidentale. Dopo gli studi preliminari effettuati dal Consorzio italiano Hydea, che si è aggiudicato la componente in affidamento per la progettazione ed espletamento delle gare di appalto, il progetto è di fatto entrato in una fase di stallo, a causa delle divergenze tra le autorità locali ed il consorzio italiano in merito ai costi, estensione del progetto e programma delle attività. Al momento, anche la vicenda che coinvolge i nostri Fucilieri di Marina, contribuisce allo stallo del suddetto progetto.   
Partecipazione India a EXPO 2015
     La partecipazione indiana a Expo presenta uno stallo operativo ormai prolungatosi da oltre un anno. Malgrado la tempestiva e positiva reazione in merito all’adesione ad Expo, comunicata nel febbraio 2011, la Autorità di Nuova Delhi hanno di fatto interrotto ogni contatto propedeutico alla partecipazione: l’ultimo incontro tecnico risale al dicembre 2012. Sebbene la Società organizzatrice e la nostra Ambasciata abbiano esercitato ogni possibile pressione, non è stato finora possibile riaprire alcun canale di comunicazione, anche a livello tecnico, confermando l’impressione che non sia ancora maturo il necessario avallo politico per poter procedere alla negoziazione del contratto di partecipazione.
     La prospettiva è resa ancor più complessa dal previsto svolgimento delle elezioni politiche nel corso dei prossimi mesi. Stante la tempistica necessaria per la predisposizione delle procedure per la realizzazione dei Padiglioni individuali, è a questo punto reale il rischio che il Paese non partecipi all’Esposizione. In assenza di sviluppi, la Società sta concretamente valutando la possibilità di riassegnare ad altro Paese l’ampio lotto di terreno destinato all’India (nei propositi originari, addirittura superiore a 4.100 mq, successivamente ridotto a circa 3.000). 
Le rispettive comunità
     La comunità italiana in India ammonta a 1103 residenti registrati all’AIRE. La comunità è composta prevalentemente da rappresentanti o tecnici di aziende, qui residenti con famiglie al seguito, operai specializzati che operano in cantieri, e religiosi, non genera problematiche di rilievo. Numerosi sono i casi di connazionali che rimangono privi di documenti e di mezzi di sostentamento, o con problemi dovuti al consumo di sostanze stupefacenti.
     La comunità indiana in Italia ammonta a circa 120.000 residenti (di cui circa 20.000 irregolari). Si tratta del settimo gruppo di popolazione straniera residente in Italia e della prima comunità indiana dell’area Schengen per volume complessivo; la comunità proviene soprattutto dal Punjab (per oltre l’80%) ed è prevalentemente occupata nell’agro-industria, specie nel Centro-Nord (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio).
La comunità Sikh in Italia ed alcuni viaggiatori di confessione Sikh hanno lamentato le procedure di controllo alle frontiere aeroportuali italiane, definendole discriminatorie (alcuni cittadini Sikh sarebbero stati sottoposti a controlli ancora prima di passare sotto il metal detector o comunque anche quando il metal detector non suonava al loro passaggio) ed offensive per il loro credo religioso (in quanto – in rari casi – sarebbe stato chiesto di togliere il turbante in pubblico). La questione ha anche fatto oggetto di scambi di lettere tra i due Ministri degli Esteri sia nel corso del 2011 che all’inizio del 2012. Il Ministero dell’Interno italiano è stato positivamente sensibilizzato in proposito. Sono state emanate direttive per sensibilizzare gli addetti ai controlli aeroportuali. Poiché l’inasprimento generalizzato dei controlli aeroportuali era anche la conseguenza della nuova normativa europea del 2010, l’Italia è intervenuta in ambito UE affinché tutti gli aeroporti della UE fossero sensibilizzati al riguardo. La questione è stata discussa in occasione del Vertice UE-India del 10 febbraio.

La vicenda dei due fucilieri di marina
I NUCLEI MILITARI DI PROTEZIONE DELLA MARINA: IL QUADRO NORMATIVO
Il clamoroso rinascere della pirateria – inizialmente soprattutto al largo delle coste del Corno d’Africa, e in particolare della Somalia avvolta nella spirale di una crisi politica ed economico-sociale di proporzioni inaudite – convinceva la Comunità internazionale a reagire: in questo quadrol’Unione europea varava nel dicembre 2008 la missione ATALANTA, nell'ambito della politica europea di sicurezza e di difesa comune (PSDC) e in conformità con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in risposta ai crescenti livelli di pirateria nel occidentale dell'Oceano Indiano.
Obiettivi principali della missione erano:
- la protezione delle navi del Programma alimentare mondiale (PAM ) impegnate nella consegna di aiuti alimentari alle popolazioni sfollate in Somalia, nonché la tutela dei trasporti marittimi collegati alla missione dell'Unione Africana in Somalia (AMISOM);
- la dissuasione, la prevenzione e la repressione degli atti di pirateria al - largo della Somalia ;
- il monitoraggio delle attività di pesca al largo delle coste della Somalia.
Tipicamente , EU NAVFOR - Atalanta si compone di 4-7 navi da combattimento di superficie , 1-2 navi ausiliarie e 2-3 aerei di pattugliamento, schierati in una zona operativa che copre circa la dimensione dell'Unione europea : comprende il sud del Mar Rosso , il Golfo di Aden e l'Oceano indiano occidentale , incluse le Seychelles. L'attuale mandato è stato rinnovato il 23 marzo 2012 e si estende fino al dicembre 2014. Nell'ambito della stessa decisione, l'area operativa di EUNAVFOR - Atalanta è stata estesa per includere aree costiere somale e acque interne.
Da marzo ad agosto 2009 la NATO lanciava intanto l'Operazione Allied Protector, per migliorare la sicurezza delle rotte marittime commerciali e della navigazione internazionale al largo del Corno d' Africa. La forza multinazionale, assicurata da gruppi navali permanenti della NATO, ha condotto compiti di sorveglianza e ha fornito protezione per scoraggiare e reprimere la pirateria e gli atti di rapina armati. Ad Allies Protector succedeva il 17 agosto 2009 l’operazione Ocean Shield, caratterizzata dall'adozione di un approccio più globale alle iniziative di contrasto alla pirateria. L'obiettivo principale è quello di condurre operazioni di contrasto alla pirateria in mare ed allo stesso tempo di assistere gli Stati regionali che ne fanno richiesta a sviluppare capacità di contrasto alla pirateria.
Nonostante i successi delle missioni internazionali, emergeva progressivamente la possibilità di potenziare ulteriormente la difesa del naviglio commerciale apprestando a bordo dei natanti apposite installazioni a supporto dell’azione di contrasto agli attacchi dei pirati affidata a nuclei armati di guardie private.
Anche in Italia il dibattito si orientava in tal senso: il 22 giugno 2011 la Commissione Difesa del Senato concludeva l’esame di un documento sul possibile impiego di personale militare a bordo del naviglio mercantile e da diporto che transita in acque internazionali colpite dal fenomeno della pirateria.
La risoluzione approvata impegnava tra l’altro il Governo ad “individuare urgentemente soluzioni legislative che consentano di superare le problematiche di natura giuridica connesse alla creazione di un'adeguata strategia di autodifesa, al fine di tutelare nel modo più ampio possibile  il naviglio mercantile e da diporto battente bandiera italiana che transita in acque internazionali ad alto rischio pirateria, oggi esposto ad insostenibili e sempre crescenti rischi umani, economici e sociali” e conseguentemente “a predisporre, mediante lo strumento della decretazione d'urgenza, a partire dal prossimo atto di rifinanziamento delle missioni internazionali un provvedimento che configuri - quale soluzione funzionale ma non esclusiva - la possibilità di impiegare a bordo delle navi battenti bandiera italiana team armati della Marina militare, il cui derivante onere finanziario sia a totale carico degli armatori che ne faranno richiesta. La risoluzione lasciava altresì aperta la porta all’impiego di team di guardie private a bordo delle navi.
Si giungeva così, nell’ambito del decreto di rifinanziamento delle missioni internazionali per il secondo semestre del 2011 – D.L. 107/2011, art. 5 – alla formulazione di una normativa volta a consentire l’impiego di nuclei militari, ovvero di guardie private, allo scopo di prevenire ed eventualmente respingere attacchi di pirati al naviglio nazionale.
In particolare, il comma 1 dell'articolo in oggetto prevede che il Ministero della difesa possa stipulare con l'armatoria privata italiana e con altri soggetti aventi analogo potere di rappresentanza, convenzioni per la protezione delle navi battenti bandiera italiana che debbano attraversare spazi marittimi internazionali a rischio di episodi di pirateria, mediante l'imbarco a titolo oneroso e a richiesta degli armatori, di Nuclei militari di protezione (NMP) della Marina, composti eventualmente anche di personale delle altre Forze armate, dotati di armamento previsto per l'espletamento del servizio. Il medesimo comma specifica inoltre come l'individuazione degli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria avvenga tramite decreto del Ministero della difesa sentiti i Ministri degli affari esteri e delle infrastrutture e dei trasporti, valutate le indicazioni periodiche dell'International Maritime Organization (IMO).
Il comma 2 precisa che al comandante di ciascun N.M.P. ed al personale della marina militare da esso dipendente, siano attribuite in relazione ai reati di pirateria di cui agli artt. 1135 e 1136 del codice della navigazione (RD n. 327/1942) ed a quelli ad essi connessi ex art. 12 c.p.p. – rispettivamente - le funzioni di ufficiale e di agente di polizia giudiziaria.
Si ricorda che l'art. 1135 cod. nav. punisce il reato di pirateria sanzionando con la reclusione da 10 a 20 anni il comandante o l'ufficiale di nave nazionale o straniera, che commetta atti di depredazione a danno di una imbarcazione nazionale o straniera o del relativo carico, ovvero a scopo di depredazione commetta violenze a danno di persone imbarcate.
L'art. 1136 cod. nav. (nave sospetta di pirateria) punisce con la reclusione da 5 a 10 anni il comandante o l'ufficiale di nave nazionale o straniera, fornita abusivamente di armi, che navighi senza essere munita delle carte di bordo.
Per entrambi i reati la pena è diminuita di 1/3 per gli altri componenti dell'equipaggio e della metà per gli estranei presenti a bordo.
 Il comma 2 estende, inoltre, l’applicazione al citato personale militare:
- dell’art. 5 comma 1, del DL 209/2008, ovvero la disciplina del codice penale militare di pace; la competenza territoriale, a fini processuali, del tribunale militare di Romal’arresto obbligatorio in flagranza per una serie specifica di reati militari prevista dallo stesso codice nonché le condizioni di efficacia dell’arresto e le modalità dell’interrogatorio del militare;
- dell’articolo 4, commi 1-sexies e 1-septies, del D.L. 152/2009 cioè l’applicazione della scriminante (causa di non punibilità) a favore del militare che, nel corso delle missioni internazionali, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente impartiti, faccia uso ovvero ordini di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari; è fatta, tuttavia, fatta salva l'applicabilità delle disposizioni sui delitti colposi ove si eccedano per colpa i limiti posti dalla legge, dalle regole di ingaggio o dagli ordini ricevuti.
Il comma 3 dispone che, per la fruizione dei servizi di protezione mediante i Nuclei militari di protezione, gli armatori provvedano al ristoro dei relativi oneri, comprensivi delle spese per il personale di cui al comma precedente e di quelle necessarie per le convenzioni stipulate ai sensi del comma 1. Le somme devono essere corrisposte mediante versamenti all'entrata del bilancio dello Stato, riassegnati entro sessanta giorni ai relativi capitoli di previsione della spesa del Ministero della difesa, in deroga a quanto previsto dalla legge finanziaria 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244, articolo 2, commi 615, 616 e 617) in materia di iscrizioni di stanziamenti negli stati di previsione dei Ministeri.
Il comma 4 stabilisce che nell'ambito delle attività internazionali di contrasto della pirateria e della partecipazione di personale militare alle operazioni di cui all'articolo 4, comma 13, del presente decreto, nei casi in cui non sono previsti i servizi di protezione di cui al precedente comma 1, l'impiego di guardie giurate a bordo delle navi mercantili battenti bandiera italiana che transitano in acque internazionali individuate con il decreto di cui al comma 1, a protezione delle stesse e nei limiti di cui ai successivi commi 5, 5-bis e 5-ter.
Ai sensi del successivo comma 5, il suddetto impiego è consentito esclusivamente a bordo delle navi predisposte per la difesa da atti di pirateria, mediante l'attuazione di almeno una delle vigenti tipologie ricomprese nelle "best management practices" di autoprotezione del naviglio definite dall'International Maritime Organization (IMO), nonché autorizzate alla detenzione delle armi ai sensi del comma 5-bis, attraverso il ricorso a guardie giurate individuate tra quelle che abbiano prestato servizio nelle Forze armate, anche come volontari, con esclusione dei militari di leva, e che abbiano superato i corsi teorico-pratici previsti ex lege. Successive modifiche legislative hanno previsto che “fino al 30 giugno 2014 possono essere impiegate anche le guardie giurate che non abbiano ancora frequentato i predetti corsi teorico-pratici, a condizione che abbiano partecipato per un periodo di almeno sei mesi, quali appartenenti alle Forze armate, alle missioni internazionali in incarichi operativi e che tale condizione sia attestata dal Ministero della difesa”.
Il comma 5-bis stabilisce che Il personale di cui al comma 4, nell'espletamento delle attività di contrasto alla pirateria entro i limiti territoriali delle acque internazionali a rischio, può utilizzare le armi comuni da sparo, nonché le armi in dotazione delle navi, appositamente predisposte per la loro custodia, detenute previa autorizzazione del Ministro dell'interno rilasciata all'armatore ai sensi dell'articolo 28 del T.U.L.P.S., rilasciata anche per l'acquisto, il trasporto e la cessione in comodato al medesimo personale di cui al comma 4. Successive modifiche legislative hanno previsto che “con le medesime autorizzazioni possono essere autorizzati anche l'imbarco e lo sbarco delle armi a bordo delle navi di cui al comma 5, nei porti degli Stati le cui acque territoriali sono confinanti con le aree a rischio di pirateria individuate con il decreto del Ministro della difesa, di cui al comma 1.”
Il comma 5-ter  rinvia ad un successivo decreto del Ministro dell'interno, da adottare entro il 31 marzo 2012 di concerto con i Ministri della difesa e delle infrastrutture e dei trasporti, la definizione delle modalità attuative dei commi 5 e 5-bis, comprese quelle relative all'imbarco e allo sbarco delle armi, al porto e al trasporto delle stesse e del relativo munizionamento, alla quantità di armi detenute a bordo della nave e la loro tipologia, nonché ai rapporti tra il personale di cui al comma 4 ed il comandante della nave durante l'espletamento dei compiti di cui al medesimo comma.
Infine, il comma 6-bis novella l’articolo 111 del Codice dell’ordinamento militare, estendendo anche al contrasto alla pirateria i compiti della Marina Militare a tutela degli interessi nazionali al di là del limite esterno del mare territoriale..
CRONOLOGIA DEGLI AVVENIMENTI
L'arresto dei marò
Il 15 febbraio 2012, al largo delle coste indiane del Kerala (Stato sud-occidentale dell’Unione Indiana), nel Mar Arabico, la petroliera italiana Enrica Lexie ha incrociato un’imbarcazione non identificata, che procedeva nella sua direzione senza rispettare l’alt intimato dai segnali luminosi del mercantile italiano, che rappresentano un codice di comunicazione tra navi, necessario per identificarsi a distanza in quelle acque ad alto rischio pirateria.
L’area rientra infatti in una delle zone ad alto rischio pirateria, individuata già nel 2011 dall‘International Transport Workers Federation (ITF) nel tratto che va dalle coste somale verso est, sino al meridiano 76 e verso sud al parallelo 16, e quindi in acque internazionali direttamente confinanti con le acque territoriali indiane. Nelle aree ad alto rischio pirateria: i mercantili sono invitati ad adottare le misure di autoprotezione raccomandate dall’Organizzazione marittima internazionale (IMO); i marittimi imbarcati percepiscono un raddoppio delle indennità giornaliere e gli armatori pagano premi di assicurazione maggiorati.
Nel corso dell’episodio i fucilieri di marina del reggimento San Marco imbarcati sulla Enrica Lexie, con compiti anti – pirateria, hanno esploso alcuni colpi di avvertimento per mettere in fuga l’imbarcazione sospetta.
Successivamente il peschereccio indiano St. Anthony, con undici uomini di equipaggio, rientrava nel porto di Kochi (sulla medesima costa del Kerala), con due marittimi uccisi da diversi colpi di arma da fuoco.
Le autorità del Kerala invitavano, con un pretesto, la Enrica Lexie a rientrare a Kochi e procedevano all’arresto di due marò del reggimento San Marco, il sergente Salvatore Girone ed il capo di prima classe Massimiliano Latorre, accusandoli di aver ucciso i due pescatori.
L’avvio delle trattative diplomatiche
La linea sostenuta sin dall’origine dal Governo italiano è che l’episodio incriminato sia avvenuto in acque internazionali (dove vige il diritto dello Stato la cui nave batte bandiera) e che i due marò in quel momento stessero esercitando funzioni di militari in missione all’estero e che dunque agissero per conto dello Stato italiano; in tale veste essi pertanto godono dell’immunità della giurisdizione rispetto agli Stati stranieri.
D’altra parte, lo Stato del Kerala ha da subito considerato il fatto di propria competenza, in quanto i due pescatori uccisi erano di nazionalità indiana; il Governo centrale indiano ha avuto pertanto, all’inizio, uno strettissimo margine di manovra, a causa della autonomia delle autorità locali e dell’indipendenza della magistratura rispetto al potere politico.
Il sottosegretario agli Affari esteri pro tempore Staffan De Mistura ha garantito una continua presenza in loco ed è stato impegnato in lunghe trattative con le autorità indiane ogni volta che si presentavano nuovi sviluppi sulla vicenda.
I5 marzotre settimane dopo la morte dei due pescatori, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati trasferiti dal carcere di Trivandrum alla Borstal School di Kochi. Il sottosegretario De Mistura si è opposto con forza alla reclusione dei due militari italiani in un centro di detenzione per detenuti comuni, trattando con il direttore del carcere per ottenere una soluzione più adeguata.
Tre settimane dopo il fermo della Enrica Lexie nel porto di Kochi, anche l’Unione europea, nella figura dell’Alto Rappresentante per la politica estera, si è decisa a schierarsi a supporto dell’Italia nella sua azione diplomatica per giungere, secondo le parole di Catherine Ashton, “ad una soluzione soddisfacente”.
Il G8 che si è svolto a Washington nell’aprile 2012 (due mesi dopo la morte dei due pescatori indiani) ha poi riaffermato, nel suo documento finale, il principio che attribuisce alla bandiera delle navi il diritto di giurisdizione in caso di incidente in acque internazionali: un endorsement formale alla posizione sostenuta dall’Italia nel negoziato con l’India, correlato dalla firma degli otto ministri degli esteri.
A fine aprile 2012, il ministro degli esteri Terzi dichiarava di aver ottenuto l’appoggio di una ventina di paesi di ogni parte del mondo, che erano intervenuti presso l’India per favorire una soluzione del braccio di ferro diplomatico.
L’azione diplomatica dell’Italia ha registrato un momento di tensione quando, nel giugno 2012, sono state formalizzate le accuse per i due marò da parte delle autorità del Kerala: omicidio, tentato omicidio, associazione a delinquere e danneggiamento. A seguito dei gravi capi di imputazione, l’Italia ha adottato la linea dura (secondo alcuni voluta da Staffan De Mistura), ovvero richiamare in patria per “consultazioni” l’ambasciatore italiano in India Giacomo Sanfelice.
La diplomazia italiana ha poi ripreso la strategia collaborativa conseguendo un primo risultato positivo, quando il 30 maggio 2012, dopo 82 giorni di detenzione, i due militari italiani sono stati rilasciati su cauzione. 
Le prime iniziative internazionali promosse dall’Italia
Alla fine di ottobre, il ministro Terzi ha preso contatti con il nuovo ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid (musulmano di 59 anni, esponente del Partito del Congresso), sottolineando l’urgenza di una soluzione positiva del caso che vede coinvolti i due fucilieri della Marina militare.
L’Italia ha portato il caso anche all’attenzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a margine della riunione delle Nazioni Unite per l’accordo sull’estensione del protocollo di Kyoto, che si è svolta nel dicembre 2012 a Doha.
Nel frattempo sono arrivati due segnali distensivi da Nuova Delhi: il primo è che, il 20 dicembre 2012il tribunale di Kollam ha nuovamente rinviato il processo, in attesa del verdetto della Corte Suprema di Nuova Delhi sulla giurisdizione del caso, ed ha concesso una licenza di due settimane per Natale, su cauzione e con dichiarazione giurata, per i due marò, che hanno così potuto trascorrere le festività in patria con le loro famiglie (sono rientrati in India il 3 gennaio).
Il secondo è stato la pronuncia della Corte suprema indiana del 19 gennaio 2013, che ha negato la giurisdizione alla Corte del Kerala sul caso, e ha disposto la creazione di un tribunale speciale, costituito in coordinamento dal governo e dalla stessa Corte suprema, a Nuova Delhi, per esaminare la questione della giurisdizione (indiana o italiana).
I giudici hanno stabilito l'incompetenza dello Stato del Kerala che "non aveva giurisdizione" per intervenire, dato che "il fatto non era avvenuto nelle acque territoriali indiane", anche se la Corte ha ribadito che, nel loro servizio sulla Enrica Lexie, "i marò non godevano di quella immunità sovrana" che avrebbe determinato automaticamente la giurisdizione italiana.
Il risultato della “de-keralizzazione” è stato significativo poiché in quello Stato si era venuta a creare una certa pressione mediatica e dell’opinione pubblica nei confronti dei marò, che avrebbe potuto influenzare in maniera negativa lo svolgimento del processo.
Il 22 febbraio 2013, ai due marò viene concesso nuovamente, dalla Corte suprema indiana, un permesso di quattro settimane per tornare in Italia in occasione delle elezioni politiche svoltesi il 24 e 25 febbraio 2013 e per poter trascorrere un periodo di tempo con i loro familiari.
I fucilieri vengono in quei giorni interrogati dalla Procura militare di Roma e indagati per i reati di violata consegna aggravata e dispersione di oggetti di armamento militare in relazione ai fatti che nel febbraio del 2012. 
L’apertura della controversia internazionale e lo svolgimento delle indagini in India
Il successivo 11 marzo, l'ambasciatore italiano a Nuova Delhi Daniele Mancini dichiara che i due fucilieri di marina non sarebbero tornati in India alla scadenza del permesso loro concesso, sulla base di un decisione assunta d'intesa con i ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la presidenza del Consiglio dei ministri. La decisione è confermata dal Ministro degli Esteri Giulio Terzi.
Si apre quindi una controversia internazionale con l'India, poichè, come riportato nella nota verbale della nostra Ambasciata, "l'Italia ha sempre ritenuto che la condotta delle Autorità indiane violasse gli obblighi di diritto internazionale gravanti sull'India in virtù del diritto consuetudinario e pattizio, in particolare il principio dell'immunità dalla giurisdizione degli organi dello Stato straniero e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982''.
Il 13 marzo il premier indiano Manmohan Singh minacciava "seri provvedimenti", mentre il governo indiano annunciava provvedimenti restrittivi della libertà di movimento dell’ambasciatore italiano Mancini, negandogli la piena immunità e vietandogli di lasciare l’India.
La decisione italiana viene modificata pochi giorni dopo: il 21 marzo 2013, infatti, il Governo decide di far ritornare i due sottufficiali italiani in India dopo aver ottenuto garanzie sulla tutela degli stessi, che saranno giudicati da un tribunale speciale indiano.
I due fucilieri di marina rientrano in India il 22 marzo, accompagnati dal sottosegretario Staffan de Mistura, e vengono ospitati nell'Ambasciata italiana a Delhi, con obbligo di firma settimanale in un posto di polizia della capitale.
De Mistura dichiara di avere avuto la garanzia che non sarà applicata la pena di morte, come confermato anche dal Ministro degli esteri indiano, ma il Governo indiano precisa che non è stata data alcuna garanzia sulla sentenza; il Sottosegretario ribadisce di avere un'assicurazione scritta del governo indiano sulla non applicabilità della pena di morte nei confronti dei due fucilieri.
Il 25 marzo i due militari rivolgono un appello alle forze politiche, con una lettera aperta che chiede di unire le forze per risolvere questo gravissimo caso internazionale.
In seguito alla decisione di far tornare in India i due marò, il 26 marzo, durante il dibattito parlamentare sulla questione svoltosi presso la Camera dei deputati, il Ministro degli Esteri Giulio Terzi annuncia le sue dimissioni, opponendosi alla decisione assunta dal Governo di riconsegnare i due militari all’India.
Il Presidente del Consiglio Monti assume l’interim del dicastero degli esteri il 27 marzo.
Il 30 marzo il Governo indiano annuncia l’affidamento di nuove indagini all'Agenzia nazionale di investigazione (Nia), la polizia federale indiana specializzata nei reati contro la sicurezza nazionale. I legali dei due marò presentano ricorso contro la decisione, ma la Corte suprema indiana non lo accoglie.
Il successivo 10 aprile il premier Singh garantisce che il caso dei due fucilieri non rientra fra quelli che possono comportare la pena capitale.
Il 3 maggio 2013 Staffan De Mistura viene nominato inviato speciale presso il governo indiano per il caso dei marò da parte del Governo Letta.
Il 9 agosto 2013 i due marò rifiutano di rilasciare dichiarazioni alla NIA; il 16 settembre le autorità indiana chiedono di poter interrogare gli altri quattro fucilieri presenti all'incidente. Si apre un contenzioso tra il Governo italiano e quello indiano: l’Italia si rifiuta di inviare i quattro militari e propone che l’eventuale interrogatorio possa svolgersi in territorio italiano. La soluzione trovata è quella di consentire l’interrogatorio in videoconferenza presso l’ambasciata indiana a Roma, che avviene l’11 novembre, quando i quattro militari vengono interrogati separatamente alla presenza di un traduttore e di un team della NIA.
 Gli sviluppi recenti
Il 13 novembre presso le Commissioni congiunte Esteri e Difesa dei due rami del Parlamento si è svolta l’audizione del Commissario straordinario del Governo per la questione dei due fucilieri «marò», dottor Staffan de Mistura.
Il 30 novembre fonti della NIA affermano che l’Agenzia avrebbe suggerito al Ministero dell'Interno di procedere all' incriminazione di Latorre e Girone in base all'articolo 3 del SUA Act (The Suppression of  Unlawful Acts against Safety of Marittime Navigation and Fixed Platforms on Continental Shelf Act, la legge adottata dal legislatore federale indiano il 20 dicembre 2002 per dare esecuzione ad un’omonima Convenzione internazionale firmata a Roma il 10 marzo 1988 dopo il dirottamento della nave Achille Lauro), che prevede l’applicazione della pena capitale.
L’ 8 gennaio 2014 l’Italia ottiene il rinvio al 30 gennaio dell'udienza, in quanto la polizia indiana non ha ancora depositato il rapporto frutto delle indagini svolte dallo scorso aprile.
Dal 10 gennaio si rincorrono voci sulla possibile applicazione della pena capitale da parte delle autorità giudiziarie indiane.
Il 14 gennaio l'Italia decide di ricorrere alla Corte suprema indiana per denunciare i gravi ritardi nell'inchiesta e per contestare l’applicabilità del SUA Act che, essendo uno strumento normativo di repressione del terrorismo internazionale, è per ciò stesso totalmente inapplicabile al personale militare italiano imbarcato in funzioni di lotta alla pirateria.

LA LOTTA ALLA PIRATERIA E LA QUESTIONE DEI DUE MARÒ
(a cura del Prof. Natalino Ronzitti)*

La protezione delle navi commerciali dalla pirateria
La pirateria marittima è un vecchio crimine internazionale, che ha avuto improvvisamente una recrudescenza a causa dell’instabilità politica di taluni Stati costieri e specialmente della Somalia, il cui territorio è teatro di lotte intestine e di una guerra civile prolungata.
Il principio fondamentale è comunemente rappresentato dal detto “la terra domina il mare”, nel senso che se in terraferma esiste un governo che fa rispettare la legge e l’ordine, altrettanto avviene nelle acque prospicienti le sue coste, mediante la vigilanza della guardia costiera che svolge un’adeguata opera di prevenzione e impedisce che bande armate si dedichino a imprese piratesche.
La protezione della navigazione è innanzitutto affidata alle navi da guerra, che hanno il potere di esercitare la polizia dell’alto mare e all’occorrenza catturare una nave pirata, sequestrarla e consegnare i pirati alla propria autorità giudiziaria o a quella di un terzo Stato.
La lotta alla pirateria può essere condotta da singole marine da guerra o anche da flotte multinazionali. Ne costituiscono un esempio le operazioni dell’Unione Europea (Operazione Atalanta), della Nato (Ocean Shield) e altre come la Combined Task Force 151 a guida USA di stanza a Bahrain. Altre marine da guerra operano singolarmente in Oceano indiano, incluse le marine russe e cinese.
Una nave militare non può entrare nelle acque territoriali altrui senza il consenso dello Stato costiero o l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Il Cds ha adottato numerose risoluzioni che hanno autorizzato l’intervento nelle acque territoriali somale, e in tal modo hanno supplito alla mancanza di effettività del governo transitorio somalo, che aveva dato il consenso alle operazioni marittime.
La protezione del naviglio commerciale può essere effettuata anche da personale armato a bordo della naveLa differenza fondamentale rispetto alla protezione affidata alle navi da guerra consiste nel fatto che solo le navi da guerra possono dare la caccia ai pirati.Il personale armato a bordo dei mercantili può solo esercitare il diritto di legittima difesa per far fronte ad un attacco piratesco. L’imbarco di personale armato a bordo di navi commerciali, in un primo tempo visto con sfavore dall’Organizzazione marittima internazionale (IMO), ha finito per essere accettato anche su pressione delle associazioni armatoriali. Il calo degli incidenti pirateschi è dovuto non solo alla presenza di flotte multinazionali, ma anche al ruolo svolto dal personale armato a bordo dei mercantili.
Il personale può appartenere a due categorie: personale civile (guardie armate o contractore personale militare. La scelta dipende dalla legislazione dello Stato della bandiera. Taluni Stati consentono solo l’imbarco di personale civile, altri di personale militare. Esistono sistemi duali, come quello italiano che consente l’imbarco di personale militare e, in mancanza, di personale civile.
Lo sforzo congiunto ha portato alla diminuzione degli attacchi pirateschi: dai 406 verificatisi nel 2009 sono scesi a circa 206 nel 2013.  

La localizzazione dell’incidente e lo svolgimento del processo
L’incidente della Enrica Lexie (E.L.) si è verificato al largo delle coste indiane del Kerala il 15 febbraio 2012 . La nave battente bandiera italiana, proveniente da Singapore, era diretta a Gibuti ed aveva a bordo un team di sei fucilieri di marina (Marò appartenenti al Battaglione San Marco).
Secondo la versione italiana dell’incidente, un’imbarcazione non identificata si stava avvicinando alla E.L. nonostante i segnali visivi con ripetuti flash. Dalla E.L. sono state mostrate le armi e quindi sparate raffiche di avvertimento, non con l’intenzione di colpire la nave, ma in acqua. Quella che era stata scambiata per una nave pirata era in realtà una nave da pesca, il St Anthony, che si  allontanava dopo i tiri partiti dalla E.L. Due pescatori rimanevano uccisi, fatto ignorato dall’equipaggio della E.L. A quanto sembra nella zona incrociavano altre navi, trattandosi di una rotta affollata e, sempre da parte italiana, è stato ingenerato il dubbio che i colpi letali fossero partiti da un’altra nave.
L’India ha istituito sia una Zona contigua (ZC) sia una Zona economica esclusiva (ZEE). Al momento dell’incidente la E.L. si trovava a 22.5 miglia marine dalla costa dell’India.
Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos, nell’acronimo inglese), che ripete sul punto la Convenzione di Ginevra sul mare territoriale e il diritto internazionale consuetudinario, lo Stato costiero esercita sulla zona contigua adiacente al proprio mare territoriale solo poteri funzionali per prevenire e reprimere violazioni alle proprie leggi in materia doganale, fiscale, sanitaria e d’immigrazione. A tutti gli altri effetti, e quindi anche per quanto riguarda la lotta alla pirateria, la Zona contigua è una zona di alto mare.
La E.L. fu attirata nel porto indiano di Kochi con una “smart move” (versione indiana), essendo stata richiesta di identificare pirati catturati dalla guardia costiera indiana. I due fucilieri di marina sottoposti a processo in India (Massimiliano Latorre e Salvatore Girone) facevano parte di unteam di sei militari, di cui quattro sono rientrati in Italia, dopo che alla nave, su ricorso dell’armatore, era stato consentito di rientrare in Italia in seguito ad una sentenza della Corte Suprema indiana del 2 maggio 2012, di annullamento di una decisione contraria dell’Alta Corte del Kerala.
Per ottenere la liberazione dei due marò, il Governo italiano aveva fatto ricorso all’ Alta Corte del Kerala, che nella sentenza del 29 maggio 2012 rigetta l’istanza, volta a contestare la giurisdizione indiana sul caso. Contro la sentenza dell’Alta Corte del Kerala, il governo presenta un ricorso alla Corte suprema di Nuova Delhi, che  emette la sentenza il 18 gennaio 2013.
La decisione è sfavorevole alle tesi italiane, ma si registra un parziale successo nella rimozione del processo dai tribunali del Kerala. La Corte Suprema afferma che nelle acque in cui è avvenuto l’incidente (ZC e ZEE) lo Stato del Kerala non ha giurisdizione, potendo essa essere esercitata fino al limite della acque territoriali (cioè sino al limite delle 12 miglia), mentre secondo la Corte Suprema l’incidente è avvenuto a 20,5 miglia dalla costa. Oltre le acque territoriali, la giurisdizione appartiene all’Unione Indiana e non ad un suo Stato componente. Viene pertanto statuito che il procedimento penale in corso presso il Tribunale di Kollam (Stato del Kerala) nei confronti dei Marò deve terminare e che  dovrà essere istituita una Corte speciale per giudicare il caso, presso cui potrà essere  risollevata la questione della giurisdizione. 
La sentenza della Corte suprema indiana
La difesa italiana, sostenuta davanti all’Alta Corte del Kerala e successivamente riproposta davanti alla Corte Suprema dell’India a Nuova Delhi, è fondata su due argomenti principali: 1) l’immunità funzionale dei militari imbarcati sulla E.L., in quanto organi dello Stato; 2) la localizzazione in alto mare dell’evento che avrebbe causato la morte dei pescatori indiani, a supporre che effettivamente la morte sia imputabile ai due Marò, come  sostenuto dall’accusa.
Quanto al primo punto, si è prospettata la tesi secondo cui i due militari italiani, essendo organi dello Stato italiano cui la legge attribuisce funzioni di ufficiali di polizia, godono di immunità funzionale, svolgendo un’attività pubblica, incentrata sulla lotta alla pirateria, in conformità alle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Quanto al secondo, la tesi italiana è che si sarebbe trattato di un “incidente della navigazione” occorso in alto mare, incidente che ricade sotto la giurisdizione dello Stato della bandiera della nave che lo ha provocato (art. 97 Unclos). È stato anche precisato che l’ingresso della nave italiana nel porto di Kochi è avvenuto con l’inganno, essendo stato il comandante della nave richiesto di identificare il naviglio dei pirati che si trovava nel luogo dell’incidente.
Da parte indiana si è invece argomentato che la nave italiana era una nave commerciale e non una nave da guerra o adibita a servizio pubblico. Inoltre i Marò prestavano servizio a favore dell’armatore, tanto che il soldo era a suo carico (mentre in realtà l’armatore corrisponde le spese direttamente al Ministero della difesa). Essi pertanto, sempre secondo l’India, non avrebbero potuto godere di immunità alcuna. Si è inoltre affermato che l’incidente è avvenuto fuori delle acque territoriali, ma pur sempre nella Zona contigua indiana, che si estende per ulteriori 12 miglia oltre il limite esterno delle acque territoriali. Sarebbe stato quindi inapplicabile l’art. 97 della Convenzione del diritto del mare, che riguarda l’alto mare stricto sensu. 
Le criticità della sentenza della Corte suprema
L’art. 97 Unclos assoggetta alla giurisdizione dello Stato della bandiera le collisioni e qualunque altro incidente della navigazione avvenuto in alto mare. Si può anche contestare che il caso della Lexie, che chiaramente non è un caso di collisione, non sia ricompreso tra “ogni altro incidente della navigazione”, ma non si può certamente dire che l’art. 97 non sia applicabile nella zona contigua, essendo questa una zona di alto mare a tutti gli effetti, tranne che per gli speciali poteri attribuiti allo Stato costiero, tra i quali, come si è visto, non rientrano quelli esercitabili in occasione di incidenti del genere della E.L..
Tra l’altro è stata proposta in dottrina una interpretazione evolutiva dell’art. 97, secondo cui per incidente della navigazione potrebbe intendersi anche un incidente causato dalla difesa contro supposti attacchi pirateschi.
La questione dell’immunità non è stata adeguatamente esaminata dai giudici della Corte Suprema, che hanno elegantemente schivato la questione, limitandosi a riassumere le argomentazioni sull’immunità prospettate dai difensori dell’Italia e dei due marò e le controdeduzioni degli avvocati dell’Unione indiana e del Kerala. Hanno solo rimarcato l’applicabilità del codice penale indiano alla fattispecie, affermando peraltro anche l’applicabilità dell’art. 100 UNCLOS, senza aggiungere alcuna precisa delucidazione sulla portata della disposizione sul caso in esame. 
L’immunità funzionale
E’ bene precisare in cosa consistano natura e fondamento dell’immunità funzionale, poiché si fa spesso confusione tra immunità funzionale, immunità personale e immunità dello Stato estero dalla giurisdizione. Prova ne sia l’intervento dell’avvocato dell’Unione indiana dinanzi alla Corte suprema, così come riassunto da uno dei giudici, che ha citato la Convenzione di Vienna sulle immunità diplomatiche, quella delle Nazioni Unite sull’immunità giurisdizionale dello Stato ed il caso Pinochet.
La distinzione tra immunità personale e immunità funzionale è nozione acquisita in diritto internazionale. La prima appartiene ad una determinata categoria di persone, come i Capi di Stato, di Governo, e i Ministri degli Affari Esteri  Un’altra categoria di persone che gode di immunità personale è costituita dai capi della missione diplomatica. L’immunità personale copre gli atti compiuti nella capacità personale, cioè al di fuori dell’esercizio delle funzioni dell’organo, e dura solo per il periodo in cui l’individuo è investito di quella particolare carica.
Al contrario l’immunità funzionale deriva dal principio secondo cui l’atto è compiuto dall’organo per conto dello Stato per cui esercita le funzioni. Il disconoscimento dell’immunità funzionale comporta la violazione della sovranità e indipendenza dello Stato estero. Se l’atto compiuto dall’organo equivale alla commissione di un illecito internazionale, solo lo Stato per cui l’organo agisce è responsabile. Nel qual caso viene in considerazione il principio dell’immunità dello Stato dalla giurisdizione, qualora lo Stato sia convenuto in giudizio di fronte ai tribunali di uno Stato estero.
Lo Stato sarà immune dalla giurisdizione locale solo se l’attività in questione possa essere qualificata come atto iure imperii (cioè manifestazione della sovranità dello Stato). In questo caso, la responsabilità dello Stato potrà essere fatta valere secondo i normali principi del diritto della responsabilità internazionale e lo Stato il cui cittadino sia stato danneggiato potrà intervenire a suo favore (c.d. protezione diplomatica). La distinzione tra immunità personale, immunità funzionale e immunità dello Stato estero dalla giurisdizione è dunque ben articolata in diritto internazionale.
Il punto, che potrebbe sembrare ostico, dovrà essere adeguatamente ribadito e illustrato dalla difesa italiana non appena il processo sarà riassunto davanti alla Corte speciale. Tra l’altro, della questione si stanno occupando le Nazioni Unite, a livello del suo massimo organo codificatorio: la Commissione del diritto internazionale.
Inoltre, a supporre che sia accettabile il ragionamento dell’India, secondo cui l’immunità non spetterebbe a organi stranieri non ammessi in territorio indiano con il suo consenso, tale ragionamento risulterebbe inapplicabile nel caso concreto poiché l’incidente non è avvenuto in territorio indiano, ma nella zona contigua che, ai nostri fini, deve essere considerata una zona di alto mare.
Il prof. Rüdiger Wolfrum, che è anche giudice presso il Tribunale internazionale del diritto del mare, in un recente rapporto, pubblicato anche sotto forma di articolo scientifico, ha affermato che i militari imbarcati su navi commerciali in servizio antipirateria, godono di immunità funzionale in alto mare. 
Il problema dell’applicazione del SUA Act
L’India, al pari dell’Italia, è parte della Convenzione per la soppressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima (SUA, nell’acronimo inglese), conclusa a Roma nel 1988 sotto gli auspici dell’IMO.
Secondo la Convenzione, le parti sono obbligate ad adottare una legislazione volta a considerare come reati gli atti illeciti previsti dalle sue disposizioni e a stabilire le relative pene. Gli atti illeciti condannati dalla SUA sono stati inclusi tra i reati del codice penale indiano e per quelli più gravi è prevista la pena di morte. La Convenzione si applica alle navi che navigano oltre il limite delle acque territoriali di un solo Stato, o nei limiti laterali del mare territoriale di uno Stato con gli Stati adiacenti.
Uno Stato può stabilire la propria giurisdizione per reati commessi contro una propria nave o contro persone a bordo della nave. I reati previsti includono gli atti di violenza contro persone a bordo della nave, qualora l’atto di violenza metta in pericolo la sicurezza della navigazione o ferisca o uccida una persona, e presenti una connessione con gli atti illeciti previsti dalla Convenzione.
L’Alta Corte del Kerala ha ritenuto la SUA applicabile all’incidente della E.L. e dallo stesso presupposto sono partite le autorità indiane che, dopo la sentenza della Corte Suprema, hanno affidato le indagini alla NIA (National Investigation Agency), che è la polizia speciale cui competono le indagini antiterrorismo.
Tuttavia la SUA non è applicabile al caso in esame, quantunque talune risoluzioni del Consiglio di sicurezza sulla lotta alla pirateria in Somalia richiamino gli obblighi derivanti dalla SUAI lavori preparatori ed il preambolo della Convenzione attestano infatti che lo strumento convenzionale fu concluso per combattere il terrorismo internazionale.
La SUA trae origine dall’incidente dell’Achille Lauro, il transatlantico dirottato in Mediterraneo da un commando di terroristi palestinesi (1985), ed appartiene al novero delle convenzioni internazionali settoriali antiterrorismo. Fino ad allora erano state stipulate convenzioni contro il terrorismo aereo e dopo l’Achille Lauro si volle redigere una convenzione anche contro il terrorismo marittimo. I negoziatori avevano ben chiaro che la Convenzione non era diretta a disciplinare la pirateria né ogni altro atto connesso con questo crimine.
Indipendentemente dal considerare la SUA applicabile a reati commessi quando si interviene contro atti di pirateria, l’altro punto da considerare è se la Convenzione trovi applicazione nel caso in cui l’atto sia stato commesso da un organo dello Stato. La SUA non si applica alle navi da guerra e assimilate (art. 2), ma niente è detto a proposito di organi statali a bordo di altre categorie di navi. Il punto è ora chiarito dall’art. 3 del Protocollo addizionale alla SUA del 2005, che espressamente esclude dall’applicazione della SUA “the activities undertaken by military forces of a State in the exercise of their official duties, inasmuch as they are governed by other rules of international law”.
Il Patto internazionale  sui diritti civili e politici del 1966 (art. 9)
Tanto l’Italia quanto l’India hanno ratificato il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, il cui art. 9, par. 3, contiene un preciso obbligo in materia di processo penale. Tale paragrafo così recita :
Chiunque sia arrestato o detenuto in base ad un'accusa di carattere penale deve essere tradotto al più presto dinanzi a un giudice o ad altra autorità competente per legge ad esercitare funzioni giudiziarie, e ha diritto ad essere giudicato entro un termine ragionevole, o rilasciato”.
Nel General Comment No 8 adottato dal Comitato dei diritti dell’uomo il 30 giugno 1982 si legge:
Paragraph 3 of article 9 requires that in criminal cases any person arrested or detained has to be brought ‘promptly’ before a judge or other officer authorized by law to exercise judicial power. More precise time limits are fixed by law in most States parties and, in the view of the Committee, delays must not exceed a few days”.
L’India è chiaramente in violazione della disposizione. E’ ormai trascorso oltre un anno dalla sentenza della Corte Suprema e i capi d’imputazione non sono stati ancora formulati, con la conseguenza che il processo davanti alla Corte speciale non ha potuto avere inizio. La formulazione dei capi d’imputazione e la traduzione davanti all’autorità giudiziaria è una questione di “pochi giorni” secondo l’interpretazione del Comitato, premessa necessaria affinché il processo possa concludersi entro termini ragionevoli; altrimenti il preteso reo deve essere rilasciato. 
Il Trattato Italia-India sul trasferimento delle persone condannate
Tra Italia e India è stato concluso il 10 agosto 2012 un Trattato sul trasferimento delle persone condannate, entrato in vigore il 1° aprile 2013. Il Trattato Italia-India è uno dei tanti conclusi dall’Italia sia in ambito multilaterale (ad es. Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 adottata nel quadro del Consiglio d’Europa) sia in ambito bilaterale. Ci sono in India 18 italiani detenuti a fronte di 108 cittadini indiani che debbono scontare la pena in Italia.
Ma una spinta alla conclusione dell’accordo è stata la questione dei due fucilieri di marina ed il timore che la magistratura indiana decidesse, come poi in fatto è avvenuto, che l’incidente della E.L. ricadesse sotto la giurisdizione indiana. Una sorta di assicurazione per i due fucilieri di marina trattenuti in India, come è stato detto durante il dibattito parlamentare di autorizzazione alla ratifica, quando ancora non era stato ventilato lo spettro della pena di morte.
In effetti il Trattato prevede il trasferimento del condannato allo Stato richiedente, sempre che il condannato non abbia manifestato una volontà contraria. Lo Stato ricevente deve continuare l’esecuzione della condanna inflitta dallo Stato trasferente, ma può adeguare la pena a quella prevista per lo stesso reato nell’ordinamento dello Stato ricevente.
L’art. 11 consente anche provvedimenti di clemenza, poiché ciascun Stato contraente può accordare la grazia, l’amnistia o l’indulto conformemente alle proprie leggi. Vi sino però due  condizioni per il trasferimento del condannato. La sentenza che lo riguarda deve essere definitiva e quindi può accadere che una volta condannato in primo grado il reo non possa essere trasferito se questi o l’accusa proponga appello. Inoltre (e si tratta di condizione di non poco momento) il trasferimento è subordinato all’accordo in tal senso tra Stato trasferente e Stato ricevente (art. 4). In ogni caso il detenuto non può essere trasferito nelle more del giudizio. 
Il ricorso ad una giurisdizione internazionale
Il ricorso ad una giurisdizione internazionale comporta naturalmente dei margini di rischio, poiché non è facile anticipare l’esito del procedimento. Nel momento più acuto della crisi Italia-India, il governo italiano, tramite una  nota del MAE, aveva  proposto di risolvere la controversia mediante un procedimento giudiziale o arbitrale.
Ma tale opzione non è stata più riproposta e l’Italia ha preferito contestare la giurisdizione indiana nel giudizio dinanzi alla Corte Suprema. Tattica processuale che seguirà anche dinanzi al Tribunale specialeLa strada della giurisdizione internazionale è irta di ostacoli e presenta problemi tecnici che non è possibile affrontare in questa nota.
In breve le opzioni sono treCorte internazionale di giustizia dell’AjaTribunale internazionale del diritto del mare (Amburgo), Arbitrato ad hoc. L’attivazione di una delle tre corti dipende, nel caso concreto, da un compromesso arbitrale, che determini l’oggetto della controversia su cui la corte o tribunale deve giudicare.
Il punto è importante. Infatti la corte o tribunale dovrebbe giudicare su tutte le questioni di diritto internazionale che il caso dell’E. L. solleva, inclusa quella dell’immunità funzionale, che, a nostro parere, costituisce uno dei più solidi argomenti a favore delle ragioni italiane.
Ad es. se la controversia fosse portata dinanzi al Tribunale del diritto del mare, si potrebbe correre il rischio che il Tribunale si dichiarasse competente per dirimere la questione della giurisdizione dello Stato della bandiera in alto mare, ma incompetente per quanto riguarda la questione dell’immunità funzionale.  Resta il problema di non poco conto della Convenzione SUA, la quale prevede il ricorso ad un arbitrato ad hoc e, in caso di disaccordo sull’organizzazione dell’arbitrato, l’attivazione della Corte internazionale di giustizia (art. 16). Ma l’India, al momento del deposito della ratifica, ha formulato una riserva a tale disposizione.
 Le opzioni attualmente aperte
L’Italia ha finora seguito due strade: una a livello dei tribunali indiani, l’altra a livello diplomatico. Occorre rafforzare le difese messe in campo, qualora s’intenda proseguire sul percorso finora tracciato.
a)   Il livello giurisdizionale indiano
L’Italia ha deciso di difendersi nel processo e non dal processo. Qualora s’intenda proseguire su questa strada occorre:
1)        Affermare l’incompetenza dei tribunali indiani, poiché i due Marò godono dell’immunità dalla giurisdizione (immunità funzionale). Il punto non è stato adeguatamente considerato dalla Corte Suprema indiana, anche perché non rappresentato con sufficiente chiarezza e dovizia di argomentazioni;
2)        Rappresentare la violazione dell’art. 9 del Patto sui diritti civili e politici del 1966, poiché le accuse non sono state ancora formulate  e la Corte speciale non ha ancora iniziato il procedimento, nonostante sia trascorso un anno dalla Sentenza della Corte Suprema;
3)        Affermare l’inapplicabilità della Convenzione SUA e di conseguenza della legge di esecuzione indiana (SUA Act), poiché la Convenzione disciplina il fenomeno “terrorismo marittimo”. Dato il rapporto organico che lega i due Marò allo Stato italiano, applicare la SUA significherebbe accusare l’Italia di atti di terrorismo marittimo, poiché  gli atti dei due Marò, anche se esorbitanti dall’esercizio delle loro funzioni (cioè ultra vires), sono imputabili all’Italia;
4)        Rappresentare chiaramente che immunità funzionale non significa impunità. Qualora ritenuti responsabili, i due Marò potrebbero essere giudicati in Italia dalla magistratura ordinaria e da quella militare;
5)        L’atto dei due Marò è internazionalmente imputabile all’Italia. Essa ha provveduto, sia pure ex gratia, a risarcire in modo cospicuo i familiari delle vittime. 
b)   Sul piano diplomatico l’azione deve continuare a livello sia bilaterale che multilaterale.
A livello bilaterale
Talune delle argomentazioni prospettate sub a) possono essere riproposte anche a livello bilaterale. Esse dovrebbero essere riaffermate al più alto livello governativo, anche insistendo sui doveri che discendono dall’art. 100 dell’Unclos, che obbliga gli Stati ad esercitare la massima collaborazione nella repressione della pirateria. L’imbarco di personale armato a bordo dei mercantili si è rivelato un mezzo di contrasto efficace e la vicenda dei due marò potrebbe indurre taluni Stati e gli armatori a riconsiderare la questione, con un danno enorme per la lotta alla pirateria.
A livello multilaterale
Occorre intensificare l’azione sia con i nostri alleati sia nei fori multilaterali in cui l’Italia è presente, incluso l’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), che si occupa anche di pirateria. Occorre ribadire i doveri derivanti dall’art. 100 Unclos e l’inapplicabilità della Convenzione SUA, che praticamente porterebbero all’assurda conclusione di accusare l’Italia di atti di terrorismo marittimo, come si è poc’anzi precisato. Nei fori multilaterali finora le tesi italiane hanno avuto scarso successo.
Nel dibattito in seno al Cds sulla pirateria nel novembre del 2012 solo il Rappresentante dell’Unione europea si è espresso a favore delle tesi italianeposizione che tuttavia non è stata adeguatamente ripresa successivamente all’interno dell’UE.
Occorre quindi rappresentare in seno alle Nazioni Unite che uno Stato come l’India, che aspira ad un seggio permanente in seno al Cds nella riforma delle Nazioni Unite, non può ostacolare gli Stati che, come l’Italia, hanno dato e stanno dando un contributo fondamentale alla lotta alla pirateria. Un’azione che può essere perseguita, quantunque l’Italia, nei lavori per la riforma del Cds, si trovi su posizioni opposte a quelle indiane.
E’ necessario anche chiedere un intervento del Segretario Generale delle Nazioni Unite, che può essere decisivo per dipanare la matassa. Una menzione particolare merita l’Unione europea. E’ essenziale che lady Ashton e gli altri organi competenti dell’Unione prendano un’iniziativa incisiva e smettano di trincerarsi dietro la scusa che la questione dei marò è un affare bilaterale Italia-India.
Il proposito di bloccare le trattative in corso per un accordo di libero scambio tra UE e India potrebbe essere una strada da percorrere, a condizione che la trattativa sia di reale interesse per l’India. Ma l’iniziativa deve essere presa e perseguita al più alto livello governativo, palesando chiaramente che l’Italia si opporrà al perfezionamento dell’accordo quando questo approderà al tavolo del Consiglio dell’Unione, qualora non venga risolta la questione dei Marò. Negli ultimi giorni qualche passo è stato finalmente fatto in questa direzione. Si prosegua con decisione su questa strada.

LA POSIZIONE DEL GOVERNO ITALIANO SUL PIANO GIUDIZIARIO
(a cura dell’Avv. Carlo Sica)*

A brevissima distanza temporale dall’arresto (19 febbraio 2012) dei due militari, il Governo decise di rivolgersi all’Avvocatura dello Stato per un affiancamento, anche con funzione di coordinamento, al team legale indiano in modo da garantire iniziative giudiziarie comunque coerenti con l’azione del Governo.
Sin dal giorno 8 marzo 2012 (giorno di inizio della prima missione in India) l’Avvocatura dello Stato affidò il caso a un proprio team (allo stato composto da tre Avvocati) coordinato dall’Avvocato dello Stato Carlo Sica.
I rapporti tra i due team sono stati sempre, e sono tuttora, molto collaborativi e positivi: le scelte di merito sono frutto di confronto costruttivo; mentre, le scelte processuali sono, per evidenti ragioni di conoscenza professionale, sostanzialmente demandate al team indiano.
Sul piano giudiziario, la posizione del Governo è stata quella di:
1) negare la giurisdizione territoriale in ragione del fatto che l’evento contestato è (sarebbe) accaduto alla distanza di 22,5 miglia dalla costa indiana;
2) rivendicare l’immunità funzionale, sulla base della c.d. “legge dello zaino”;
3) affermare la piena correttezza dell’operato dei due militari, che – comunque – avrebbero agito nel pieno rispetto delle regole d’ingaggio;
4) processualmente, la scelta consigliata dal team indiano è stata quella di non fare rendere dichiarazioni da parte dei due militari all’autorità che conduceva le indagini (in India, le indagini sono condotte dalla polizia – od organismo similare – senza intervento del giudice e senza alcun diritto a favore della difesa. Ad es., la perizia balistica non ha visto partecipare effettivamente i nostri esperti)
5) si è, altresì, ritenuto che:
a) il ricorso alla Corte internazionale di Giustizia avrebbe richiesto un consenso ad hoc dell’India, che si è ritenuto impensabile ottenere (anche l’Italia sinora non ha accettato la giurisdizione obbligatoria della Corte);
b) alla medesima conclusione si è pervenuti per l’attivazione di una procedura arbitrale volontaria di carattere generale;
c) il ricorso all’arbitrato di carattere obbligatorio previsto dalla parte XV e dall’allegato VII dell’UNCLOS non è stato praticato sia per la sua prevedibile lungaggine (non meno di 4 anni) sia per la sua natura d’interpretazione della Convenzione senza possibilità di esame del caso pratico. 
In ragione della scelta di cui al punto 4, i due militari, nel rendere dichiarazioni all’organo investigativo, si sono limitati a negare la giurisdizione indiana senza rispondere ad alcuna domanda di merito.
Come noto, dopo la conclusione delle indagini da parte della Polizia del Kerala (che aveva contestato il reato di omicidio volontario) e nel mentre si era riusciti a rimuovere lo stato di detenzione in carcere per ottenere (dopo un periodo di detenzione domiciliare) lo stato (tuttora vigente) di libertà vigilata (i due militari non possono oltrepassare i confini della città di Delhi; una volta a settimana devono presentarsi al posto di polizia; sono stati privati del passaporto), in data 18 gennaio 2013 la Corte Suprema indiana ha dichiarato la giurisdizione territoriale dell’Unione indiana, ma non del Kerala con conseguente annullamento di tutte le indagini svolte (ad eccezione della perizia balistica, perché effettuata da un organismo nazionale).
La Corte ha, altresì, ordinato all’Unione indiana di individuare un nuovo organismo per le indagini e ha individuato la Corte speciale per il giudizio di merito: in un giudice monocratico metropolitano in caso di contestazione di reato punito con pena inferiore nel massimo ai 7 anni; in un giudice monocratico sovrametropolitano in caso di reato punito con pena superiore nel massimo a i 7 anni.
La Corte ha, anche, precisato che il procedimento si sarebbe dovuto concludere rapidamente, ribadendo questo input in un successivo provvedimento dell’aprile 2013, reso in esito a un ricorso proposto per lamentare che le indagini non erano ancora cominciate.
In esito, il Ministero dell’Interno indiano ha individuato l’organo investigativo nella National Investigation Agency - NIA (organismo nazionale deputato al perseguimento dei reati di terrorismo), che avrebbe dovuto concludere le indagini a cavallo dell’estate 2013.
In realtà e nonostante le iniziative processuali e paraprocessuali intraprese dal team legale indiano, le indagini – come noto – non sono ancora concluse.
Con l’ultima iniziativa processuale si è tornati a lamentare alla Corte suprema che:
a) nonostante il provvedimento della medesima Corte dell’aprile 2013, le indagini non si erano ancora concluse;
b) nell’ipotesi (realistica) che la NIA intendesse contestare violazioni del SUA ACT (sotto specie di reato di attentato alla navigazione), ciò non era consentito perché, nelle sue precedenti pronunce, la Corte Suprema non aveva ricompreso dette violazioni nei reati che potevano e dovevano essere oggetto d’indagine;
c) ove, conseguentemente, la NIA non possa contestare dette violazioni, nessun altro organismo indiano ha la possibilità di condurre indagini per fatti commessi oltre le 20 miglia marine dalla costa indiana, onde il procedimento va archiviato;
d) in ogni caso, in attesa degli sviluppi della vicenda, i due militari devono poter ritornare in Italia con l’impegno di rientrare in India all’inizio dell’eventuale processo.

Questo procedimento dinanzi la Corte Suprema è, allo stato, rinviato all’udienza del 3 febbraio 2014 per le controdeduzioni del General Attorney indiano.
(tratto da: Fonte)
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