venerdì 22 febbraio 2013

UNA "POVERTÀ" INSOSTENIBILE


Pensate a una persona ricca che ha una bella villa in un immenso parco nazionale con uno spettacolare panorama. E pensate che questa persona, invece di essere felice per la bellezza che la circonda, si concentri solo sull’estensione del suo piccolo possedimento e sul confronto tra questo e le proprietà di altri con i quali è solito paragonarsi. Emerge così una delle tante dimensioni di povertà, quella nella quale – come mi piace dire – «povero è colui che non sa godere di ciò che non possiede». L’implicazione di quest’affermazione è che la nostra ricchezza è la somma dei nostri averi personali più la quota ben superiore dei beni comuni di cui possiamo godere. Un giovane che gira l’Europa con il biglietto ferroviario Interrail sa benissimo di che cosa parlo e, pur non essendo percettore di reddito, è "ricco" e sa godere dell’immensa ricchezza che il mondo gli mette a disposizione. Per questo stesso motivo un "povero" che vive sul lungomare di Rio è certamente più "ricco" di un povero che vive in un sobborgo degradato di una grande metropoli che non possiede quell’incredibile bene naturalistico a disposizione di tutti che invece ha la città brasiliana.


Ciò di cui stiamo parlando non è speculazione filosofica ma piuttosto qualcosa che dovrebbe essere ben presente nelle menti dei nostri politici e nelle loro agende. Com’è noto esiste una tendenza naturale al degrado, per la quale un mercato senza regole tende a deteriorare i beni comuni e i beni pubblici a sostituirli progressivamente con beni privati. Nel gergo tecnico, gli economisti sanno che la fragilità dei beni comuni sta nell’impossibilità di escluderne la fruizione e nel rischio che tale fruizione porti a un eccesso di sfruttamento e, dunque, a un deterioramento degli stessi.

La nostra "civiltà" nel corso degli ultimi decenni ha progressivamente depauperato il valore di beni pubblici e/o comuni fondamentali come i legami relazionali (sopratutto quelli familiari e comunitari), il patrimonio naturalistico, storico e archeologico. La perdita di beni comuni legati alle relazioni è stata compensata da una crescita di beni privati surrogati "sostituti" (spese per la protezione e la sicurezza, attività di tempo libero o virtuali, ecc.). Ancora oggi, nonostante i progressi scientifici sul tema della misurazione del benessere e il consenso internazionale sull’esigenza di ridefinizione della ricchezza delle nazioni, leggiamo analisi vecchie che considerano l’imperativo della crescita senza essere capaci di distinguere tra crescita sostenibile e crescita "impoverente" e senza seriamente preoccuparsi degli effetti esterni –  sociali e ambientali – dei diversi sentieri di crescita. Eppure politici e aziende dovrebbero aver imparato ormai molto bene che il disinteresse per le conseguenze sociali e ambientali dei sentieri di sviluppo prescelti è miope, perché prima o poi i nodi vengono al pettine, distruggendo lavoro. Se l’Ilva, come tante aziende ormai fanno, avesse investito nell’innovazione ambientale come risorsa competitiva (invece che disperdere risorse per evitare di dover pagare le conseguenze dei suoi mancati investimenti) non si troverebbe oggi nella situazione in cui si trova.

C’è da chiedersi se i candidati alle prossime elezioni si rendano conto che la nuova "mappa del benessere" disegnata da Istat e Cnel ascoltando gli italiani mette beni comuni, beni pubblici e beni intangibili (come paesaggio, patrimonio culturale, sicurezza) ai primi posti della classifica assieme al benessere economico. E che quindi è anche su questi indicatori che si giocherà il consenso nei loro confronti. C’è da chiedersi se si rendano conto che sta qui il fattore chiave per generare un vantaggio competitivo (e non delocalizzabile all’estero) che consente di creare valore in numerosi settori privati come il turismo, la produzione enogastronomica e molti altri.

Al momento, ciò che risulta agli atti è purtroppo una prevalente e desolante incapacità di andare oltre il disco rotto di un mero obiettivo quantitativo per valutare il rapporto tra crescita e felicità (socialmente e ambientalmente sostenibile) dei cittadini.  Questa povera incapacità di capire, vedere e valutare i beni che ci fanno davvero ricchi è un lusso che non avremmo dovuto concederci e che non possiamo più permetterci.
(Fonte)
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