«Questa è una sentenza schifosa, ma è chiaro che io non mi farò sbattere in galera tanto facilmente».
L’allarme rosso è scattato, la trincea si è alzata. Il no pronunciato a
piena voce dalla Corte costituzionale contro il ricorso di Silvio
Berlusconi e contro il legittimo impedimento reclamato per il processo
Mediaset, ha spinto il centrodestra sul piede di guerra. Come nelle
giornate di massima allerta, l’intero stato maggiore del Pdl si schiera
al fianco del suo leader. I ministri corrono a via del Plebiscito, i
colonnelli fanno sentire la loro voce e invocano una reazione.
Immediata. La crisi di governo. Per l’ex premier è una sconfitta
pesante. Prevista, ma comunque dolorosa. Promette battaglia, ma evita lo
show down. Vuole trattare, restando nella posizione di socio di
maggioranza della coalizione governativa.
Il suo sguardo, però, non è più rivolto alla Consulta.
Bensì alla Cassazione. A questo punto i tempi del caso Mediaset non si
possono più allungare. I giudici costituzionali hanno riaperto la strada
ad un percorso fisiologico della giustizia. La Suprema Corte nei
prossimi 8-9 mesi sarà chiamata a emettere la sua decisione finale.
Confermando o respingendo la condanna dell’Appello. La prescrizione
scatta a giugno 2014: i giudici dovranno quindi esprimersi prima di
quella data. E se ratificheranno la sentenza dei primi due gradi, allora
esploderà una vera e propria bomba nucleare. Perché? Perché i quattro
anni di reclusione saranno accompagnati dalla pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici. Ossia l’addio al Parlamento.
«Ecco — si è sfogato il Cavaliere con i suoi fedelissimi —
nessuno può pensare che io esca dalla politica in questo modo. No, non
sarà così».La posta in palio non è solo il suo destino
giudiziario, ma la vita del governo Letta e della “strana maggioranza”.
L’appuntamento finale è solo rinviato al prossimo inverno. Nel frattempo
l’esecutivo può andare avanti. Anzi, dopo l’esito delle ultime elezioni
amministrative che ha visto il centrodestra crollare e soprattutto dopo
l’esplosione del Movimento 5Stelle, l’ex premier si è convinto che la
carta della crisi di governo e delle elezioni anticipate va giocata solo
come una extrema ratio. «Rompere adesso — è il suo ragionamento — non
conviene. Quale risultato otterremmo? Per noi niente. Mentre il Pd
avrebbe il ribaltone con i dissidenti grillini o, più probabile, il
ritorno al voto in una posizione di forza. Con Renzi in pole position e
Grillo ormai in discesa libera. Non si ripeteranno più le circostanze di
febbraio».
Il Cavaliere, allora, sta costruendo un’altra via d’uscita. Una sorta di “Piano C” da edificare all’interno del governo.
Ossia mettere sul tavolo della trattativa con il presidente del
Consiglio e soprattutto con il Pd una sorta di “scambio”: la vita
dell’esecutivo per il “no” all’interdizione. Un ragionamento che gli
“ambasciatori” di Palazzo Grazioli hanno già iniziato a formulare con i
parlamentari più disponibili del Partito Democratico. E questi lo hanno
riferito a Palazzo Chigi.
Il disegno è semplice: se venisse confermata
l’interdizione dai pubblici uffici, la “decadenza” dalla carica
parlamentare (come prescrive l’articolo 66 della Costituzione) dovrà
comunque essere votata dall’Assemblea di appartenenza, ossia dal Senato.
La “Procedura di contestazione dell’elezione” viene prima esaminata
dalla Giunta per le immunità e quindi dall’Aula. A scrutinio segreto. E
proprio in vista di questo passaggio, il baratto proposto dal Cavaliere è
chiaro: «Voi votate contro la mia decadenza e io non faccio cadere
Letta». È evidente che per condurre una contrattazione del genere, ha
bisogno di rimanere nel confine della maggioranza. Di mantenere i piedi
nella squadra governativa. Un negoziato, ovviamente, durissimo e
soprattutto indigeribile per molti dei Democratici. Eppure, la prima
puntata è iniziata proprio ieri.
Basti pensare a cosa è accaduto al vertice serale a Via del Plebiscito.
Praticamente tutto il Quartier generale del Pdl — un po’ meno i
ministri — ha sbattuto sul tavolo della discussione l’ipotesi di uscire
dal governo per provocarne la crisi. Il Cavaliere li ha frenati:
«Bisogna distinguere le mie questioni dall’esecutivo. Questa è una
sentenza schifosa, figlia del conflitto orchestrato da una parte della
magistratura contro la mia discesa in campo, ma il Paese ha bisogno di
questo governo ». Essersi messo sul fronte delle colombe e aver
schierato l’intero partito su quello dei falchi, è esattamente la prima
mossa della trattativa. Un modo per dire: «Io posso calmare i miei ma
fino ad un certo punto. Per calmarli, voi dovete aiutarmi». In questa
ottica un passaggio fondamentale sarà il prossimo voto sulla
ineleggibilità del Cavaliere di cui si discuterà a Palazzo Madama a
partire dal 9 luglio. L’ex premier sa che il Pd in quel caso voterà
contro l’ineleggibilità e userà quella decisione per provocare una sorta
di corto circuito ineleggibilità-interdizione. Se i Democratici si sono
espressi per la liceità della mia elezione — sarà il suo discorso —
possono farlo anche quando si tratterà di pronunciarsi sulla decadenza
dal mandato senatoriale.
Ma può il centrosinistra accettare questo “baratto”? Difficilissimo.
Enrico Letta fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi ha ripetuto a
tutti: «Il mio governo non può fare nulla per quanto riguarda i processi
di Berlusconi». Insomma, il principio cui ogni ministro del Pd si sta
attenendo è quello della «totale separazione dalla vicende giudiziarie».
Non solo. Cosa accadrebbe nell’elettorato e nell’opinione pubblica
progressista se Berlusconi venisse “salvato” in quel modo? Una vera e
propria baraonda. E, come spiega un esperto senatore democratico, «se io
voto per mandare al macero una sentenza definitiva contro Berlusconi,
poi mi devo dare alla macchia. Con che faccia mi presento nel mio
collegio? Non potrei nemmeno passeggiare per strada. Non esiste, il
“baratto” che ci propone il Cavaliere non può essere accettato».
Il leader del centrodestra ci proverà comunque fino alla fine.
Contando anche sul fatto che fino a che sta in maggioranza la sua
capacità di trattativa potrà essere espressa in tutte le direzioni,
anche nei confronti del Quirinale («Mi aveva promesso una mano»). «Se
poi ogni tentativo fallirà — ha avvertito — allora è chiaro che nessuno
può pensare che io mi faccia sbattere in galera tanto facilmente. A quel
punto tutto sarà lecito. La crisi di governo e la rivolta contro la
dittatura dei giudici».
(Fonte)
Nessun commento:
Posta un commento