La crisi schiaccia gli stipendi Anche chi ha un posto è povero
Negli ultimi 10 anni paghe battute dalla corsa dell’inflazione
Il decennio 2002-2012 ha registrato il fallimento delle politiche
salariali e retributive, ha appiattito i differenziali, non ha
individuato né costruito vere pratiche di meritocrazia. Quanto più si è
parlato di riconoscimento del merito e dei risultati delle prestazioni
lavorative, tanto più si sono mortificati gli sforzi, sia nel pubblico
che nel privato.
L’unico risultato evidente, sebbene non ancora diventato elemento di
consapevolezza e di reazione sociale e politica, è quello di un
appiattimento delle retribuzioni, di una riduzione dei margini di
dinamismo delle retribuzioni variabili, di una ripresa di politiche
aziendali non trasparenti e di breve respiro, fortemente discrezionali
e, soprattutto, di una perdita netta del potere d’acquisto. E questo
slittamento ha investito tutti: operai, impiegati, quadri, dirigenti,
lavoratori col posto fisso e lavoratori intermittenti e precari.
Nessuno si è salvato. Se andiamo ad analizzare dieci anni di
retribuzioni in Italia, l’effetto ottico distorsivo è quello di una
crescita apparente. Ovviamente, sul piano nominale, tutti sono
cresciuti. Fatto 100 il 2002, gli operai sono cresciuti nel 2011 al
122,2, nel 2012 al 124,4. Gli impiegati al 119,2 nel 2011, al 123,6 nel
2012. I quadri al 129 nel 2011 e al 128,7 nel 2012; i dirigenti al 118,1
nel 2011 e al 121,3 nel 2012. Tutto bene, quindi? Niente affatto. Se
infatti verifichiamo i valori reali e rapportiamo i valori nominali con
l’andamento dell’inflazione, la crescita diventa un salasso, per tutti. I
prezzi al consumo sono cresciuti al 124,5 nello stesso periodo
(2002-2012). Da cui si evince che solo i quadri si sono in parte
salvati. Ma se prendiamo invece il dato più realistico, e cioè quello
dei prezzi al consumo dei beni ad alta frequenza d’acquisto, quelli che
vengono comprati dalla stragrande maggioranza delle persone, la tosatura
diventa ancora più evidente: dal 2002 al 2012 questo indice sale al
133,1. Tutti colpiti, quindi, e senza la copertura del potere
d’acquisto. Lo stesso succede se adottassimo l’indice Ipca, l’indice
europeo armonizzato. E questo vale per quanto riguarda le retribuzioni
lorde che, come ben si sa, subiscono poi un’ulteriore tosatura per tasse
e contributi.
Da qui sono partiti i vari tentativi di contenimento del costo del
lavoro, di riduzione del cosiddetto cuneo fiscale (differenza tra
salario lordo e salario netto in busta paga) e di agevolazione degli
stipendi di produttività, sinora con scarsissimi effetti pratici. Anche
le ipotesi di decentramento contrattuale e di revisione del peso dei
contratti nazionali collettivi di lavoro non ha finora prodotto
risultati significativi. Del resto la struttura del sistema industriale e
delle imprese italiane vede il netto prevalere delle piccole e
piccolissime imprese: se il 97 per cento delle aziende è sotto la soglia
dei 50 dipendenti, la contrattazione aziendale o di territorio rischia
di essere una pia illusione, a favore del mantenimento della funzione
centrale del contratto nazionale che, anche se tende ad appiattire e
uniformare la realtà, riesce ancora a offrire tutele e miglioramenti che
altrimenti sarebbero negati. La compressione salariale e
l’appiattimento retributivo hanno inoltre fatto impietosamente emergere
un altro fenomeno: essere poveri pur avendo un lavoro.
La coincidenza virtuosa tra lavoro, stipendio e sicurezza sembra non
reggere più. Si è formato un nucleo forte dentro la classe lavoratrice,
quello rappresentato dai cosiddetti working poor, i poveri che lavorano,
anche con un contratto a tempo indeterminato. Se la maggioranza degli
operai arriva a malapena a 1200-1300 euro netti a mese, il loro tenore
di vita e il loro contributo ai consumi è davvero ridotto. Senza contare
i compensi erogati ai cosiddetti precari, che in molti casi non
riescono a superare i 1000 euro al mese. È da qui che si è messa in moto
una demotivazione al lavoro, ritenuto un investimento che non vale più
la pena fare. È da qui che deve partire, invece, una nuova politica
retributiva: legandola al tema del potere d’acquisto, della
produttività, del merito e della partecipazione.
(Fonte)
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