Il problema numero uno si chiama euro
– tecnicamente: impossibilità di emettere moneta sovrana – ma il
presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, preferisce parlare di uno
dei suoi effetti più vistosi, cioè la mancata liquidazione dei crediti
delle imprese da parte della pubblica amministrazione, ridotta in
bolletta. Il saldo, secondo gli industriali italiani, potrebbe portare a
250.000 posti di lavoro nel giro di cinque anni, con una crescita del
Pil dell’1% per i primi tre anni, per arrivare all’1,5% nel 2018.
Robetta, in confronto ai centomila posti di lavoro “immediati”
ipotizzati da Luciano Gallino se solo si ricorresse a finanziamenti
speciali per i giovani, o ai 200.000 occupati nell’edilizia che secondo
Maurizio Pallante, presidente del Movimento per la Decrescita Felice,
scatterebbero senza costi aggiuntivi con un semplice piano nazionale di
riconversione degli edifici, orientato al risparmio energetico.
Per Squinzi, l’immissione di liquidità nel sistema delle imprese
«innescherebbe un circolo virtuoso portatore di posti di lavoro e,
quindi, maggiori
consumi». Confindustria auspica che il governo in carica «provveda
tempestivamente ad adottare, già dal prossimo Consiglio dei ministri,
tutti i provvedimenti necessari per la liquidazione di quanto spetta
alle imprese». Per la cronaca, il “governo in carica” è ancora quello
presieduto da Mario Monti, il commissario liquidatore dell’Italia inviato da Bruxelles per la più suicida delle missioni: imporre l’austerity
in regime di recessione, in ossequio alla teologia economica che, dalla
Bocconi ad Harvard, professa una fede grottesca nell’ossimoro “più rigore,
più crescita”. Monti, tecnocrate dell’Eurozona già al lavoro per la
Goldman Sachs, esponente del Gruppo Bilderberg e della Commissione
Trilaterale: denunciato da Paolo Barnard per “attentato alla
Costituzione”, dopo il “golpe bianco” promosso da Napolitano alla fine
del 2011. “Capolavoro” immediato: il taglio sanguinoso delle pensioni,
predisposto da un’insider come Elsa Fornero, che – come lo
stesso Barnard documenta – “lavora” da oltre dieci anni per le grandi
compagnie assicurative, quelle che presidiano il mercato delle pensioni
private.
Così, prosegue senza freni il crollo dell’economia
reale italiana, non più supportata dalla necessaria leva della moneta
sovrana: secondo la Cgia di Mestre, nel 2012 un fallimento su tre è
stato causato proprio dai ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche
amministrazioni. Sono ben 12.463 le imprese italiane che hanno chiuso
per fallimento, e di queste quasi 4.000 si sono arrese di fronte
«all’impossibilità di incassare le proprie spettanze in tempi
ragionevoli, sia da committenti pubblici che da committenti privati». Di
questo passo, si scende negli scantinati infernali della crisi: «La
mancanza di liquidità che attanaglia le aziende sta facendo crescere il
numero degli sfiduciati», denuncia Giuseppe Bortolussi, portavoce
dell’associazione che rappresenta artigiani e piccole imprese. In tanti,
ormai, hanno deciso di non ricorrere più alle banche: «E’ un segnale preoccupante, che rischia di indurre molte aziende a rivolgersi a forme illegali di accesso al credito, con il pericolo che ciò dia luogo a un aumento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico».
Mentre il ministro Vittorio Grilli “rassicura” Confindustria sul
recupero dei crediti alle imprese – perlomeno, quelle sopravvissute al
regime artificiale di penuria imposto dall’Eurozona a guida tedesca –
nelle trattative per il nuovo ipotetico governo italiano non è ancora
stato intavolato, in modo determinante, quello che per Giorgio Cremaschi
sarà il vero referendum sul nostro futuro: dire sì o no al Fiscal
Compact. E’ evidente che, col preteso “pareggio di bilancio”, lo Stato
sarà costretto a spremere ulteriormente cittadini e aziende. Sempre Barnard cita il caso della Gran Bretagna, che pure è «in recessione e con 60 miliardi di euro
da prendere in prestito in più». Eppure, proprio grazie al controllo
dello Stato sulla sterlina, anche in un momento come questo riesce a
«tagliare la tassa sulle aziende di 8 punti percentuali», e allo stesso
tempo a «promettere 12 miliardi di sterline di garanzie ai detentori di
mutui a rischio, che beneficeranno di 130 miliardi di sterline di
mutui». Avendo evitato di finire nella trappola dell’euro,
il governo sovrano di Londra arriva persino a «richiedere alla banca
centrale britannica di fregarsene dell’inflazione e di aiutare la
crescita».
(Fonte)
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