Cosa accade quando saltano completamente le misure? Quando il campo
di battaglia appare indefinito e le squadre che si affrontano diventano
un “noi contro loro” inafferrabile, rimodulabile per ogni evenienza,
così ideologico da rivendicare per se l’esclusiva appartenenza al campo
post-ideologico? Accade che nessuno sa che
pesci prendere e questo, a volte, apre a scenari molto interessanti.
Solo a volte però, solo se si è in grado di giocarsi questa partita fino
in fondo, con il coraggio di chi si accorge che proprio ora alcune cose
vanno affermate con vigore. Cos’è che non si può più fingere di non
vedere?
Ad esempio quello che sta accadendo a Cipro, ultima tappa di un
percorso strutturato e di un piano molto ben congeniato: un piano che
prevede la possibilità per chi ha continuato ad arricchirsi dentro la
crisi globale, chi ha continuato ad accumulare fortune, a privatizzare e
svendere interi paesi, di proseguire indisturbato la sua missione.
L’ipotesi, bocciata dal governo cipriota, era quella di applicare
prelievi forzosi ai conti correnti bancari del paese, per poter
sbloccare gli aiuti necessari ad evitare il default dell’isola.
Il controllo che le istituzioni finanziare europee vogliono
esercitare direttamente sugli stati sovrani non conosce più limiti. Non
basta imporre le misure di austerity, il pareggio di bilancio o
stabilire piani di ristrutturazione e rientro dal debito “lacrime e
sangue”; bisogna poter intervenire direttamente e mettere le mani sui
patrimoni non per ridistribuire la ricchezza, ma per salvare le banche.
La sensazione però è che in Italia si agiti ossessivamente il dito
per nascondere la luna: il dibattito pubblico post-elettorale concentra
tutti i suoi sforzi sullo tsunami che fa il suo ingresso nei palazzi del
potere, sulla “scatoletta di tonno” da aprire e sulla necessità di
“rendicontare anche le caramelle”. E’ un messaggio molto chiaro quello
che si cerca di mandare: il disastro è stato causato dai soliti noti,
corrotti e incapaci, ora è il momento di mettere le persone giuste al
posto giusto e tutto si sistemerà.
Ed ecco fiumi di inchiostro e ore di dibattiti sulle competenze e
soprattutto sul merito, sulla necessità di assegnare i giusti compiti
alle giuste persone e di far sviluppare il paese applicando una robusta
meritocrazia! Dall’infallibilità dei tecnici all’infallibilità dei
cittadini-informati il passo è breve: il sapere viene dipinto sempre
come neutrale e super-partes, bisogna affidarsi cecamente a chi “sa”
così da non ripetere gli stessi errori. Cosa nasconde questa retorica è
molto facile da svelare.
E’ notizia di ieri la richiesta da parte di numerosi presidi di
alcuni licei, di applicare i test d’ingresso anche per le loro scuole.
Gli studenti sono troppi e a noi servono solo le eccellenze, spiegano i
solerti capi d’istituto, dimenticando forse che si tratta di scuola
dell’obbligo. In caso di non idoneità basta ripiegare sulla seconda
scelta, ci sarà sicuramente qualche scuola pronta ad accogliere i figli
meno meritevoli. A 13 anni bisogna mostrare di essere all’altezza,
altrimenti sono già pronti percorsi di serie b per chi proprio non si
merita una formazione di qualità.
Questo meccanismo perverso è quello che già trionfa in tutte le
università italiane: se si dimostra di essere meritevoli nei test
d’ingresso si può accedere al corso di laurea, avere alloggi e borse di
studio, “percorsi di eccellenza” e canali preferenziali per accedere al
mondo del lavoro. Per tutti gli altri? Briciole e macerie. Quelle
macerie in cui è stata ridotta, con orgoglio, l’università italiana e
in cui stanno riducendo le scuole. Ma la formazione non dovrebbe essere
opportunità di sviluppo e di riscatto per tutti? Una ricerca OCSE,
sempre ieri, dimostra come a parità di rendimento gli insegnanti siano
portati ad assegnare voti migliori a chi proviene da fasce sociali
elevate. La prima reazione sarebbe quella di inorridire; gli studenti
però si sono accorti da anni quanto i luoghi della formazione stiano
diventando (volontariamente) poco ospitali per chi non può permettersi
un alto tenore di vita.
A cosa serve quindi sventolare ossessivamente la parola meritocrazia,
dentro una delle crisi più feroci mai vissute? A governare la scarsità,
a legittimare l’impoverimento progressivo di milioni di persone, a
sottrarre diritti conquistati e chiudere la possibilità di conquistarne
altri. Non ci sono risorse, non c’è più spazio per tutti dopo anni
vissuti sopra le proprie possibilità. La meritocrazia diventa
contemporaneamente spiegazione razionale e legittimazione rispetto alle
difficoltà vissute da chi questa crisi non l’ha prodotta e ora si
ritrova a doverne pagare il prezzo più alto. Scuola, formazione di
qualità, diritti sul lavoro, welfare? Si tratta di premi da elargire
solo a chi è capace, a chi ha dimostrato di meritarselo.
Chi rimane fuori evidentemente non ha fatto abbastanza, poteva
pensarci prima e prepararsi al’immenso concorso che stabilisce chi è
degno di salvarsi e chi no. Con alcune piccole eccezioni. Le banche
meritano sempre il salvataggio, così come i “capitalisti per procura”,
quelli dai benefit a molti zeri che fanno girare (e scomparire) i soldi
degli altri.
Forse sarebbe il caso, davanti al prossimo che ci illustrerà i
vantaggi nell’applicare l’infallibile meccanismo meritocratico dentro le
nostre università e nelle scuole, nei posti di lavoro o nelle città che
diventano uno sterminato spazio aperto alle speculazioni e al cemento,
di sorridere e rispondere serenamente che se non fosse già abbastanza
chiaro, non c’è proprio niente da meritare!
(Fonte)
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