lunedì 29 aprile 2013

Chi brinda per Angelino

Quando Alfano era ministro della Giustizia, gli strumenti più efficaci nella lotta alle cosche sono stati smantellati. Adesso che è al Viminale, puó fare molto di più


 
Il nuovo ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ha puntato molto per ottenere il comando del Viminale. Un ruolo strategico, in particolare in questo momento difficile del Paese, che fino adesso Annamaria Cancellieri ha saputo portar avanti con grande abilità.

Alfano dal canto suo porta in dote alcuni suoi contatti siciliani, quando frequentava con più assiduità Palermo. E qualcuno ricorda quando decise di seguire le orme di Silvio Berlusconi, non solo quelle politiche, ma anche quelle estetiche. Angelino Alfano nello stesso periodo in cui il Cavaliere si fece il trapianto dei capelli, lo volle seguire in questa scelta. E la persona alla quale Alfano si rivolse per chiedere consiglio di un fatto così privato e personale fu, fra le tante, proprio Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo. E in quel periodo Ciancimino jr non aveva ancora deciso di avviare quella intrigata e contorta collaborazione con la giustizia. Era ancora il figlio del mafioso e faceva la bella vita con i soldi sporchi del papà. E Alfano con lui si confidò per ottenere in cambio l'indirizzo di un professore di chirurgia estetica con ambulatorio a Roma. Il trapianto, come dimostrano le foto del ministro, non andò bene, perchè come rivelò lo stesso medico che eseguì l'intervento, Alfano avrebbe dovuto effettuare tre sedute nel suo ambulatorio, ma ne fece solo una e dunque non ebbe il successo sperato della ricrescita dei capelli.

Oggi Enrico Letta ha nominato Alfano suo vice presidente del consiglio e responsabile del Viminale. L'agrigentino delfino di Berlusconi è stato anche ministro della Giustizia e in tanti ricordano come un pezzo alla volta gli strumenti più efficaci nella lotta alle cosche siano state smantellate durante la sua attività di Guardasigilli.

Il nuovo Codice antimafia, voluto dall'allora ministro della Giustizia Alfano, ha reso di fatto impossibile l'attacco alle ricchezze dei clan. Le richieste di sequestro di grandi aziende colluse con le mafie da Milano a Trapani sono rimaste ferme per mesi nelle cancellerie dei tribunali. Perché i giudici temevano che il loro intervento si sarebbe trasformato nella sconfitta dello Stato: le nuove regole infatti rischiavano di provocare il licenziamento dei dipendenti in caso di sequestro. E quindi rendendo l'azione dei magistrati non un trionfo della legalità a danno delle cosche, ma una condanna per aziende e lavoratori che così sarebbero finiti per rimpiangere i padrini. L'unica alternativa che sembrava emergere era quella di riconsegnare tutto ai mafiosi, sancendo l'impotenza delle istituzioni.

Il nuovo Codice antimafia è entrato in vigore a ottobre 2011 con decreto legislativo del Consiglio dei ministri. Il governo di allora non prese in considerazione le osservazioni critiche (addirittura 66) formulate dalla commissione Giustizia, che comunque non aveva parere vincolante. Il provvedimento paralizzò l'attività dei sequestri, ossia il cardine di quella strategia ispirata da Pio La Torre, il parlamentare del Pci ucciso a Palermo trent'anni fa, e perseguita da Giovanni Falcone.

Le regole sono state poi cambiate con un decreto legislativo fatto approvare in fretta e furia dall'allora Guardasigilli Alfano, che introduceva una serie di vincoli normativi che - applicati nella crisi della giustizia italiana - di fatto si stavano trasformando in un regalo per le cosche. Ad esempio, obbliga i giudici a confiscare i beni entro due anni e mezzo dall'avvio del procedimento, e nel caso in cui il termine venga superato prevede che si debba restituire il bene al mafioso, impedendone per sempre la confisca.

Principi garantisti, che si scontrano con la situazione attuale: un procedimento di confisca oggi dura dieci anni. Ma i tribunali non sono stati messi in condizione di accelerare i tempi: basta pensare che per alcuni sequestri di grossa rilevanza la perizia effettuata dall'amministratore giudiziario sui beni dura non meno di due anni. Per questo il Codice Alfano rischia di diventare uno strumento prezioso per i prestanome dei padrini, gestori di un patrimonio sempre più grande. Le nuove regole hanno costretto i magistrati a una scelta drammatica: restituire i beni che non si è riusciti a confiscare nei 30 mesi previsti, oppure mettere in liquidazione le grandi aziende, chiudendole e licenziando gli impiegati. In pratica, lo Stato metterebbe i lavoratori sulla strada, spingendoli a sostenere i boss come quando trent'anni fa a Palermo gli operai disoccupati sfilavano con i cartelli inneggianti a Cosa nostra: «Con la mafia si lavora, senza no».

I problemi del nuovo Codice antimafia sono stati evidenziati subito, in particolare dai magistrati. Mentre Alfano si dichiarava «orgoglioso e commosso per il risultato», sbandierando insieme a tutto il Pdl il valore di questo strumento contro la criminalità, opposizioni ed esperti avevano lanciato l'allarme.

L'allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, il procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, quello di Lanciano, Francesco Menditto avevano fatto presente i rischi. E anche associazioni come Libera di don Luigi Ciotti, in prima fila nella gestione dei beni confiscati, si sono espresse con chiarezza. E i timori sono diventati realtà: lo strumento principale che doveva attaccare i patrimoni della criminalità organizzata è ingolfato da norme sbagliate e contraddittorie.

Ma dietro questa sconfitta c'è un modo di combattere la mafia che ha caratterizzato l'intero governo Berlusconi, di cui era Guardasigilli Alfano, con la ricerca di spot mediatici, spesso privi di efficacia e concentrati su una visione antica della mafia, fatta di droga, armi e racket. Mentre oggi le cosche si sono evolute, diventando soprattutto imprenditori. L'eredità di questi spot adesso rischia di vanificare anni di successi contro i boss.

Per questo gruppi di magistrati hanno sollecitato la modifica del Codice antimafia, per ottenere "un procedimento finalizzato, nel rispetto delle garanzie, al sequestro e alla confisca dei beni, non alla liquidazione dei diritti, dei creditori (che può avvenire in altre sedi, senza vendere i beni e senza ritardare la loro destinazione a fini sociali)".

Accanto a questi slogan mediatici contro la mafia, che di fatto ci sarebbe stato poco, di fatto, nel contrasto alal criminalità organizzata in particolare quella che fa affari con la politica, occorre ricordare il fallimento del piano carceri, voluto proprio da Alfano, in cui vennero finanziati centinaia di milioni di euro per realizzare istituti di pena in aree in cui non ve ne era bisogno e incaricando decine di consulenti, pagati bene, fra cui amici di Alfano, per studiare le carte.

Il piano carceri con l'arrivo del governo Monti è stato ridimensionato e rivisto e avviato sulla giusta strada evitando sprechi e consulenze.
(Fonte)
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