Quando Alfano era ministro della Giustizia, gli strumenti più efficaci
nella lotta alle cosche sono stati smantellati. Adesso che è al
Viminale, puó fare molto di più
Il nuovo ministro dell'Interno, Angelino Alfano,
ha puntato molto per ottenere il comando del Viminale. Un ruolo
strategico, in particolare in questo momento difficile del Paese, che
fino adesso Annamaria Cancellieri ha saputo portar avanti con grande abilità.
Alfano
dal canto suo porta in dote alcuni suoi contatti siciliani, quando
frequentava con più assiduità Palermo. E qualcuno ricorda quando decise
di seguire le orme di Silvio Berlusconi, non solo quelle politiche, ma
anche quelle estetiche. Angelino Alfano nello stesso periodo in cui il
Cavaliere si fece il trapianto dei capelli, lo volle seguire in questa
scelta. E la persona alla quale Alfano si rivolse per chiedere consiglio
di un fatto così privato e personale fu, fra le tante, proprio Massimo
Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo. E in quel periodo
Ciancimino jr non aveva ancora deciso di avviare quella intrigata e
contorta collaborazione con la giustizia. Era ancora il figlio del
mafioso e faceva la bella vita con i soldi sporchi del papà. E Alfano
con lui si confidò per ottenere in cambio l'indirizzo di un professore
di chirurgia estetica con ambulatorio a Roma. Il trapianto, come
dimostrano le foto del ministro, non andò bene, perchè come rivelò lo
stesso medico che eseguì l'intervento, Alfano avrebbe dovuto effettuare
tre sedute nel suo ambulatorio, ma ne fece solo una e dunque non ebbe il
successo sperato della ricrescita dei capelli.
Oggi
Enrico Letta ha nominato Alfano suo vice presidente del consiglio e
responsabile del Viminale. L'agrigentino delfino di Berlusconi è stato
anche ministro della Giustizia e in tanti ricordano come un pezzo alla
volta gli strumenti più efficaci nella lotta alle cosche siano state
smantellate durante la sua attività di Guardasigilli.
Il
nuovo Codice antimafia, voluto dall'allora ministro della Giustizia
Alfano, ha reso di fatto impossibile l'attacco alle ricchezze dei clan.
Le richieste di sequestro di grandi aziende colluse con le mafie da
Milano a Trapani sono rimaste ferme per mesi nelle cancellerie dei
tribunali. Perché i giudici temevano che il loro intervento si sarebbe
trasformato nella sconfitta dello Stato: le nuove regole infatti
rischiavano di provocare il licenziamento dei dipendenti in caso di
sequestro. E quindi rendendo l'azione dei magistrati non un trionfo
della legalità a danno delle cosche, ma una condanna per aziende e
lavoratori che così sarebbero finiti per rimpiangere i padrini. L'unica
alternativa che sembrava emergere era quella di riconsegnare tutto ai
mafiosi, sancendo l'impotenza delle istituzioni.
Il
nuovo Codice antimafia è entrato in vigore a ottobre 2011 con decreto
legislativo del Consiglio dei ministri. Il governo di allora non prese
in considerazione le osservazioni critiche (addirittura 66) formulate
dalla commissione Giustizia, che comunque non aveva parere vincolante.
Il provvedimento paralizzò l'attività dei sequestri, ossia il cardine di
quella strategia ispirata da Pio La Torre, il parlamentare del Pci
ucciso a Palermo trent'anni fa, e perseguita da Giovanni Falcone.
Le
regole sono state poi cambiate con un decreto legislativo fatto
approvare in fretta e furia dall'allora Guardasigilli Alfano, che
introduceva una serie di vincoli normativi che - applicati nella crisi
della giustizia italiana - di fatto si stavano trasformando in un regalo
per le cosche. Ad esempio, obbliga i giudici a confiscare i beni entro
due anni e mezzo dall'avvio del procedimento, e nel caso in cui il
termine venga superato prevede che si debba restituire il bene al
mafioso, impedendone per sempre la confisca.
Principi
garantisti, che si scontrano con la situazione attuale: un procedimento
di confisca oggi dura dieci anni. Ma i tribunali non sono stati messi
in condizione di accelerare i tempi: basta pensare che per alcuni
sequestri di grossa rilevanza la perizia effettuata dall'amministratore
giudiziario sui beni dura non meno di due anni. Per questo il Codice
Alfano rischia di diventare uno strumento prezioso per i prestanome dei
padrini, gestori di un patrimonio sempre più grande. Le nuove regole
hanno costretto i magistrati a una scelta drammatica: restituire i beni
che non si è riusciti a confiscare nei 30 mesi previsti, oppure mettere
in liquidazione le grandi aziende, chiudendole e licenziando gli
impiegati. In pratica, lo Stato metterebbe i lavoratori sulla strada,
spingendoli a sostenere i boss come quando trent'anni fa a Palermo gli
operai disoccupati sfilavano con i cartelli inneggianti a Cosa nostra:
«Con la mafia si lavora, senza no».
I
problemi del nuovo Codice antimafia sono stati evidenziati subito, in
particolare dai magistrati. Mentre Alfano si dichiarava «orgoglioso e
commosso per il risultato», sbandierando insieme a tutto il Pdl il
valore di questo strumento contro la criminalità, opposizioni ed esperti
avevano lanciato l'allarme.
L'allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso,
il procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, quello di Lanciano,
Francesco Menditto avevano fatto presente i rischi. E anche associazioni
come Libera di don Luigi Ciotti, in prima fila nella gestione dei beni
confiscati, si sono espresse con chiarezza. E i timori sono diventati
realtà: lo strumento principale che doveva attaccare i patrimoni della
criminalità organizzata è ingolfato da norme sbagliate e
contraddittorie.
Ma
dietro questa sconfitta c'è un modo di combattere la mafia che ha
caratterizzato l'intero governo Berlusconi, di cui era Guardasigilli
Alfano, con la ricerca di spot mediatici, spesso privi di efficacia e
concentrati su una visione antica della mafia, fatta di droga, armi e
racket. Mentre oggi le cosche si sono evolute, diventando soprattutto
imprenditori. L'eredità di questi spot adesso rischia di vanificare anni
di successi contro i boss.
Per
questo gruppi di magistrati hanno sollecitato la modifica del Codice
antimafia, per ottenere "un procedimento finalizzato, nel rispetto delle
garanzie, al sequestro e alla confisca dei beni, non alla liquidazione
dei diritti, dei creditori (che può avvenire in altre sedi, senza
vendere i beni e senza ritardare la loro destinazione a fini sociali)".
Accanto
a questi slogan mediatici contro la mafia, che di fatto ci sarebbe
stato poco, di fatto, nel contrasto alal criminalità organizzata in
particolare quella che fa affari con la politica, occorre ricordare il
fallimento del piano carceri, voluto proprio da Alfano, in cui vennero
finanziati centinaia di milioni di euro per realizzare istituti di pena
in aree in cui non ve ne era bisogno e incaricando decine di consulenti,
pagati bene, fra cui amici di Alfano, per studiare le carte.
Il
piano carceri con l'arrivo del governo Monti è stato ridimensionato e
rivisto e avviato sulla giusta strada evitando sprechi e consulenze.
(Fonte)
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