In Italia la selezione della classe dirigente non è su base intellettuale ma solo di appartenenza
Statica, vecchia, autoreferenziale, composta principalmente da uomini. È questo il leit motiv che emerge ogni volta che si osservano le
principali caratteristiche della nostra classe dirigente. In Italia, a
guidare imprese pubbliche e private, banche, sindacati e istituzioni
politiche sono soprattutto gli over 50 di sesso maschile. Per non
parlare poi dell’università, tenace roccaforte dell’italica
gerontocrazia, dove il ricambio generazionale è pressoché impensabile.
Più che altrove, nel nostro paese si arriva tardi
a ricoprire ruoli chiave nell’economia, nella politica,
nell’istruzione, sia rispetto alle medie europee e statunitensi, sia in
confronto alle aree cosiddette emergenti, come India e Cina. La classe
dirigente nostrana ha una età media di 59 anni, la più alta fra i paesi
dell’Unione Europea. E il sistema di selezione rischia il collasso,
soprattutto per i tagli inflitti nel nostro paese all’istruzione
superiore in questi ultimi anni, che hanno amplificato le differenze con
le università europee.
Un discorso a parte riguarda il rapporto fra classi dirigenti nelle
articolazioni di governo centrale, regionale e locale e decisionalità
politica, cioè la loro capacità di misurarsi con la sfida posta dal global change.
Staticità, scarsa propensione al rischio, corruzione degli apparati
sembrano infatti essere fenomeni non riconducibili esclusivamente
all’anzianità, alle disparità di genere o alla mancanza di una
formazione specifica.
Perché al confronto con altre realtà europee non
abbiamo una classe dirigente adeguata? Perché, in una fase di imponente
crisi economica, il merito e le competenze, che dovrebbero essere il
criterio principe che presiede alla formazione della classe dirigente,
sono relegati al ruolo di fattori marginali? Se adottiamo una
definizione di classe dirigente circoscritta a organi di governo,
dirigenti della pubblica amministrazione, imprenditori, direttori di
grandi aziende private, riscontriamo che nel nostro paese chi detiene
posizioni di potere sia in ambito economico sia politico viene
selezionato principalmente in base ai tre criteri di anzianità,
istruzione e genere, che privilegiano smisuratamente credenziali
formative cristallizzate da tempo, a scapito di una valutazione
credibile delle capacità individuali.
Sono meccanismi di selezione che premiano
l’esistenza di relazioni interpersonali piuttosto che il riconoscimento
oggettivo dei meriti individuali. Il collaudato istituto della «raccomandazione»,
in altre parole. Ma se nel contesto estero esso assume la veste di
conferma di segnali oggettivi, in Italia si trasforma in un marchio di
appartenenza a una rete relazionale autoreferenziale, cui appartiene sia
il raccomandante sia il raccomandato.
In questo sistema, la risorsa più importante consiste nell’appartenenza
a una cordata relazionale, sia essa una dinastia, una organizzazione o
un partito. La mancanza di specifici centri di formazione, insieme al
venir meno del ruolo formativo storicamente svolto dai partiti di massa,
ha contribuito al declino della classe dirigente italiana, sempre più
focalizzata su istanze particolaristiche, e sempre meno rivolta al
perseguimento dell’interesse generale e alla visione complessiva del
benessere della società.
Già, il benessere della società, cioè il principale punto di riferimento
quando si analizzano i criteri di formazione e selezione delle classi
dirigenti. Un elemento cruciale per favorire processi di crescita
economica è che la selezione delle élite ne garantisca infatti
l’elevata qualità. Ma a questo modello di selezione delle classi
dirigenti fa riscontro un sistema formativo superiore che da noi non ha
caratteristiche selettive, e non è quindi in grado di segnalare le
capacità individuali. L’Italia si caratterizza infatti per l’assenza di
serbatoi di formazione delle élites quali per esempio le grande école in
Francia oppure i centri di formazione del gentleman inglese sul modello
«Oxbridge» per il Regno Unito.
È noto che i processi di selezione delle classi dirigenti
delle società contemporanee sono molto diversificati: esistono sistemi
di cooptazione, di elezione, di concorso pubblico, per merito, per
competenza. A livello europeo, le classi dirigenti hanno dunque forme di
costruzione, affermazione e selezione tra loro diversissime. E la loro
molteplicità assicura anche che si operi un positivo controllo
reciproco.
Ma – questo è un dato incontrovertibile – in Italia,
la selezione della classe dirigente avviene principalmente attraverso
meccanismi di cooptazione o relazionali piuttosto che tramite meccanismi
di mercato basati sul merito. In altre parole, non è garantito un
sistema in cui le persone capaci sono scelte e promosse in base ai
risultati da loro conseguiti. È evidente che l’accesso alla classe
dirigente non può definirsi solo sulla base delle caratteristiche innate
dell’individuo, ma una maggiore mobilità sociale e criteri di selezione
più oggettivi costituirebbero sicuramente una marcia in più nel momento
economicamente più difficile per l’Italia dal dopoguerra.
Un’altra caratteristica delle classi dirigenti domestiche è il basso livello di istruzione in confronto con gli altri paesi: in Italia solo il 31% delle élite
è laureato, contro il 51% degli inglesi, il 58% dei francesi e il 65%
dei tedeschi. Questo può in parte essere collegato al più basso livello
di scolarizzazione degli italiani, specialmente in riferimento alle
generazioni più anziane. Ma sicuramente è anche dovuto alla minor
richiesta di credenziali educative per l’accesso a molte professioni,
incluse quelle apicali.
In tre Paesi comparabili al nostro (Regno Unito, Francia e Germania) le
leadership sono selezionate in base a criteri intellettuali. Nel Regno
Unito le università, in quanto enti privati autogovernati, hanno libertà
di ammissione, mentre per quelle più prestigiose come Oxford e
Cambridge i requisiti di ammissione sono più elevati. Esiste poi
un’agenzia nazionale per la valutazione della qualità delle istituzioni
formative, la « Quality Assurance Agency for higher education», che rende pubblico un giudizio di affidabilità o meno della formazione impartita.
In Francia, a differenza del Regno Unito, non esiste un sistema
di valutazione esterna delle istituzioni universitarie, le quali sono
tuttavia incoraggiate a sviluppare procedure di autovalutazione interna.
Solo gli studenti che provengono dal lycée général o dal lycée technologique hanno accesso al sistema universitario, distinto in université e grande école. Un aspetto particolarmente significativo: gli studenti ammessi a queste istituzioni d’élite
sono classificati già durante la loro formazione come funzionari
pubblici in addestramento. Entrambi i percorsi presentano elevati
requisiti di ammissione, nel caso delle grande école esistono anche corsi di 2-3 anni per la preparazione agli esami di ammissione.
In Germania, la ricerca scientifica è considerata un investimento
sul futuro: tra risorse private e pubbliche, al settore sono destinati
fondi pari al 2,5% del Prodotto nazionale lordo. In Italia si attestano
attorno a un misero uno per cento, contro una media europea dell’1,8%.
Particolarmente in evidenza il dato relativo alle specializzazioni
post-laurea, le cosiddette «Promotionen», equivalenti ai nostri
dottorati di ricerca, in crescita nonostante lo scandalo che nel 2011 ha
segnato la carriera politica del ministro della difesa CSU Karl-Theodor
zu Guttenberg. Ogni anno in Germania circa 25.000 studenti discutono
con successo la loro «Dissertation», la tesi di dottorato che segna
l’ingresso ufficiale nel mondo della ricerca o delle professioni
apicali. Un dato che equivale a un terzo del totale degli studenti
iscritti e colloca il paese ai primi posti a livello mondiale.
In Italia, come è noto, l’ammissione all’università non è selettiva.
Il sistema formativo italiano garantisce una maggiore libertà di scelta
a livello di indirizzo secondario e l’ammissione all’università è
condizionata esclusivamente all’avere conseguito un diploma di maturità
quinquennale. Nel panorama dell’università italiana spiccano tuttavia
centri di formazione di «eccellenza» come la Scuola normale superiore di
Pisa, che prevede una rigida selezione iniziale tramite concorso degli
studenti ammessi a ciascuna delle due classi di studio, la classe di
Scienze e quella di Lettere e filosofia. Ma in linea più generale siamo
ancora lontani dagli standard europei per quanto riguarda parametri più
incisivi, come il numero di ricercatori sulla popolazione lavorativa, il
numero di pubblicazioni scientifiche per ricercatore, il numero di
brevetti registrati, il numero di nuove imprese di successo nei settori
high-tech, le famose start-up.
È evidente che la formazione del capitale umano di qualità
implica l’esistenza di una scuola pubblica di straordinaria qualità. E
qui ancora una volta a frenare sono le scarse risorse disponibili e
l’elevata età dei professori universitari che hanno in media 63 anni, i
più anziani del mondo industrializzato. Per sbloccare la rigidità
dell’università italiana è quindi necessario innanzitutto ridurre il
divario che separa l’Italia da altri paesi dell’Unione europea sotto il
profilo degli «investimenti in conoscenza» in termini di spesa in
ricerca e sviluppo sul Pil.
In altri termini, per produrre leader giovani e competenti
e garantire un maggior ricambio all’interno della sua classe dirigente,
l’Italia dovrebbe modificare il suo modello sociale, indirizzandolo
verso quello di quei paesi europei dove la liberalizzazione delle
dinamiche di mercato va di pari passo con una politica di più forti
interventi statali mirati alle persone. Dovrebbe cioè investire
maggiormente in ricerca, tecnologia e risorse umane, offrendo maggiori
opportunità ai suoi giovani talenti. E soprattutto dovrebbe affermare il
merito, anziché le appartenenze.
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