Due sono ormai le parole ricorrenti nella politica istituzionale. In
nome loro, vengono decise politiche draconiane di austerità, che invece
di risolvere, non fanno altro che confermare una condizione di
illibertà. Si tratta di «precarietà» e «disuguaglianza», termini che
dovrebbero orientare il pensiero critico nella traversata del deserto
neoliberista ma che invece sono entrati a far parte del lessico di
intellettuali, economisti preoccupati di dimostrare che le
disuguaglianze e la precarietà sono una anomalia, una parentesi di una
società che tende, grazie al buon funzionamento del mercato,
all’uguaglianza. Convinzione smentita dai dati europei sul crescente
divario di reddito esistente nelle società, uniti a quelli
sull’altrettanto crescente esercito del lavoro «atipico» e sulla
disoccupazione che ha superato la boa del dieci per cento (in Italia, le
cifre sui disoccupati oscillano tra i 3 milioni e i 3,5 milioni di
senza lavoro, mentre quelle sui precari sono oltre i 4 milioni).
Le eccezioni non mancano e vedono protagonisti piccoli gruppi
intellettuali o movimenti sociali. Preziosa nello svelare il carattere
immanente delle disuguaglianze nel capitalismo è, ad esempio, l’analisi
che da anni conduce il filosofo francese Etienne Balibar, di cui vanno
segnalati, oltre il recente Cittadinanza (Bollati Boringhieri), i volumi La proposition de l’égaliberté e Citoyen Sujet,
entrambi pubblicati dalla casa editrice Puf. Questo nulla toglie al
fatto che, tanto la precarietà che la disuguaglianza, sono tornate a
infoltire di titoli una pubblicistica impegnata nel riproporre, in forma
innovata, dispositivi keynesiani che hanno garantito al capitalismo
oltre trent’anni di sviluppo. Tra quest’ultimi vanno ricordati il Nobel
per l’economia Joseph Stiglitz, il tedesco Ulrich Beck, l’inglese
Anthony Giddens, il polacco Zygmunt Bauman, lo statunitense Richard
Sennett, cioè i «senza partito» ritenuti le punte di diamante del
pensiero democratico. Tra queste due posizioni, occorre affiancarne
un’altra, che sviluppi una critica alle politiche di austerità,
considerando i «senza partito» democratici interlocutori, senza
rinunciare all’obiettivo di una sintesi tra eguaglianza e libertà,
all’interno di una superamento del lavoro salariato, di cui la
precarietà è solo l’ultima manifestazione, in ordine di tempo.
La costante neoliberista
Rilevante a questo fine è prendere atto che, sia nello spazio
nazionale che in quello europeo, la condizione precaria e le
disuguaglianze sono oggetto di politiche sociali che tendono a contenere
gli effetti destabilizzanti all’interno del modello di accumulazione
capitalistica neoliberista. Come ha argomentato Maurizio Lazzarato nella
raccolta di scritti da poco pubblicata dalla casa editrice ombre corte,
Il governo delle disuguaglianze è da considerare una costante del
neoliberismo, sgomberando così il campo della retorica dello stato
minimo che ha accompagnato il lungo inverno della controrivoluzione
neoliberale. Lo stato, argomenta in maniera convincente l’autore, è lo
strumento per assicurare la gestione e la legittimità delle
disuguaglianze, ma anche per plasmare un «uomo nuovo», quell’individuo
proprietario che doveva diventare il perno su cui far ruotare l’insieme
delle relazioni sociali e attorno al quale costruire un nuovo progetto
di società dove l’insieme delle tutele sociali e i diritti sociali della
cittadinanza siano merce da acquistare sul mercato della protezione
sociale. Che questo sia lo scenario che ha caratterizzato il
neoliberismo non ci sono molti dubbi. Soltanto che dal 2008 il dominante
governo delle disuguaglianze è entrato in crisi.
Il capitalismo ha visto non solo crescere la povertà, ma anche una
diffusa indisponibilità di uomini e donne a fare proprio l’incubo
dell’individuo proprietario. Indisponibilità che si è tradotta nelle
forme ambivalenti del populismo, nell’esplosione di rivolte sociali che
hanno attraversato gli Stati Uniti e l’Europa. E nella crescita, in
alcuni paesi del vecchio continente, come l’Italia, la Spagna e la
Grecia, dell’astensionismo elettorale. Ed è proprio in Europa e negli
Stati Uniti che l’attenzione e la denuncia della precarietà e delle
disuguaglianze è più forte. Anche in questo caso, le posizioni che si
contendono l’arena pubblica si concentrano sulle politiche adeguate per
affrontare una «questione sociale» che viene spesso paragonata a quella
di fine Ottocento o a quella successiva alla «grande crisi» del ’29. E
se la troika europea subordina l’accesso ai diritti sociali di
cittadinanza all’accettazione della precarietà, negli Stati Uniti le
disuguaglianze sono l’esito di una economia di mercato andata fuori
controllo.
Nel suo ultimo libro – Il prezzo delle disuguaglianza,
Einaudi, pp. 473, euro 23 – Joseph Stiglitz denuncia la crescita del
reddito dei dirigenti di impresa e quello del lavoro dipendente. Il
panorama sociale al di là dell’Atlantico vede una minoranza di super
ricchi e una numeroso esercito costituito da ceto medio impoverito e
working poor. Per il premio Nobel per l’economia, se continuano così,
gli Stati uniti non solo sono destinati a un lento declino economico, ma
vedranno lo sbriciolamento delle sue stesse fondamenta democratiche. Da
qui, la sua valorizzazione di Occupy Wall Street, cioè un movimento che
ha come collante proprio la denuncia della polarità esistente tra il 99
per cento della popolazione impoverita e il restante un per cento. La
via d’uscita proposta è il ritorno a politiche redistributive del
reddito, a un limitato intervento dello Stato in economia per lo
sviluppo delle infrastrutture necessarie a rendere competitive imprese
sempre più globali, investimenti nella formazione e politiche volte a
garantire una diffusa assistenza sanitaria.
Al di qua dell’Atlantico, gli fa idealmente eco il pamphlet di
Zygmunt Bauman che denuncia la falsità della retorica dominante seconda
la quale La ricchezza di pochi avvantaggia tutti (Laterza, pp.
100, euro 9). Anche in questo caso, il dito è puntato contro il
crescente divario di reddito che caratterizza le società europee e
statunitensi. A differenza di quella svolta da Stiglitz, ci troviamo
però di fronte a un’analisi che lega disuguaglianze e precarietà, dove
il secondo termine indica l’esito di quel dissolvimento delle
istituzioni della modernità che Barman ha più volte posto come esito
dell’avvento della società liquida.
Cacciatori di innovazione
Quello che però né Stiglitz né Bauman affrontano è il venir meno del
nesso tra cittadinanza e lavoro. Nella condizione precaria, infatti,
l’accesso ai diritti di cittadinanza garantiti dallo stato nazionale è
interdetto, mentre il regime di accumulazione ha necessità di attivare
un ciclo continuo di innovazione, sempre più delegato al lavoro vivo. La
precarietà, dunque, va considerata come la condizione propedeutica
affinché le imprese possano attingere a un bacino di expertise in un
mercato del lavoro che non prevede più la stabilità nel rapporto
professionale. È dunque un dispositivo che consente la «cattura» della
capacità innovativa del lavoro vivo.
In una importante analisi delle tesi di Bauman e Sennett, la filosofa italiana Ilaria Possenti ne delinea, nel volume Flessibilità
(ombre corte, pp. 195, euro 18), alcuni dei tratti distintivi.
Adattabilità a cambiamenti repentini del processo lavorativo, gestione
individuale del rischio, sviluppo e cura delle rete sociali che
consentono di poter gestire l’intermittenza della presenza nel mercato
del lavoro. Se per i neoliberisti, tutto ciò significa diventare
«imprenditori di se stessi», per Ilaria Possenti queste sono le
caratteristiche del «precario», figura lavorativa che sembra calzare a
pennello per le giovani generazioni, ma che Sennett considera
prerogative dell’antica figura dell’artigiano ritornata in auge nel
capitalismo contemporaneo.
Nei suoi ultimi scritti - L’uomo artigiano e Insieme,
entrambi pubblicati da Feltrinelli – Richard Sennett afferma che stiamo
assistendo alla rivincita del lavoro concreto sul lavoro astratto, che
dovrebbe consentire di far tornare a un livello socialmente accettabile
le diseguaglianze. Ciò che non convince dell’analisi di Sennett non è
solo la sua apologia del lavoro artigiano, ma la rimozione del fatto che
sono proprio quelle caratteristiche che egli assegna al lavoro concreto
ad entrare in campo nei processi di valorizzazione capitalistica. Più
la precarietà diviene norma generale, più il processo di espropriazione
della capacità innovativa del lavoro vivo è quindi garantito. La
precarietà è cioè il dispositivo che regola i rapporti tra capitale e
lavoro vivo.
Le linee del colore, la differenziazione generazionale, la
contrapposizione tra permanenti e temporanei sono dunque da considerare
forme di governance del mercato del lavoro, scandito appunto dalla
precarietà. In altri termini, le differenziazioni generazionali, di
razza e sessuali sono parte integrante di quel governo delle
disuguaglianze che, anche se in crisi, è lo sfondo entro cui collocare
il tema della precarietà.
La missione impossibile
Tutto ciò può servire a quell’attraversata del deserto che il
pensiero critico sta compiendo. Va detto che molte altre sono le
acquisizioni che ha tratto dal neoliberismo, meglio dal capitalismo
contemporaneo. Tra queste, l’impossibilità di un ritorno alle norme che
regolavano il rapporto tra capitale e lavoro nel passato. La precarietà
non è infatti un incidente di percorso, ma il presente e il futuro del
lavoro vivo. L’altro aspetto che è stato reso evidente dai movimenti
sociali di questi anni è l’indisponibilità a funzionare come oggetto
passivo. Ci sono stati processi di organizzazione del precariato, mentre
il tema del reddito di cittadinanza è entrato a far parte del lessico
politico tanto in ambito nazionale che sovranazionale. Il rischio che si
corre è che precarietà e reddito siano ridotti a significanti vuoti da
riempire secondo i vincoli dettati, appunto, dal «governo delle
disuguaglianze».
In ambito europeo, ad esempio, precarietà e continuità di reddito
sono temi affrontati all’interno di politiche di workfare: si accede al
reddito solo se si è disponibili a svolgere un lavoro qualunque esso
sia. La precarietà è qui declinata secondo le politiche di austerità
imposte dalla troika ai paesi dell’Unione europea. In ambito nazionale,
il reddito di cittadinanza è relegato da forze ritenute antisistema – il
movimento cinque stelle – nell’ambito di un misero sussidio di
disoccupazione al quale gli «intermittenti» del mercato del lavoro hanno
diritto, additando i dipendenti del settore pubblico come dei
«privilegiati».
La posta in gioco, tuttavia, è di prospettare il reddito di
cittadinanza come un flessibile strumento per quella mission impossible
che è la sintesi tra eguaglianza e libertà, all’interno di un
superamento del regime fondato sul lavoro salariato.
(Fonte)
Nessun commento:
Posta un commento