La notizia è passata in sordina, ma i
promotori del Fiscal compact sono stati gli unici ad aver respinto
l’approvazione delle misure orientate al rigore. La Merkel ora dovrebbe
guardare in casa propria.
IL GRAN RIFIUTO - Ad inizio marzo, nel silenzio generale, il Bundesrat tedesco (molto simile al nostro Senato) ha rimandato alla Commissione di mediazione il Fiscal compact
proposto dal governo Merkel, bocciato grazie al voto contrario della
coalizione rosso-verde composta da SPD e Verdi. La notizia ha
dell’incredibile, ma, contrariamente alle aspettative non ha ricevuto
alcuna eco mediatica. Ora la Commissione di mediazione sarà tenuta a far
convergere gli obiettivi di lungo periodo delle due camere per
raggiungere un compromesso ed adeguarsi alle direttive europee.
Immediatamente dopo la votazione i Länder (Stati-regioni tedeschi) hanno
dato vita ad una vera e propria offensiva contro il governo
dell’austerity richiedendo l’introduzione di un salario minimo di 8,50
euro l’ora e l’apertura di un fondo che raccolga 3,5 euro l’anno
destinato ad essi, in opposizione all’ Hartz IV.
Fino a alle prossime elezioni dunque la Germania non entrerà nel Fiscal
compact, a differenza dell’Italia, che senza fiatare ha approvato
l’imposizione della cancelleria europea. Ora più che mai la posizione di Angela Merkel
si complica, stretta da un lato dall’Unione Europea, e dall’altro da
un’opposizione politico sociale crescente e che rischia di condannarla
ad una sonora debacle politica.
IL FISCAL COMPACT - Viene da ridere al pensiero che il Fiscal compact (nome informale dato al Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria) sia
stato sostenuto a lungo dai paesi più virtuosi d’Europa, ed in primis
dalla Germania, come “contropartita tecnica” per accedere ad un altro
trattato, lo European Stability Mechanism (Esm), meglio noto come Fondo Salva Stati. L’accordo fiscale entrato in vigore il 1° gennaio 2013 ha come scopo la stabilità dell’euro, ma cosa prevede nel dettaglio?
L’articolo 3.1 costituisce il cuore della riforma e afferma che «il
bilancio delle amministrazioni pubbliche deve essere in equilibrio o in
avanzo; questa regola si considera soddisfatta se il deficit
strutturale annuale delle amministrazioni pubbliche risulta inferiore
allo 0,5% del Pil. I paesi devono garantire una convergenza rapida verso
questo obiettivo. I tempi di questa convergenza verranno definiti dalla
Commissione. I paesi non possono discostarsi da questi obiettivi o dal
loro percorso di aggiustamento se non in circostanze eccezionali. Un
meccanismo di correzione è avviato automaticamente se si individuano
forti divergenze; ciò comporta l’obbligo di adottare misure volte a
correggere queste deviazioni in un periodo determinato».
Prendiamo
in esame il caso italiano. Il nostro debito pubblico ammonta a circa
2.000 miliardi, ed il rapporto debito/Pil è parti al 126%. Per arrivare
al 60% imposto dal Fiscal Compact come dovremmo
comportarci? Per evitare di incorrere in sanzioni dall’Unione Europea,
sarebbe necessario, in linea teorica, ridurre il rapporto del 3% per i
prossimi vent’anni. Quantificando, si tratta di ridurre il debito di 50 miliardi all’anno,
una cifra poco ragionevole durante periodi di crescita, figuriamoci in
una fase di ampia recessione. Nell’ultimo decennio il “bel paese” è
stato peraltro il fanalino di coda europeo per quanto riguarda lo sviluppo economico
e la crescita del Pil. L’adesione al Fiscal compact ora ci vincola a
ridurre la spesa pubblica ed aumentare le entrate per risparmiare questi
benedetti 50 miliardi, e per farlo purtroppo non esiste altro mezzo se
non la tassazione. Nessuna novità in questo senso, Monti ha fatto la
sua parte obbedendo fedelmente al volere degli oligarchi europei e
piegandosi ai desideri della Merkel prima di lasciarci un’eredità
pesante. L’aumento della tassazione e la riduzione della spesa pubblica
oltre che delle misure destinate al welfare e alle politiche sociali,
stanno provocando un crollo della domanda e dei consumi che sta
spingendo letteralmente nel baratro in primis i lavoratori, e subito
dopo le imprese. Pensare di migliorare il destino di un’Europa marcia e
anarchica in tal senso è utopistico e assurdo, ma i nostri politici,
distratti dalle loro poltrone non se ne sono resi conto. Dunque che peso
ha in tutto questo scenario il gran rifiuto della Germania al patto
fiscale?
IL SACCO D’EUROPA - Una volta la Germania era considerata il “sick of Europe“,
una pedina di scarsa importanza nello scacchiere dell’Unione rispetto
ad altri paesi più piccoli ma che apparivano grandi come giganti. In un
decennio la situazione si è invertita e i nostri nemici calcistici si
sono trasformati in una potenza economica apparentemente virtuosa,
modello indiscusso di rigore ed efficienza economica.
Da allora, complice la crisi, italiani,
spagnoli, greci e portoghesi sono diventati gli ultimi della classe,
quelli ignorati dall’insegnante anche se alzano la mano. La Germania
invece ha ottenuto la cattedra per i suoi meriti ed ha potuto dire la
sua senza essere giudicata da nessuno, perché sedeva lei dietro la
cattedra. Così siamo stati costretti ad eseguire i compiti anche se
malvolentieri, abbiamo accettato un premier scelto a tavolino dalla Bce,
ratificato il fiscal compact,e ci siamo legati le mani almeno per i
prossimi vent’anni. Al contrario la Germania se ne è fregata dei dicktat europei
che lei stessa aveva proposto, ed ora si trova a poter applicare
politiche economiche che nessun altro paese tra quelli che hanno
ratificato il Fiscal compact potrà mai più attuare. Alla faccia nostra!
La notizia ha dell’incredibile, eppure
non ne ha parlato nessuno. I media, come i saloni di destra e di
sinistra sono probabilmente ancora troppo presi dai loro bisticci post
elettorali per poter dare il giusto peso a quello che un mese fa è
successo in Germania. Avevamo deciso di non parlarne nell’immediato per
poter trarre conclusioni migliori da quelle reazioni che ci saremmo
ovviamente aspettati. E invece nulla di tutto questo è avvenuto, perché
nessuno ha saputo. L’Europa continua a viaggiare a due velocità, ma il
senso di sfiducia tra i paesi dell’Unione è tangibile e rischia di
degenerare. Fino a che punto l’Europa riuscirà a viaggiare unita senza
perdersi nessun vagone?
(Fonte)
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