Se non suona troppo irriverente, l’immagine di Giorgio Napolitano che
esce a sorpresa dalla porta del suo studio per venire a stringere
felice le mani del neo-premier Enrico Letta mentre parla ai giornalisti a
me ha ricordato le scene finali del festival di Sanremo di qualche anno
fa, quando Pippo Baudo abbracciava la giovane promessa arrivata prima
sul podio davanti a telecamere e fotografi.
C’è in quell’immagine tutto il senso dello scampato pericolo, il più
grave che il Paese correva dal punto di vista di Napolitano: restare
ancora senza governo, a due mesi dalle elezioni, dopo aver sfiorato il
pericolo di una crisi istituzionale sull’elezione del Capo dello Stato
una settimana fa. Napolitano ce l’ha fatta, Enrico Letta anche, abbiamo
un governo, è già qualcosa.
Nel nuovo governo c’è qualche ottima new entry, su tutte Cecile
Kyenge, la novità più bella e emozionante che non a caso ha già
scatenato le reazioni furibonde della Lega. E poi Graziano Delrio, tra i
personaggi politici più interessanti spuntati dalle amministrazioni
locali negli ultimi anni. Emma Bonino, che finalmente approda a un
incarico di prestigio (gli Esteri) dopo tanto girovagare tra i social
network, e Fabrizio Saccomanni all’Economia, insieme ad Annamaria
Cancellieri alla Giustizia e Enrico Giovannini al Lavoro sono i nomi più
cari a Napolitano, compongono un’ideale quota Quirinale. E poi ci sono
tante seconde, terze, quarte file spedite sul fronte dai generali in
rotta.
Governo politico, l’ha definito Napolitano. A ragione: nei mesi
scorsi ci siamo divisi sulle formule, governo di scopo, governo di
minoranza, governo di servizio, governo della non sfiducia… Oggi nasce
invece un governo basato su una maggioranza politica, senza
infingimenti, senza mascherature tecniche. Il governo Pd-Pdl,
Letta-Alfano, con la benedizione (ingombrante) di Berlusconi. È la prima
volta che succede dal 13 maggio 1947, quando cadde il governo De
Gasperi tripartito Dc-Pci-Psi. Da allora in poi, per 66 anni, non era
mai successo che in un governo ci fossero i ministri di schieramenti che
alle elezioni si erano presentati come alternativi. I governi Andreotti
del 1976-79 potevano contare sull’astensione e poi sul voto favorevole
del Pci, ma mai i ministri democristiani si mescolarono con ministri
comunisti. Nel governo Ciampi, esattamente vent’anni fa, la convivenza
tra ministri dc e ministri di area Pds durò poco più di ventiquattro
ore: il voto segreto della Camera che salvò Craxi dalle autorizzazioni a
procedere richieste dalla Procura di Milano provocarono le dimissioni
dei ministri occhettiani (e dell’allora verde Francesco Rutelli).
Nella foto di gruppo, invece, oggi entrano ministri del Pd e ministri
del Pdl, partiti che si sono combattuti e hanno chiesto il voto perché
al governo non andassero gli altri. Ora ci saranno tutti e due, insieme
ai montiani di Scelta civica: un nuovo Tripartito. Operazione
spericolata, anche perché i contraenti del patto non arrivano alla pari
al momento della firma. Il Pd è un partito distrutto, acefalo, senza
leader, progetto politico, identità. Il Pdl, invece, festeggia: alla
Camera per dire i deputati del Pd sono 293, quelli del Pdl sono appena
97, eppure nel governo conteranno allo stesso modo, o quasi. Berlusconi
può ritenersi a buon titolo il vincitore della partita post-elettorale:
con le sue azioni compatte al tavolo del cda della politica ha designato
l’assetto di comando, mentre il Pd che aveva la maggioranza delle
azioni le ha disperse da solo.
Ecco perché, a leggere le reazioni, il governo appena nato sembra
guidato dal Pdl, mentre il Pd sembra sparito. Così non è: Enrico Letta è
uno dei fondatori del Partito democratico, un ulivista della prima ora,
a fianco di Beniamino Andreatta prima e di Romano Prodi poi. Ma certo
non è mai stato iscritto al Pci, quando i suoi coetanei militavano nella
Fgci lui era nel movimento giovanile democristiano (con Alfano). È il
volto di un Pd non più discendente dal Pci-Pds-Ds, ma semmai dalla
Balena Bianca, che stringe l’accordo con il Cavaliere. La conclusione
paradossale di una parabola cominciata mesi fa, quando i gazebo delle
primarie furono recintati tra il primo e il secondo turno per impedire
(chi lo ricorda?) che gli elettori del Pdl si infiltrassero per votare
per Renzi, il commensale di Silvio. Oggi i vincitori di quella campagna,
avendo perso le elezioni, finiscono per fare un governo con il
Giaguaro. Non ci sono più nemmeno i figli di un dio minore, come li
chiamava D’Alema, gli ex Pci che potevano andare al governo solo se
guidati da un non comunista. In questo caso i figli non si vedono
proprio. La sinistra tradizionale è spazzata via. Il governo, più che di
centrosinistra-centrodestra, è di Centro. Mobile, giovane, dinamico ma
pur sempre di Centro.
Una parola che al nuovo premier non dispiace affatto. Nel 2009 Letta
ha pubblicato un libro (”Costruire una cattedrale”) per teorizzare che
tra le famiglie politiche non ci sono solo i progressisti, ma anche i
moderati, e che insieme devono stare alleati contro i populisti (ieri
era l’offerta di un patto con Casini contro Berlusconi, oggi è
un’alleanza con il Pdl contro Grillo). Va riletto quel libro per capire
oggi chi è Letta e qual è il suo progetto. A partire da quell’episodio
significativo: «Dovevamo organizzare la convention per lanciare
l’alleanza tra il Ppi di Martinazzoli e il Patto Segni. Kohl aveva dato
il suo assenso. Si cercava un altro statista internazionale. Andreatta,
allora ministro degli Esteri del governo Ciampi, mi mandò da Giscard.
Non fu facile, ma alla fine l’ex presidente francese disse sì. A quel
punto cominciarono le perplessità interne: un capo della destra, sia
pure moderata, poteva non piacere alla nostra gente. Fu con grande
imbarazzo che dovetti tornare da Giscard, chiedergli scusa e avvertirlo
che avevamo cambiato idea. Come se avessimo appunto vergogna di parlare
ai moderati. Di cambiare schema mettendo tutto in discussione».
Letta aspira a essere nostro Giscard, che diventò presidente della
Francia a 48 anni, un anno in più del nuovo premier: il leader di un
centro riformatore che potrà nascere anche in Italia se il suo governo
funzionerà. È questo il suo orizzonte strategico: fondare un partito
nato dall’alleanza tra quella parte del Pd che non è più di sinistra (o
non lo è mai stata) e quella parte del Pdl (quella che si riconosce in
Alfano?) che spera nei prossimi anni di liberarsi dolcemente del
Cavaliere. I due spezzoni su cui ruota il governo che nasce oggi: i due
post-Dc Letta e Alfano che potrebbero stare insieme un domani nello
stesso partito o nella stessa coalizione. Con la sinistra, o quel che
resterà, costretta a fare da alleato residuale, un po’ come i socialisti
nel centrosinistra egemonizzato dai democristiani.
Fine di un ciclo lungo, iniziato giusto venti anni fa con il
referendum sul maggioritario di Mario Segni, era il 18 aprile 1993. In
un’altra giornata piovosa di fine aprile muore quel disegno politico: il
bipolarismo, la possibilità della sinistra di andare al governo
vincendo le elezioni. Fine delle primarie, dei gazebo, dei leader scelti
dai cittadini, tutti sforzi inutili se poi i governi si fanno al
Quirinale, tra i migliori perdenti, senza streaming. È questo il destino
che si è consumato con il sacrificio di Prodi, è questa la posta in
gioco di questo governo, possibile che i furbissimi strateghi della
sinistra non se ne rendano conto? E Renzi, leader bipolare e
tendenzialmente presidenziale, l’ha capito che il futuro bipolarismo, se
l’operazione riesce, sarà tra il Centro vedroide e il Movimento 5
Stelle?
Ma anche per raggiungere il suo obiettivo strategico il neo-premier
Enrico Letta non potrà abbassare la bandiera del cambiamento. Non solo
perché glielo chiede l’elettorato del Pd, non solo per evitare i
contraccolpi alla base del partito che ci saranno o i deputati come
Pippo Civati che già minacciano di non votare la fiducia. Ma perché di
riformismo debole, molle, doroteo, questo Paese è morto, come scriveva
ormai molti anni fa Andreatta. E questo governo avrebbe vita brevissima
se fosse la semplice blindatura di una classe dirigente che ha fallito
su tutta la linea.
Alzi qualche bandiera, Letta, e alzi qualche volta la voce, ora che
ha il potere di farlo. Lo deve non solo al Pd, ma anche alla sua
generazione che per la prima volta arriva ai vertici del governo. Una
generazione, quella nata negli anni Sessanta e arrivata all’età adulta
negli anni Ottanta, rappresentata spesso come amorfa, senza voglia di
combattere, una generazione di bravi ragazzi ansiosi di farsi cooptare.
Sono bravi ragazzi, alcuni ministri del governo Letta, primi della
classe rampanti, carrieristi, mai in conflitto, sempre speranzosi di
ottenere l’approvazione dei grandi. E arrivano al governo non perché
hanno vinto una battaglia ma, al contrario, perché i loro capi, i
generali, hanno perso la guerra. Ora hanno l’occasione di rovesciare
quei tavoli che non hanno mai sfiorato per paura di disturbare: hanno
l’occasione di farlo perché nulla è rimasto in piedi, nulla resta da
conservare.
Ci riusciranno? Il dubbio, almeno, è lecito. E la critica,
soprattutto quando si fanno le larghe intese, è più che mai legittima.
Il governo è politico, ha detto il presidente Napolitano, non è un dogma
religioso, il collante della salvezza nazionale: un governo politico si
può e si deve attaccare se necessario, a un governo politico ci si può
opporre, se resta immobile, se è fondato semplicemente su un patto di
sopravvivenza, il tirare a campare.
«Questo governo è una necessità», mi diceva ieri un importante
dirigente del Pd, ex Ds. La solita storia della Necessità, così
rassicurante quando ci sono da spiegare le svolte peggiori: se non ci
sono alternative, se non si può fare altro, che colpa ne ho io? La
sinistra si è trasformata nella vestale della Necessità, di questo è
morta. Ma anche questa sera si può in realtà continuare a pensare che in
politica c’è sempre un’alternativa, una strada non percorsa da
sperimentare. Perché la politica è lo spazio della libertà.
(Fonte)
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