PREMESSA
L'articolo che state per leggere ha
fondamentale importanza. Merita di essere letto, approfondito, compreso e
diffuso. Non ha nulla di complesso, ed è sufficiente leggerlo con un po' di
attenzione per comprendere in che modo potremmo essere colpiti da un'imposta
patrimoniale, traendone le dovute considerazioni.
Nei giorni scorsi
abbiamo già proposto un articolo introduttivo nel quale siamo giunti alla
conclusione che la ricchezza degli italiani, essendo di oltre 4 volte lo stock
del debito pubblico, costituisce la garanzia offerta agli investitori che
investono nel nostro debito pubblico.
Veniamo, ora, alla ricchezza finanziaria quantificata in 3541 miliardi di euro, tentando di comprendere in che modo potrebbe essere interessata da un'eventuale imposizione patrimoniale.
In questa categoria di ricchezza sono ospitate un numero di attività che, l'analisi prodotta da Bankitalia, sostanzialmente, scompone in questo modo:
Molta materia imponibile da colpire con un'imposta patrimoniale feroce, si direbbe! Ma le cose non stanno esattamente in in questi termini, vediamo perché.
Per il ragionamento sopra esposto, quindi, escludendo le componenti sopra descritte, la ricchezza che rimarrebbe rilevante ai fini di un imposizione patrimoniale, per lo più in forma liquida, sarebbe circa 2000 miliardi così desunti:
(Fonte)
Quindi, in base ai dati resi noti da
Bankitalia, siamo giunti alla conclusione che il patrimonio degli italiani è
costituito da:
- Attività reali per 5977.80 miliardi di euro
- Attività finanziarie per 3541 miliardi di euro
- Passività finanziarie per circa 900 miliardi di euro.
Queste due macro classi di attività,
dedotte dalle passività, costituiscono la ricchezza netta degli italiani che
quindi viene quantificata in euro 8619,3 miliardi di euro.
Il dato, essendo multiplo di oltre quattro
volte lo stock di debito pubblico, fa un po' impressione e suscita l'interesse
di chi vorrebbe che, almeno parte di questa enorme ricchezza, possa essere
utilizzata per abbattere il debito pubblico confinandolo entro volumi di maggio
sostenibilità.
C'è chi evoca addirittura la
necessità di portare il rapporto debito/pil sotto il 100% (oggi al 127%). Non
solo, ma anche buona parte dei burocrati europei auspicano, per l'Italia,
una soluzione di questo tipo al fine di consentire di porre il debito
pubblico italiano in un sentiero di maggior sostenibilità, abbattendo anche il
costo per interessi che, ogni anno, costa al contribuente italiano circa 80
miliardi di euro, con previsioni di crescita fino a raggiungere oltre i 100
miliardi nel 2015.
Addirittura, qualche settimana fa , l'invito è stato rilanciato anche dal capo
economista della Commerzbank, Jörg Krämer,
che ha auspicato
l'applicazione di un'imposta patrimoniale del 15% sulle attività finanziarie in
possesso ai risparmiatori italiani (titoli di stato, obbligazioni
conti correnti ecc ecc), in modo da ridurre il debito pubblico entro il 100% in
ragione del Pil, e abbattere considerevolmente anche gli oneri al servizio del
debito.
Alla luce di quanto sopra, cerchiamo di
capire in che modo potrebbero essere tassate queste ricchezze e le difficoltà
che potrebbero riscontrarsi nell'applicazione di una imposta patrimoniale
(ordinaria o straordinaria) da parte dello stato. Per fare ciò, occorre
procedere alla scomposizione della ricchezza.
Abbiamo detto che le attività reali costituiscono circa 6000 miliardi di euro, e queste sono costituite da
Dalla tabella desumiamo che la parte
prevalente della ricchezza è costituita da abitazioni, già ampiamente tassata
con l'IMU o con altre imposte minori (ma non marginali). Gli oggetti di valore,
essendo per lo più costituiti da beni non registrati (preziosi, oggetti di
antiquariato, d'arte e da collezione) sfuggono dalla possibilità di poter
essere tassati per il semplice fatto che, il fisco, non potrà mai tassare ciò
di cui non ne conosce la collocazione e quindi la proprietà.
I
fabbricati non residenziali e i terreni,
sono anch'essi già tassati. Mentre gli impianti e i macchinari,
attrezzature e
avviamenti, rientrando prevalentemente nelle disponibilità delle imprese
per
l'esercizio delle proprie attività, non potrebbero essere tassati,
poiché ciò
graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale
insostenibile, con picchi del 70/75% o forse più. Quindi, la parte di
ricchezza
effettivamente tassabile e che desta l'attenzione da parte del fisco è
costituita dai 5 miliardi delle abitazioni. Va precisato che tale
ricchezza,
essendo astratta e non liquida, mal si presta ad essere tassata con
un'imposizione patrimoniale straordinaria per il semplice fatto che, per
il
contribuente, possedere un patrimonio immobiliare (anche rilevante) non
significa possedere di liquidità a sufficienza per poter pagare
un'eventuale
imposizione patrimoniale di carattere straordinario. Senza poi
trascurare il
fatto che una tassazione di questo genere, magari di qualche punto
percentuale,
farebbe precipitare anche il valore degli immobili e non è affatto
detto
possa esistere un mercato capace di assorbire l'offerta di immobili che
potrebbero essere posti in vendita. Anzi, stando l'attuale crisi
economica, sembrerebbe proprio il contrario. Tuttavia, il rischio è
quello che
lo Stato possa intervenire su questa tipologia di ricchezza inasprendo
il
prelievo fiscale già esistente, magari rivalutando le rendite catastali
o,
molto più semplicemente, aumentando la percentuale di prelievo ai fini
IMU,
rendendo il prelievo strutturale, ossia ripetuto negli anni. Ma è
evidente che questo avrebbe delle controindicazioni poiché rischierebbe
di
produrre effetti fortemente recessivi, stante la diminuzione del reddito
disponibile delle famiglie per effetto della crisi. Quindi, per tali
asset di ricchezza, appare del tutto limitata la possibilità, da parte
dello stato, di ottenere un gettito superiore a quello ad oggi prodotto.
Anche
se, a parer di chi scrive, si ravvisa l'opportunità di riformare le
caratteristiche del prelievo IMU, riducendo o azzerando il prelievo
sulle prime
abitazioni, offrendo maggior progressività all'imposizione in ragione
del
valore del patrimonio immobiliare del contribuente, e scorporando dai
valori
imponibili le eventuali passività gravanti sulle proprietà immobiliari
(mutui).
Tuttavia, rilevata l'impossibilità di poter ottenere un gettito
straordinario
dalla ricchezza immobiliare, giova ricordare la bizzarra e fantasiosa imposta patrimoniale ipotizzata nell’estate del 2011 dall’ex
Ragioniere Generale dello Stato Andrea Monorchio. Secondo quest’ultimo, in
Italia, sarebbe auspicabile introdurre un imposta patrimoniale che consenta di
garantire con beni reali il debito pubblico Italia. In altre parole e
semplificando, si tratterebbe di introdurre un ipoteca forzosa sul patrimonio
immobiliare insistente in Italia, e garantire le emissioni di particolari
titoli di stato, con dei beni reali e quindi facilmente escutibili in caso di
insolvenza da parte dello Stato. Da segnalare che, secondo l’idea di Monorchio,
questi titoli sarebbero dovuti essere sottoscritti dalla BCE, in contrasto con
tutti i trattati europei che vietano la monetizzazione del debito da parte
della banca centrale. Niente male come idea, se non fosse che neanche
un Paese bolscevico sarebbe capace di arrivare a tanto.
Veniamo, ora, alla ricchezza finanziaria quantificata in 3541 miliardi di euro, tentando di comprendere in che modo potrebbe essere interessata da un'eventuale imposizione patrimoniale.
In questa categoria di ricchezza sono ospitate un numero di attività che, l'analisi prodotta da Bankitalia, sostanzialmente, scompone in questo modo:
Molta materia imponibile da colpire con un'imposta patrimoniale feroce, si direbbe! Ma le cose non stanno esattamente in in questi termini, vediamo perché.
Prima di tutto occorre scomputare il
denaro contante: tassare il contante, fino a quando questo rimane tale, è un
esercizio impossibile da praticare. Non deve sorprendere, infatti, che buona
parte del mondo politico, sarebbe favorevole ad una progressiva abolizione del
denaro contante. Ciò perché, per obbligo normativo, questo, verrebbe depositato
in banca e quindi diverrebbe individuabile da parte del fisco, facendo emergere
materia imponibile da colpire, più o meno ferocemente. Ma di questo abbiamo
reiteratamente parlato in questo sito e ulteriori dettagli potete trovarli QUI, QUI E QUI.
Esistono inoltre altre categorie di
attività che, sebbene parzialmente note al fisco, tassarle con un'imposizione
patrimoniale, risulterebbe abbastanza difficile e soprattutto rischierebbe di
fare più danni che altro. E' il caso, ad esempio, dei crediti commerciali.
Tassare un credito vantato da un'azienda, benché tecnicamente possibile
-obbligando ogni impresa a rendere noti al fisco i rispettivi crediti
commerciali attraverso apposita comunicazione- appare non ortodosso,
oltreché distruttivo. E poi, è evidente che al credito di un'azienda,
corrisponda un debito di un'altra azienda. Siccome sarebbe ragionevole
attendersi che il credito possa essere scomputato dal debito, alla fine, la
base imponibile sarebbe comunque limitata e un'eventuale imposizione patrimoniale,
anche in questo caso, graverebbe sulle imprese che già scontano livelli
di prelievo fiscale insostenibile, con picchi del 70/75% o forse più.
Discorso
del tutto simile può essere osservato per le riserve assicurative. Anche queste
potrebbero essere tassate, ma non senza difficoltà, contraddizioni, e non senza
arrecare più danni che guadagni. L’applicazione
di una imposta patrimoniale feroce, verosimilmente, andrebbe a colpire anche i
fondi pensione e i fondi assicurativi, verso i quali un numero non del tutto
indifferente di risparmiatori hanno riposto le speranze per
ottenere l’integrazione pensionistica, al fine di integrare (o
sostituire) la pensione erogata dai vari enti previdenziali.
Sotto questo punto di vista, le scelte del governo volte all’applicazione di
una imposta patrimoniale straordinaria, contrasterebbero con le politiche di
welfare e con le varie riforme pensionistiche varate negli ultimi 10/15 anni, o
forse più. Al riguardo, vale la pena ricordare che tali politiche hanno
impresso uno stimolo allo sviluppo di forme pensionistiche alternative, capaci
di integrare i flussi finanziari del risparmiatore in età pensionabile,
al fine di arginare la progressiva diminuzione delle prestazioni garantite dai
veri enti pensionistici. Non un problema da poco, direi
Anche la ricchezza
riconducibile alle partecipazioni in società di capitali non quotate (circa 420
miliardi di euro) o alle partecipazioni in società o quasi società (circa 205
miliardi di euro) è di difficile imposizione poiché, essendo questa una
ricchezza riconducibile essenzialmente a partecipazioni in piccole società che
non hanno una valutazione di mercato giornaliera (come invece avviene per le
società quotate), oltre ad essere del tutto astratta, occorrerebbe definire un
criterio attendibile di valutazione della partecipazione. Benché sia possibile effettuarlo per via amministrativa, il rischio
è proprio quello di
subire una valorizzazione arbitraria da parte dello Stato attraverso
delle
procedure che possano valorizzare determinati asset non in maniera
pertinente. In sostanza, è un po’ come oggi avviene con gli studi di
settore per la quantificazione dei redditi di impresa. E in anche in
questo caso l’esperienza ci conferma quanto possano risultare
arbitrarie e non pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel
caso di
imposte patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che
queste
comporterebbero anche un'ulteriore abbattimento della competitività
della
imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione di
redditività
patita con l’imposta applicata, attraverso un aumento di prezzi che le
renderebbero ancor meno competitive, e aggravando una situazione già di
per se critica.
Per il ragionamento sopra esposto, quindi, escludendo le componenti sopra descritte, la ricchezza che rimarrebbe rilevante ai fini di un imposizione patrimoniale, per lo più in forma liquida, sarebbe circa 2000 miliardi così desunti:
A
rigor di logica, da
questo stock di ricchezza finanziaria così determinata, dovrebbero
essere
scomputate le passività che ammontano a circa 900 miliardi di euro,
restituendo
un imponibile tassabile di appena 1100 miliardi di euro. Riducendo la
base imponibile da colpire, il pericolo è proprio quello che l'azione
dello Stato, a parità di gettito atteso, possa concentrarsi su patrimoni
molto più piccoli e quindi colpire in maniera indiscriminata anche una
platea diffusa di piccoli risparmiatori. Infatti, tenuto conto che i
depositi bancari e postali si avvicinano, già di loro, alla soglia dei
1000 miliardi, ciò significa che questi sono distribuiti su tutto
l'universo dei risparmiatori italiani, piccoli compresi. Anzi,
soprattutto piccoli; poiché è ragionevole attendersi che i grandi
patrimoni (anche liquidi), con ogni probabilità, siano stati già
collocati in sicurezza fuori dal perimetro nazionale. Senza considerare
poi che, in Italia , vige (forse) un sistema di garanzia dei depositi di
conto corrente fino a 100 mila euro, che dovrebbe quantomeno escludere
prelievi straordinari fino a tali somme, riducendo ulteriormente la
base imponibile da colpire. Ma su questo, personalmente, nutro qualche
dubbio e comunque, dipende dagli obbiettivi di gettito prefissati dallo
stato, e soprattutto dallo stato di bisogno.
Pensare che con
un'imposizione patrimoniale straordinaria possa ottenersi un gettito
di 400/500
miliardi di euro come quanto auspicato da "autorevoli" commentatori,
appare del tutto irrealistico, oltreché destabilizzante per uno stato di
diritto, ove la proprietà privata e la tutela del risparmio è anche
garantita costituzionalmente. Ma ciò
non toglie che questo patrimonio possa essere comunque esposto al
rischio di qualche forma di imposizione patrimoniale o, peggio,
confisca.
Gli investimenti
finanziari (ossia in titoli di stato, fondi comuni, azioni ecc)
per loro natura, si prestano ad essere colpiti con maggiore attitudine
rispetto ad altre tipologie di asset. Ma anche in questo caso, l’applicazione
di una imposta patrimoniale straordinaria fortemente invasiva in termini di
prelievo fiscale, rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad
esempio, ad un pacchetto di azioni detenute da un risparmiatore,
supponiamo per 100.000 euro, e che vengano colpite da un imposta straordinaria
di qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore non dovesse
disporre di liquidità sufficiente per provvedere al pagamento
dell’imposta, egli sarebbe costretto a liquidare parte del
proprio investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere
al pagamento dell’imposizione tributaria. Questo, se effettuato su
scala rilevante, determinerebbe pericolose distorsioni di mercato.
Si pensi, ad esempio, alla caduta dei prezzi che si potrebbero determinare su
un titolo: il risparmiatore ne risulterebbe doppiamente penalizzato
poiché, oltre a subire una diminuzione del patrimonio per effetto
dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento del proprio
portafoglio titoli per effetto delle vendite sui titoli. Questo appare
tanto più vero nel nostro mercato finanziario, il quale, essendo di
modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla possibilità di
variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui. Inoltre, ciò
rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri (quindi esenti da imposta),
che in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti azionari a buon
mercato per effetto della depressione dei prezzi causata da una patrimoniale
feroce. Evidentemente. le conseguenze nefaste non si esaurirebbero con le
casistiche appena descritte, ma andrebbe ben oltre.
Discorso analogo
potrebbe essere effettuato per le obbligazioni societarie (soprattutto bancarie) o con i titoli distato (LETTURA SUGGERITA). Ma, in quest’ultimo caso, occorre
effettuare qualche ulteriore ragionamento in virtù del fatto che, il titolo di
stato, essendo un debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio
attraverso l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe
essere tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante
dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di Stato
nel portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo caso,
laddove non si dispongano di risorse necessarie per poter corrispondere
l’imposizione tributaria, lo Stato potrebbe effettuare una compensazione
tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il proprio debito (titolo di
stato), diminuendone o azzerandone gli interessi previsti o, nei casi più
“estremi”, decurtandone il capitale alla scadenza del titolo. In buona
sostanza, un default mascherato da una patrimoniale.
Concludendo,
le classi di
attività che si prestano ad essere colpite con maggior attitudine, anche
con
imposizioni feroci, sono proprio quelle liquide (ad esempio depositi
bancari, di conto corrente, o postali), poiché aggredire tali patrimoni
costituisce, per lo stato, garanzia sulla celerità e sul buon esito
della pretesa tributaria. In tal senso, anche quelle attività in cui lo
stato
risulta essere debitore (titoli di stato) si prestano con particolare
attitudine a soddisfare le proprie esigenze, in quanto, lo stato,
potrebbe agevolmente compensare la sua
posizione debitoria con il credito emerso per effetto dell'imposizione
fiscale.
Analogo discorso può
essere osservato per le obbligazioni bancarie, le quali, anche
per via normativa, potrebbero essere sottoposte ad un haircut al fine di
obbligare il risparmiatore (investitore) a contribuire al salvataggio
di qualche banca di medie grandi dimensioni che potrebbe trovarsi in
stato di difficoltà. Cipro insegna.
te lo condivido sul mio blog...aprite i manicomi e metteteli tutti dentro !!!!
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