martedì 23 aprile 2013

“Ero costretto a gettare rifiuti tossici nel Sacco, ora voglio giustizia”

La storia di Luigi Mattei, per vent’anni operaio Snia-Bpd, e della sua infinita battaglia legale contro gli inquinatori della Valle



“C’hanno già giocato con la mia pelle, ora non ci faccio giocare più nessuno. Nessuno”. E scandisce le parole, alzando di colpo il tono della voce. “Questa è una cosa seria: ci stanno i morti, ci sta la gente che si ammala. Pure tu, se mangi qualcosa che viene prodotto da queste parti, ce l’hai pure tu. Ce l’hai addosso”. E ti guarda dritto in faccia, fisso. Come se volesse scavarti dentro, come se volesse essere sicuro che riesci a capire per davvero quello che sta dicendo.

Luigi Mattei ha un naso largo e butterato, un naso che parla. E che racconta anni di fatica, di lavoro e di sofferenza. Gli divide la faccia esattamente a metà, quel naso, come una grossa patata. I suoi occhi sono inquieti, e pure un po’ liquidi. Gialli. Di un giallo che sa di malattia. Lo stesso colore che segna la pelle della sua faccia graffiata da rughe profonde. Siamo a Colleferro, all’inizio della Valle del Sacco. Proprio da qui è partito il disastro ecologico di questo territorio, almeno uno di quelli su cui si hanno notizie certe.

“M’hanno detto che non lo posso dire, ma io lo dico lo stesso: qua ci sta un’epidemia. Tutta Colleferro è contaminata”. E Luigi tira fuori altre carte bollate dai faldoni, con quelle sue mani grandi e nodose da operaio. Sì, perché Luigi Mattei è stato un operaio per una vita. Dal 1962 al 1981 ha lavorato alla Bombrini Parodi Delfino, al reparto manutenzioni. Era lì quando si è fusa con la Snia e anche quando è stata acquisita dalla Fiat Ferroviaria.

“Io prendevo i fusti col muletto e li mettevo sui carrelli – racconta – li chiamavamo ‘piattini’ e li attaccavamo uno dopo l’altro dietro alla motrice. Facevamo una specie di trenino, pieno zeppo di fusti. Dentro i fusti ci stavano i rifiuti che dovevamo portare vicino al fiume, nel ‘Campo recuperi’”. Gesticola. Non riesce a stare fermo, mentre gli occhi gialli s’inumidiscono di lacrime di rabbia. “Si chiamava così perché ci mettevamo anche la roba che si poteva recuperare. Ma là dentro un sacco di robaccia. I fusti erano quelli dei materiali chimici che servivano per la produzione, li riutilizzavamo per metterci quella robaccia. Erano tutti arrugginiti, mezzi aperti, nemmeno saldati. Li chiudevamo giusto con un po’ di resina. Poi però, quando li buttavi nel campo, gli schizzi arrivavano alle stelle”.

In quei fusti c’era di tutto: amianto, piombo, rame, zinco, resine, trucioli di ferro e ottone, ecc… “E lindano, il betaesaclorocicloesano….”. Luigi a volte incespica nelle parole. Però quella, la più difficile, la scandisce senza esitazioni. Chissà quante volte deve averla sentita, chissà quante volte deve averla ripetuta. Perché lui quella molecola, il betaesaclorocicloesano, per gli amici BetaHch, ce l’ha nel sangue. Così come molti altri abitanti della Valle del Sacco. Così come quelli che lavoravano con lui allo stabilimento, “tutti morti, non se n’è salvato manco uno”.

Il betaesaclorocicloesano è uno scarto del lindano, un principio attivo che serve a fare i diserbanti. L’Organizzazione mondiale della sanità oggi lo classifica come “mediamente pericoloso” e il suo commercio è limitato in nome di una convenzione internazionale. L’impiego industriale è attualmente vietato in più di 50 paesi, e tra questi c’è anche l’Italia. E’ anche in atto una battaglia per includerlo nella lista degli “inquinanti organici persistenti”, cioè per bandirne la produzione e l’utilizzo nel mondo intero. Quando Luigi lavorava alla Snia-Bpd, però, di tutto questo non sapeva niente. Nel frattempo il Sacco ogni tanto esondava, copriva la discarica, poi tornava nel suo letto. “L’acqua era gialla quando ci lavoravo io”, dice Luigi, e tu hai più di una difficoltà a stare dietro a quei suoi occhi nervosi, anche quelli liquidi e gialli.

E’ così che la sua vita è cambiata per sempre. “Io ho fatto solo la quinta elementare, ma ne so più di tanti avvocati ormai. C’ho più processi in piedi io che Berlusconi”, e indica col suo grosso dito i faldoni pieni di documenti, sentenze e carte bollate che ha diligentemente archiviato in questi anni. Luigi è un testimone chiave, oltre che parte offesa, nel secondo procedimento sulla vicenda lindano, quello contro le quattro persone cui si attribuisce il disastro ambientale.

Nella prima udienza dibattimentale, alla fine del novembre 2012, il tribunale di Velletri ha deciso di restituire i fascicoli alla procura, dopo aver constatato un errore di notifica al momento della chiusura dell’inchiesta da parte del Pm. Questa battuta d’arresto Luigi l’ha vissuta come una mezza sconfitta, ma non si dà certo per vinto. Anche perché nel frattempo ha portato a casa la vittoria più grande. Stavolta non ha a che fare con il lindano, ma con l’amianto. “C’ho messo sedici anni, ma questa è la Bibbia” dice colmo d’orgoglio, mentre ti sventola sotto il naso la sentenza della Cassazione che gli riconosce lo status di esposto alle polveri di amianto per cause professionali. “E’ la Bibbia” ripete.

Il prossimo obiettivo è ottenere lo stesso risultato per quanto riguarda il Lindano. E’ la battaglia a cui Luigi Mattei tiene di più. “Io ce l’ho dentro, ce l’ho nel sangue. Sono malato, la notte dormo con il respiratore”. Secondo gli studi, il BetaHch è una tossina che interferisce con le funzioni di neurotrasmissione. Sicuramente, nell’uomo, attacca principalmente il sistema nervoso, il fegato e i reni e con ogni probabilità è anche un agente cancerogeno e perturbatore endocrinale. I suoi effetti, però, non sono ancora del tutto chiari. Gli esperti sono d’accordo nel sottolineare che la letteratura scientifica resta tuttora insufficiente. Finora, non era mai successo che il lindano contaminasse così tante persone. Forse la metafora più efficace per spiegare le conseguenze del BetaHch sugli uomini, è quella utilizzata da un dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità durante un incontro pubblico. “Probabilmente – disse – il Bhch non produce di per sé patologie, ma crea un ‘effetto zavorra’. Un peso che affatica l’organismo e che può essere indirettamente patogeno”.

Per questo non è ancora chiaro se essere stati esposti al lidano può essere equiparato all’esposizione all’amianto. Per questo i giudici prendono tempo. Quali che saranno i risultati futuri degli studi effettuati su questa gente, però, già oggi è piuttosto difficile non pensare alla malattia e alla morte guardando gli occhi gialli e sgranati e il naso butterato di Luigi Mattei, mentre ti stringe forte la mano e ti dice speranzoso: “Lo devono sapere tutti quello che è successo qua. Tutti lo devono sapere”. Così come è difficile non pensare alla malattia e alla morte dopo, quando ripassi sotto il cementificio, il vero simbolo di Colleferro, vedi in lontananza l’inceneritore, attraversi una selva di capannoni in lamiera e di stabilimenti industriali. E quando attraversi il ponte di cemento grigio che ti porta sull’altra sponda del fiume Sacco.
(Fonte)
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