"Non è inusuale cercare informazioni su altri paesi". Ecco. Per quanto possa irritarci, la presa di posizione del segretario di Stato John Kerry sulla crisi nei rapporti tra Unione europea e Stati Uniti provocata dal Datagate è la prima cosa di buon senso che si ascolta da giorni.
Negare tout court lo spionaggio diplomatico sarebbe stato ridicolo.
Come lo sarebbe negare che ciascuno dei paesi che in queste ore alza la
voce chiedendo spiegazioni a Washington, non abbia a sua volta imbottito
di microspie tutte o quasi tutte le ambasciate straniere nelle
rispettive capitali. È un gioco delle parti che va avanti da millenni.
Prima c'erano le orecchie, adesso una tecnologia sofisticata che
permette persino di evitare il ricorso alle cosiddette "cimici". Con
diecimila euro si può acquistare sul mercato uno strumento laser che,
puntato su una finestra (anche di un'ambasciata), è capace di ascoltare
le voci di chi si trova nella stanza attraverso le impercettibili
vibrazioni del vetro. Di che stiamo a parlare?
Di cose molto serie, ovviamente. Lo scandalo che sta scuotendo
l'amministrazione Obama riguarda l'uso e l'abuso dei dati personali di
milioni di cittadini americani, intercettati al di fuori delle regole
imposte dalla legge. Il Congresso aveva autorizzato l'intelligence in
base al Patriot Act, come sostiene la Casa Bianca? E se sì, con quali
limiti? Telefonate, mail, carte di credito erano comprese nel pacchetto?
Dove sono finite le informazioni raccolte? Quale uso ne è stato fatto
ad eccezione di quello, per così dire istituzionale, che avrebbe
consentito di sventare alcune centinaia di attentati?
Tra le righe dello scontro verbale tra i rappresentanti dell'Unione
europea e quelli dell'amministrazione Obama, e al di là delle sacrosante
richieste di spiegazioni chieste da tutti i paesi coinvolti (fa bene Napolitano a pretendere chiarezza),
si legge però qualcosa di più interessante. Un sottotesto (mica tanto
sotto) che rimanda a un possibile rinvio o addirittura alla
cancellazione del negoziato imminente con gli Stati Uniti per costruire
l'area di libero commercio più grande del mondo. Una trattativa sul cui
successo, si dice, il presidente della Commissione europea Barroso sia
deciso ad investire il resto del proprio mandato con l'obiettivo di
mettere un'ipoteca pesante sulla poltrona di presidente delle Nazioni
Unite.
Questione delicatissima, non solo per il futuro di scambi del tipo
prosciutto contro ketchup. Sono mesi, forse anni, che l'Unione si
interroga su costi e benefici di questa rivoluzione che eccita i mercati
finanziari del pianeta. Su cosa sacrificare, sul come convincere gli
europei ad aprire le porte a una possibile invasione del Made in Usa. Pensate all'eccezione culturale,
radice del racconto filmico della nostra identità, che nelle scorse
settimane ha mobilitato i cineasti del Vecchio Continente. A loro
Barroso non ha garantito che mai l'audiovisivo europeo (cinema, fiction,
documentario) sarà oggetto di negoziato. Ha semplicemente detto: per
ora non se ne parla. Per ora. E poi?
Poi, vai a vedere che frugando con cura nello scatolone delle
microspie che tanto scandalizzano le cancellerie non si trovi ben altro.
Magari che le rivelazioni del giovane hacker Edward Snowden,
lasciato ad ammuffire in una stanza dell'aeroporto Sheremetyevo di
Mosca in attesa di un asilo politico o dell'estradizione, più che ad
incastrare la National Security Agency servano da coperchio sulla
pentola di questa trattativa che in Europa sono in tanti (e giustamente)
a temere.
(Fonte)
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