Il Porcellum e la palude perfetta
Una cosa – una sola – avrebbe reso vagamente accettabile l’abbraccio
tra Pd e Pdl al governo: fare in fretta quella riforma elettorale che
già entrambi i partiti avevano formalmente promesso la scorsa
legislatura – per poi tornare alle urne con una legge che decretasse un
vincitore fra le tre maggiori forze parlamentari.
Questo sarebbe stato un esito decente (non il migliore, ma decente)
del caos di aprile. Questo – ma guarda un po’ – avrebbe anche garantito
in pochi mesi la famosa “stabilità”, quel feticcio di cui scrive oggi
Spinelli su Repubblica.
Questo, in poco tempo, sarebbe stato possibilissimo fare: essendo
quella elettorale una legge ordinaria e non costituzionale, essendo il
dibattito in merito già parecchio approfondito da tempo, essendo
dichiarazione comune che il Porcellum fa schifo, essendo infine state
realizzate fior di simulazioni per aiutarci a capire quale modello
avrebbe meglio portato alla suddetta stabilità.
Un limite di buon senso, in questa direzione, sarebbe stato quello
dei tre mesi: dunque se questa scelta fosse stata fatta, domenica
prossima (28 luglio) avremmo la nuova legge elettorale, attesa da tre
legislature.
Invece in questi tre mesi non è che per questa riforma non sia stato
fatto niente: è peggio. È proprio che le cose sono state incasinate in
modo da allontanare l’obiettivo. Una sorta di “palude perfetta” creata
probabilmente ad arte, più che per incapacità.
Primo, si è deciso di legare la nuova legge elettorale alla riforma
costituzionale: perché, dicono, modello elettorale e forma dello Stato
sono intrecciati, non si può avere ad esempio il semipresidenzialismo
senza il doppio turno, o viceversa, è lo stesso.
Quindi, l’inevitabile allungamento dei tempi di una riforma costituzionale, con tanto di possibile referendum confermativo.
Ma non bastava. Per incasinare ulteriormente il tutto, si è deciso di
delegare le proposte di riforma costituzionale a un gruppo di 40 saggi,
in outsourcing. Poi i saggi dovrebbero fare una proposta al governo,
che dovrebbe portarla al Parlamento che finalmente potrebbe comiciare a
discuterne, sempre coi tempi di una riforma costituzionale,
naturalmente.
Come ovvio e prevedibile, i saggi non hanno ancora combinato nulla,
si sono visti un po’ di lunedì per “pensare” (cit. D’Onofrio), ora sono
andati in vacanza, riprenderanno a pensare in settembre e se va tutto
bene a fine ottobre spediranno l’esito dei loro pensieri a Letta, sempre
che trovino una “sintesi” visto che non sono d’accordo quasi su nulla.
Ma non è ancora finita, no: perché nel frattempo le commissioni
affari costituzionali delle due Camere, non potendo discutere sulla
futura forma dello Stato che al momento è appannaggio dei saggi, si sono
messe a discutere se intanto bisogna cambiare le modalità con cui eventualmente cambiare la Costituzione.
Proprio così, non è un gioco di parole: i saggi pensano su come riformare la Carta nel merito, le Camere discutono se cambiarne o meno il metodo di riforma previsto dalla stessa Carta (articolo 138).
Fra le altre cose, la direzione dei cambiamenti dell’articolo 138
imboccata dalla maggioranza ha già destato moltissime perplessità, tali
da renderne improbabile un passaggio in Aula e un’effettiva
realizzazione in tempi non biblici.
Ecco, la palude perfetta, appunto.
Perché non è che si può cambiare la Costituzione se prima non si è deciso se e come cambiare le regole con cui si può cambiare.
Viene quasi da ridere, no?
Nel frattempo il governo non ha mosso un dito sul tema della riforma
elettorale con legge ordinaria – ripeto: unico obiettivo che avrebbe
giustificato la sua esistenza – ma in compenso si è spartito poltrone e
cariche palesando il suo scopo autentico: un patto che garantisca la
perpetuazione al potere dei suoi azionisti con l’alibi di una
“stabilità” che in realtà non si è voluto raggiungere, perché comportava
il rischio che uno dei due azionisti poi restasse escluso dal potere
(se non entrambi).
Molto meglio la spartizione e la palude, quindi: con buona pace del Paese negli interessi del quale si dice di governare.
(Fonte)
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