Ma come? Appena la settimana scorsa l’Europa ci aveva promossi, Letta
festeggiava in pubblico i successi del governo, e, ancora una volta, ci
avevano detto che la crisi stava ormai passando, che la crescita era
dietro l’angolo, che finalmente avevamo più strumenti per far ripartire
l’economia. Tempo sette giorni, e arriva la doccia fredda del rating.
S&P’s ci declassa, con i nostri titoli che si avvicinano
pericolosamente al livello spazzatura.
Come mai? Intanto la UE è preoccupata soprattutto del deficit – una misura annuale, per sua natura variabile e che si dovrebbe adattare alle circostanze macroeconomiche del momento. Le agenzie di rating, invece, sono preoccupate della sostenibilità del debito. Ed il debito in questi anni è aumentato, non diminuito. Perché? Essenzialmente perché siamo in continua recessione, come in effetti confermato da Standard&Poor’s che prevede una contrazione vicina al 2% anche per il 2013, il prezzo che i governi Monti e Letta hanno deciso di pagare per star dietro alle frenesie dell’Europa.
Come mai? Intanto la UE è preoccupata soprattutto del deficit – una misura annuale, per sua natura variabile e che si dovrebbe adattare alle circostanze macroeconomiche del momento. Le agenzie di rating, invece, sono preoccupate della sostenibilità del debito. Ed il debito in questi anni è aumentato, non diminuito. Perché? Essenzialmente perché siamo in continua recessione, come in effetti confermato da Standard&Poor’s che prevede una contrazione vicina al 2% anche per il 2013, il prezzo che i governi Monti e Letta hanno deciso di pagare per star dietro alle frenesie dell’Europa.
S&P’s se la prende in particolare con due
aspetti che secondo loro contribuiscono in maniera decisiva al declino
italiano. Uno, la pochezza della politica. In questo caso riservano
all’Italia lo stesso trattamento usato per Washington un paio di anni
fa, quando non si trovava accordo tra Repubblicani e Democratici su come
ridurre il debito. In effetti, qualsiasi osservatore serio non può non
notare come l’attuale governo di coalizione sia in realtà un pollaio dei
più beceri. Brunetta che spara contro Saccomanni, il PDL che minaccia
la crisi sull’IMU, il PD che si barcamena sull’IVA. In tre mesi di
governo si è per ora solo riusciti a rimandare le decisioni sulle tasse.
Non proprio un segnale di stabilità e di compattezza politica.
Il secondo capo d’imputazione per l’Italia è la scarsa competitività. La critica di S&P’s riprende quasi interamente il rapporto dell’OECD sulla dinamica della produttività nel nostro paese, nettamente inferiore alla media dei paesi dell’area Euro, un divario cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi due decenni. Un paese poco competitivo, quindi incapace di crescere, quindi con un debito pubblico fuori controllo – ci sarebbe bisogno di un avanzo primario pari al 5% del PIL per far calare il debito, una cifra assolutamente fuori portata. Alcune delle considerazioni di S&P’s sono condivisibili: il cuneo fiscale rimane altissimo e questo influisce negativamente sul costo del lavoro. Invece di tassare le rendite, invece di mettere una vera tassa sulla ricchezza – altro che l’IMU attuale, che è un provvedimento parziale e quindi in parte controproducente – si continua a tartassare il lavoro e le attività produttive.
La seconda parte delle raccomandazioni di Standard&Poor’s sono però una ennesima tiritera contro il mondo del lavoro. Il mercato del lavoro, si dice, è ancora troppo rigido e questo è confermato dalla viscosità dei salari che non sono diminuiti abbastanza da quando è cominciata la crisi, come invece in altri paesi europei, tipo l’Irlanda – o come in America, come riportato su questo giornale soltanto ieri. Ci viene cioè detto che, con la produttività in calo a causa della crisi, i salari dovrebbero ridursi in maniera sostanziale per mantenere la competitività del paese, quanto appunto predicato dall’OECD nel suo rapporto.
Una analisi povera e che ignora alcuni elementi di fondamentale importanza. Innanzitutto ci si dimentica che i salari reali sono rimasti sostanzialmente immutati dall’inizio degli anni 90, mentre negli altri paesi erano cresciuti notevolmente. Se anche è vero che negli ultimi anni i salari sono calati meno della produttività, non è certo da questo che nasce la nostra scarsa competitività.
Bisognerebbe concentrarsi sul mondo dell’impresa, incapace di innovare, e su quello della ricerca, costantemente tartassato dai vari governi succedutisi nella Seconda Repubblica. Ed al contempo bisognerebbe pensare a come aumentare l’investimento in capitale umano, uno dei nodi cruciali della produttività, danneggiato enormemente dalla continua precarizzazione del lavoro.
Inoltre S&P’s decide di concentrarsi solo su alcune variabili, ignorandone altre. Si può davvero pensare di rilanciare la crescita diminuendo i salari reali e quindi comprimendo i consumi? Il modello continua ad essere quello tedesco dello scorso decennio, dimenticando però un piccolo particolare: che dieci anni fa l’economia mondiale tirava, che il Sud Europa cresceva ed assorbiva gli export tedeschi. Ora il quadro macroeconomico è completamente diverso, caratterizzato da una recessione europea e una economia mondiale stagnante. Rilanciare la produttività riducendo la domanda non avrebbe altro effetto se non quello di provocare un ulteriore avvitamento della crisi.
Il secondo capo d’imputazione per l’Italia è la scarsa competitività. La critica di S&P’s riprende quasi interamente il rapporto dell’OECD sulla dinamica della produttività nel nostro paese, nettamente inferiore alla media dei paesi dell’area Euro, un divario cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi due decenni. Un paese poco competitivo, quindi incapace di crescere, quindi con un debito pubblico fuori controllo – ci sarebbe bisogno di un avanzo primario pari al 5% del PIL per far calare il debito, una cifra assolutamente fuori portata. Alcune delle considerazioni di S&P’s sono condivisibili: il cuneo fiscale rimane altissimo e questo influisce negativamente sul costo del lavoro. Invece di tassare le rendite, invece di mettere una vera tassa sulla ricchezza – altro che l’IMU attuale, che è un provvedimento parziale e quindi in parte controproducente – si continua a tartassare il lavoro e le attività produttive.
La seconda parte delle raccomandazioni di Standard&Poor’s sono però una ennesima tiritera contro il mondo del lavoro. Il mercato del lavoro, si dice, è ancora troppo rigido e questo è confermato dalla viscosità dei salari che non sono diminuiti abbastanza da quando è cominciata la crisi, come invece in altri paesi europei, tipo l’Irlanda – o come in America, come riportato su questo giornale soltanto ieri. Ci viene cioè detto che, con la produttività in calo a causa della crisi, i salari dovrebbero ridursi in maniera sostanziale per mantenere la competitività del paese, quanto appunto predicato dall’OECD nel suo rapporto.
Una analisi povera e che ignora alcuni elementi di fondamentale importanza. Innanzitutto ci si dimentica che i salari reali sono rimasti sostanzialmente immutati dall’inizio degli anni 90, mentre negli altri paesi erano cresciuti notevolmente. Se anche è vero che negli ultimi anni i salari sono calati meno della produttività, non è certo da questo che nasce la nostra scarsa competitività.
Bisognerebbe concentrarsi sul mondo dell’impresa, incapace di innovare, e su quello della ricerca, costantemente tartassato dai vari governi succedutisi nella Seconda Repubblica. Ed al contempo bisognerebbe pensare a come aumentare l’investimento in capitale umano, uno dei nodi cruciali della produttività, danneggiato enormemente dalla continua precarizzazione del lavoro.
Inoltre S&P’s decide di concentrarsi solo su alcune variabili, ignorandone altre. Si può davvero pensare di rilanciare la crescita diminuendo i salari reali e quindi comprimendo i consumi? Il modello continua ad essere quello tedesco dello scorso decennio, dimenticando però un piccolo particolare: che dieci anni fa l’economia mondiale tirava, che il Sud Europa cresceva ed assorbiva gli export tedeschi. Ora il quadro macroeconomico è completamente diverso, caratterizzato da una recessione europea e una economia mondiale stagnante. Rilanciare la produttività riducendo la domanda non avrebbe altro effetto se non quello di provocare un ulteriore avvitamento della crisi.
(Fonte)
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