venerdì 3 maggio 2013

Il capitalesimo che distrugge le nazioni

Paolo Gila
Giornalista economico finanziario,
 

 intervista di Valerio Valentini
Benvenuti nell’era del Capitalesimo, l’epoca del capitalismo che si sposa con il feudalesimo. Perché? Perché è in atto un intreccio tra tendenze evolutive, innestate sullo sviluppo del capitalismo tecnologico e finanziario, con altre tendenze che invece mostrano un arretramento dei diritti sociali, una perdita del potere d’acquisto da parte di una massa crescente di popolazione, da uno scivolamento del ceto medio verso il ceto basso. Insomma, la civiltà del low cost che si sta affermando e che si sposa con il capitalismo più avanzato dei mercati finanziari, dà vita a questo intreccio, a questa nuova epoca a cui si è dato il nome appunto di Capitalesimo. 

La tecnologia avanza in una società che arretra, la finanza cresce in un’ottica di deregolamentazione e in una cornice dove la sovranità nazionale degli Stati perde peso a tutto vantaggio di una sovranità dettata da organismi internazionali che se la ridono dei diritti costituzionali dei singoli Stati e che affermano degli ordini e delle regole nuove di fronte alle quali anche le nazioni, il genus loci, il territorio deve essere subordinato.

Avevamo già avuto, nel corso della seconda metà del Novecento, alcune testimonianze, come il libro di Leopold Kohr, del 1953, intitolato “Il Crollo delle Nazioni”. Un titolo quasi profetico, nel quale si auspicava la cancellazione degli Stati nazionali in Europa proprio per dare vita ad organismi comunitari, sovranazionali in grado di imporre le proprie leggi, le proprie regole, a discapito della vivacità delle economie locali. Tutto per affermare un nuovo ordine che, in un certo qual modo, abbandonasse il passato. Un passato e una storia di conflitti nazionali all’interno del bacino, della scodella europea. C’è stato anche un altro libro, molto importante, di Michael Albert: il presidente delle Assicurazioni Generali in Francia nel 1987 ha pubblicato un libro dal titolo “Crollo disastro miracolo”. Un testo nel quale si auspicavano delle crisi a livello locale per fomentare, diciamo così, la nascita di un nuovo ordine tutto impostato sulla possibilità che organi comunitari, internazionali rispetto agli Stati nazionali europei imponessero la propria legge.

Potremmo pensare che questo sia un fenomeno tipicamente europeo, e che quindi il Capitalesimo sia un fenomeno strettamente legato al vecchio continente. Ma nel corso degli anni, in varie parti del mondo, sono in atto progetti per costituire delle monete uniche all’interno di aree valutarie ottimali. Pensiamo che dal Nafta, in Nord-America, potrebbe generarsi l’Amerigo; nel Sud-America c’è il trattato del Mercosur che spinge verso la creazione di un’area di scambio unica e integrata; i Paesi del Centro-America sono orientati a creare un’area legata al Celac; e infine nei Paesi del Golfo Arabo c’è un progetto per costituire il Gulfo, una moneta in grado di raccordare e unire le tendenze di almeno sei Paesi.

Che cosa comporta la nascita di una moneta unica all’interno di aree geografiche estese? Be’, comporta proprio la perdita di sovranità nazionale da parte dei singoli Stati a tutto vantaggio di enti e organismi che sono sovranazionali, i cui rappresentanti non vengono eletti dalla popolazione – pensiamo ad esempio in Europa al Consiglio Europeo, pensiamo alla Commissione [Europea], che rispetto al Parlamento Europeo di Strasburgo o di Bruxelles hanno tutto il vantaggio di una priorità legislativa in barba, diciamo così, alla volontà della popolazione. E quindi abbiamo la nascita di nuove signorie fondiarie, dove investitori dalla potenza finanziaria smodata e ingente hanno davvero la possibilità di entrare e uscire dai mercati senza rispettare le regole degli Stati nazionali, senza avere, diciamo così, delle occasioni di regolamentazione, dal momento che il mercato – si dice e si propugna – è libero e gli operatori hanno e devono avere la possibilità di crescere senza barriere.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Feudalesimo? Be’, c’entra e molto. Perché la ricchezze che vengono create a livello finanziario vengono molto spesso riparate in società off-shore, nei paradisi fiscali, con un metodo molto praticato che è il Trust. Il Trust è un istituto giuridico che consente di trasferire la proprietà, la ricchezza ad un, diciamo così, prestanome, ad un trustee, che per nome e per conto del titolare la ricchezza la gestisce con un patto fiduciario, secondo quello che è un criterio di riservatezza, secondo quello che oggi è stato più comunemente definito da molti critici, da molti osservatori, come una tecnica oscura. Be’, diciamo che il Trust è uno strumento legale che consente di parcheggiare ricchezze in diversi Stati; le tecnologie consentono di trasferire queste ricchezze da un capo all’altro del mondo senza sgambetti, senza possibilità di essere visionati e supervisionati da enti di controllo. Insomma, la rete tecnologica del capitalismo più avanzato presta il fianco alla valorizzazione del Trust, uno strumento giuridico che, ricordiamolo, è nato agli inizi dell’anno 1000. In piena epoca feudale, i cavalieri, i nobili che partivano per le Crociate, conferivano, attraverso un patto fiduciario ad un trustee le proprie proprietà, le proprie ricchezze, perché a loro volta questi fiduciari potessero gestirle per conto degli eredi, nel caso in cui questi nobili non ritornassero dalle Crociate in Terra Santa.

Bene, nel corso degli anni, di 900 anni e forse anche più (dal 1066, quando pare che il primo Trust sia nato, proprio in un’isola della Manica dove vigeva la consuetudine di scrivere i trattati e gli atti) bene, il trust ha resistito per tutti questi anni, è avanzato, e oggi è, diciamo così, il vero strumento con cui non tanto e non solo i nobili e gli aristocratici dal sangue blu, ma anche i nuovi ricchi e le nuove oligarchie trovano il modo di parcheggiare le loro ricchezze e di portarle nei paradisi fiscali. Uno strumento giuridico che appunto nasce nel Medioevo, si tramanda nel corso dei secoli e oggi viene impiegato da moltissime persone, non tanto e non solo i ricchi, i nobili di allora, ma anche i parvenu, coloro che attraverso le reti telematiche, attraverso le risorse, attraverso le attività di intermediazione e di attività sui mercati finanziari hanno trovato il modo di arricchirsi e di pensare a come gestire in piena riservatezza le ricchezze che hanno creato.

Per questo credo che la tesi del Capitalesimo, pur essendo una tesi forte, è una tesi che è condivisa dagli atti, dai fatti, ed è supportata da una serie storica numerosa di prove e di fatti che non sono più dei sospetti, non sono più degli indirizzi, ma sono delle prove certe. Il capitalismo si è fuso con un istituto giuridico medievale per dare vita e forza ad una salvaguardia delle ricchezze a discapito dei principi democratici inneggiati dalla Rivoluzione Francese, i principi di libertà, uguaglianza, fraternità, ma potremmo dire anche al diritto della sovranità di ogni nazione di potersi dare una politica di indirizzo, anche a livello monetario: di poter cioè gestire la propria libertà di regime fiscale, di regime monetario, come fanno alcuni paesi, ad esempio la Gran Bretagna, che ha deciso di restare fuori dall’Euro, di poter battere moneta, di decidere in autonomia quale regime fiscale applicare all’interno del proprio Paese senza dover rendere conto a organismi internazionali, sovranazionali, come purtroppo – qualcuno dice per fortuna – stanno facendo i Paesi dell’Unione Europea.
 (Fonte)
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